Corey And Damon

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Loveless
view post Posted on 19/3/2008, 19:11 by: Loveless




NUOVO CAPITOLI XD

Capitolo quattordicesimo
Embarassing confessions


Damon stava seduto alla scrivania della propria camera, la fronte appoggiata al ciglio del tavolo ed una mano sotto di essa, fissando il pavimento. Aveva completamente abbandonato quel libro di Storia che da ore provava a studiare invano. I capelli gli scendevano boccolosi ai lati del viso, velando l’armonico definirsi del suo profilo sottile contro l’orizzonte variopinto dei quadri ad olio. Quasi sussultò nel momento in cui la porta si aprì all’improvviso. Era di nuovo l’avvocato Marshe, il quale, dopo essere entrato, richiuse lentamente la porta dietro di sé appoggiandosi contro di essa a braccia conserte. — Ti ho interrotto mentre stavi studiando?

— No.

— Allora vuol dire che non studiavi?

— No. Cioè, sì… ma la tua visita non mi disturba.

Alan rise bonariamente. — Devi imparare a parlare, ragazzo mio. Altrimenti tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te. Ma non ti preoccupare: avrai molto tempo per farlo. — Avanzò qualche passo verso di lui per sbirciare sui suoi libri aperti. — Che stavi studiando di bello? Ah! Storia magistra vitae, diceva Cicerone. Conoscere gli errori passati per evitarli nel presente, giusto?

Damon sorrise forzatamente.

— Come procede il nuovo anno scolastico?

— Bene.

— Davvero? Non ci sono problemi da nessuna parte?

— No, per adesso ho dei buoni voti. Non ho preso alcuna insufficienza.

— Mi raccomando, dacci dentro. Quest’anno ci saranno gli esami: io so che ti meriti il massimo dei voti e che ce la puoi fare. Pensa che io fui promosso con cento e lode. Io alla tua età ero il migliore della mia classe, ma sono convinto tu possa fare persino di meglio. Non è, d’altronde, la maggiore aspirazione di un genitore, che il figlio divenga migliore di lui? Tu sai cosa intendo. Per qualsiasi problema, io sono a tua disposizione. Ci siamo capiti?

— Sì.

— Dovrai smetterla di esprimerti per monosillabi, Damon, come fai da un po’ di tempo a questa parte, altrimenti non ti capirà nessuno. Imparare l’arte della parola è una delle prime prerogative per riuscire nella vita. Tutti i più grandi lo dicevano. Non hai mai letto l’Antidosi di Isocrate? È uno splendido discorso. Non a caso fu in Grecia che fiorì per la prima volta la parola, la quale riscatta l’uomo dal suo stato di ferinità e lo rende simile agli dei. Senza un corretto uso di essa non potrai argomentare le tue ragioni, né farle valere, ed avrai sempre torto nella vita. Perché, vedi, devi capire che non è importante quale sia la verità. L’importante è che, nella mente di chi ti ascolta, risulti vero ciò che tu vuoi che sia vero, indipendentemente da quello che è in realtà. Solo così hai la possibilità di ottenere risultati ed avere un posto di rilievo nella società. Ma per imparare questo servono sforzi ed abnegazione. Cos’hai da dire riguardo a ciò?

— Hai… perfettamente ragione. Concordo in tutto quello che hai detto.

— Vedi? Non hai capito niente. Non puoi dare ragione in questo modo. Devi far valere le tue, di ragioni.

— Scusa… mi dispiace.

— Ah, questo vuol dire forse che non la pensi come me? Che tutto quello che ti ho detto finora per te è spazzatura?

— No. Assolutamente no. Ecco, perdonami, io volevo solo dire che…

— Smettila di scusarti sempre. Se qualcuno si scusa è perché sa di essere in torto. Ti senti forse colpevole di qualcosa, nel tuo animo?

— No. Ma… perché ti stai rivolgendo a me come se fossi uno dei tuoi imputati? — Damon si pentì subito di averlo detto. Vide l’espressione sul volto di suo padre mutare completamente.

— Mio caro, — gli rispose calmo Alan. — Lungi da me dal trattarti come un imputato. Io voglio solo farti aprire gli occhi a quella che sarà un giorno la vita. Perché la lotta per la selezione è spietata: il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e tu sei restato fin troppo sotto una campana di vetro. Forse ancora la situazione è prematura, ma un giorno tu stesso sentirai il bisogno di liberarti dei trastulli infantili e di tutte le belle cose astratte di cui ti sei occupato finora. — Così dicendo si guardò intorno nella stanza, comprendendone almeno tre pareti nella panoramica. Poi, a bruciapelo, gli chiese: — Quand’è che giochi la prossima partita?

— Il prossimo venerdì.

— Già. Per quel pomeriggio io ho un impegno a Washington, ma non ho alcun problema nel ritardarlo di qualche ora. Non mancherei a fare il tifo per niente al mondo. Provo pena per quei padri che si dimenticano gli eventi sportivi dei figli. A che ora giocate?

— Dalle quattro alle cinque.

— Benissimo, rimanderò di un’oretta il mio incontro con la signora Finckestein: verrò a vederti vincere e prenderò l’aereo subito dopo. Perché sono sicuro che vincerai, ragazzo mio. Non ne ho alcun dubbio. Quando avevo la tua età, io ero l’asso della squadra e segnavo da dodici metri di distanza. La nostra scuola arrivò prima al torneo e vinse persino una coppa, che naturalmente fecero tenere a me nonostante non fossi il capitano della squadra. Quello, sai, diventò capitano solo perché era un raccomandato. Non aveva talento o doti personali. Così, vedi dove si può finire con le spinte giuste. Credo di avertela già fatta vedere, la coppa, no? Quella fu una grande vittoria. Un giorno che non scorderò per il resto della mia vita. Ma sono scuro che tu saprai fare di gran lunga meglio di me. Io ci conto molto: so che non mi deluderai.


Dal foglio dove stava disegnando uno dei suoi tanti schizzi, Damon alzò lo sguardo verso Corey, che gli stava di fronte. Si trovavano in spiaggia, seduti sulla sabbia a qualche metro dalla riva, con un fastidioso vento che gli spettinava i capelli. Già da qualche minuto si era accorto che sul volto del suo amico c’era qualcosa di strano, un’espressione contratta e indescrivibilmente triste.

— Corey, che ti succede? Cos’hai, non ti senti bene?

Il ragazzo abbassò lo sguardo, quei suoi bellissimi occhi del colore del cielo. — Non è niente. ― Si portò delicatamente una mano sullo zigomo. Oh, era inutile… non riusciva ad arrestare le lacrime: parevano dotate di vita propria e scendevano amare subito raggelate dal vento autunnale. Cercò di asciugarle col dorso della mano sperando di non darlo a vedere, ma era impossibile. Impossibile impedire quei singhiozzi, sorti spontanei e senza motivo, e quell’autentico pianto che non aveva avuto in quel frangente fattori scatenanti, impossibile bloccare la disperazione che quel mare risuonante e quel cielo cupo, il trovarsi lì con lui in quel preciso istante, quell’averlo vicino, a un attimo da sé e non potergli parlare, non poterlo toccare come avrebbe voluto, quel loro essere così divisi da una barriera invisibile provocava indissolubilmente nel suo cuore sanguinante.

Damon appoggiò sulla sabbia la matita e l’album da disegno. — Che ti succede? — gli chiese ancora con voce che a Corey parve dolcissima, come l’ambrosia degli dei, carezzandogli il braccio con la mano. — Ti fa male qualcosa?

— No… sto bene… davvero… non ti preoccupare.

— Se hai qualche problema, me ne vuoi parlare? Corey, non piangere…

— Ti prego, non badare a me… non farci caso… a volte mi succede… È solo un po’… di malinconia… solo un po’ di malinconia… adesso passerà tutto.

Fu allora che, inaspettatamente, Damon lo abbracciò con tutta la dolcezza che Corey avesse mai osato sperare da qualcuno. Sentì dentro di sé una sensazione di calore e di immensa beatitudine, nonostante fosse immerso in quella passione angosciosa, come tra le braccia di un angelo o di una creatura soprannaturale.

― Corey, ― si sentì sussurrare, — tu sei mio amico, ti voglio bene e non posso vederti così. Dimmi cosa ti succede.

Oh, com’era trovarsi lì, davanti a lui, a due centimetri dal suo viso!

— Deve esserci un motivo per piangere in questo modo, così all’improvviso, quando un minuto fa scherzavamo. Perché questo cambio di umore così repentino? Che ti è passato per la testa? Qualunque cosa sia, se anche solo minimamente pensi che io possa aiutarti, parlamene!

Corey non riuscì a reggere il suo sguardo: abbassò gli occhi con un nodo alla gola ed un senso di frustrazione opprimente. Scosse lievemente la testa.

— Perché no? — gli chiese ancora Damon, facendo per accarezzarlo sul viso con una mano.

Corey retrocedette di scatto. — No, non toccarmi! — replicò tra le lacrime. — È meglio che me ne vada… — Si alzò in piedi e scappò via disperatamente.

— No, aspetta! — Damon gli corse dietro, riuscendo infine ad afferrarlo per il braccio. Lo strinse di nuovo a sé, finché non ricaddero sul bagnasciuga. — Perché fuggi in questo modo?

— Io… se te lo dicessi forse rischierei di perderti, e questo non lo voglio… no… preferirei morire.

— Non mi perderai. Qualunque cosa sia.

— Non è vero. Tu ora dici così, ma poi… Damon, sono settimane, ormai, che non faccio che tormentarmi. È che la mia è una mente incline al tormento. Non sono in grado di superare i problemi con serenità, compresi i miei rapporti con le persone, e non troverò mai requie alcuna. Se ora ti apro il mio cuore, perché non posso più vivere in questo modo, tu probabilmente fuggiresti via per sempre da me e non lo sopporterei. Perciò ora ti dico: se tu lo facessi ne capirei le ragioni, pur non condividendole. Ma ti dico anche che non mi aspetto niente da te: niente di più di quanto io abbia già avuto finora. Non hai alcun obbligo nei miei confronti, è una cosa soltanto mia, e forse non dovrei neanche parlartene.

Corey parlava con voce tremante, sconvolta.

— Vedi, — continuò, — è proprio dalla prima volta che ti ho visto, dacché ricordo di avere incontrato il tuo sguardo, che ho pensato che tu fossi meraviglioso. In ogni senso. E, mano a mano che ti conoscevo, mi piacevi di più. Perché sei anche dolce, sei… — gli sorrise dolcemente, — …la creatura più bella che io abbia mai incontrato. Hai qualcosa di speciale, quasi di celestiale. E io, Damon, mi sono innamorato di te. Sì, lo so che non va bene. So che è innaturale, che è orribile e tutto quello che si dice in giro, e tu forse ora mi odii, sono pronto anche a questo, ma non posso negarlo, almeno a me stesso non posso.

Appena smise di parlare, Corey si accorse di essere di nuovo caduto nell’imbarazzo. Le sue ultime parole erano state annegate ed infervorate da nuove lacrime, inarrestabili, sul suo volto.

Damon gli sorrise. — Non ti preoccupare, è tutto a posto, — gli disse abbracciandolo. — Va tutto bene, non piangere. Non è cambiato niente tra noi. Ti voglio bene esattamente come te ne volevo prima. — Gli asciugò il viso delicatamente con le dita. — Calmati, — gli diede un bacio sulla guancia. — Va tutto bene.

Ora che glielo aveva confessato, Corey si sentiva in uno stato ancora peggiore. Fino a poco prima non credeva neppure di averne il coraggio, ora si trovava a pensare che sarebbe stato meglio non averlo fatto. Aveva forse sperato di sentirsi rispondere: “Ti amo anch’io e da sempre”?

Non aveva fatto altro che confondere ulteriormente le loro due menti, già abbastanza malandate, poiché aveva capito che nell’anima di Damon, nonostante quella bella casa, la famiglia ricca e la vita perfetta, c’era del dolore segreto. Tuttavia si era comportato in modo affettuoso nei suoi confronti: non solo non lo aveva respinto come tutta la società gli avrebbe dato il diritto di fare, ma gli aveva detto: “Siamo amici, non è cambiato niente.”

— Avanti, torniamo a casa, — gli disse Damon con gentilezza, alzandosi in piedi e porgendogli la mano. — È inutile restare qui a prendere freddo.

E cosa avrebbe dovuto fare lui? Stringere di nuovo quella mano adorata che gli porgeva aiuto e sentire ancora il contatto della sua pelle fresca e delicata sotto la propria, mentre avrebbe voluto sentirsela sopra in ogni momento della propria vita e non solo per quegli attimi sfuggenti?

Si rialzò da solo quasi scostandosi da lui inconsciamente, senza bisogno di prendergli la mano, che Damon ritirò lentamente subito dopo. — Forse è meglio… ― sussurrò Corey, sforzandosi con poco successo di mantenere fermo il tono della propria voce, — che io torni a casa da solo. Davvero, ho già fatto tardi.

— Perché fai così? — gli chiese invece il suo amico, mostrando la preoccupazione degli occhi anche nella sfumatura profonda della voce. Ah, era talmente bello! La sua immagine sottile, i capelli spettinati dalla brezza marina e i suoi occhi chiari come il mare all’orizzonte avevano quasi il potere di intenerire l’espressione tipicamente gelida sul volto di Corey. Ma sulle sue labbra ugualmente non si dipinse la parvenza di un sorriso.

“Perché… Tu vuoi sapere perché. Ma non capisci che è una sofferenza anche solo guardarti negli occhi dopo quel torrente di parole con cui ti ho sommerso?” Abbassò lo sguardo, frustrato e sull’orlo delle lacrime, senza riuscire a dargli una spiegazione. “Ormai per me sei divenuto un pensiero fisso, anche se mi fossi lontano non riuscirei a non pensarti.”

— Perdonami, io… ― mormorò Corey senza osare incontrare nuovamente i suoi occhi del colore del mare. — Non avrei dovuto parlarti in quel modo. — No… non doveva guardarlo mentendogli così spudoratamente. Per settimane si era chiesto quale sarebbe stata la reazione di Damon, temendo il suo rifiuto. Ma lui non lo aveva rifiutato, anzi, aveva continuato ad offrirgli tutto il suo affetto. Allora perché si sentiva così male? Forse perché si era fatto troppe fantasie su quel loro amore che non sarebbe mai nato, pur sapendo perfettamente che tali sarebbero rimaste.

Poi tutto aveva preso un’altra piega: glielo aveva confessato di punto in bianco, ma quella mattina certo con si era svegliato con lo scopo di farlo. Non era pentito, si sentiva più leggero, era solo incredibilmente amareggiato. Si sentì tremare. Il freddo della sera si insinuava nelle sue vene come coltelli di ghiaccio, o forse era la sua mente a vagare smarrita in cerca di una certezza. “Ma al mondo non esistono certezze. È il Dioniso di Nietzsche”.

Damon avanzò lentamente qualche passo verso di lui, ma quando fu sul punto di appoggiargli le mani sulle braccia, anche solo per un contatto che lo riscaldasse, Corey si sottrasse al suo gesto quasi ne fosse scottato. Dunque sorrise in modo talmente forzato che più che un sorriso appariva una smorfia disperata, ed alzò il volto verso di lui, ma senza guardarlo negli occhi. — È meglio che vada, — ripeté flebilmente.

Damon contraccambiò la sua smorfia sollevando solo lievemente le estremità della bocca, in un accenno di sorriso, tanto gentile quanto doloroso. — Se è così che preferisci, d’accordo. Spero di vederti… domani. — Le sue parole si affievolirono come una candela che si spegne. Prima ancora che avesse terminato di parlare Corey era corso via, svanendo definitivamente dalla sua visuale.


Stava rannicchiato sul posto di guida, nella sua auto avvolta dal buio delle tenebre ogni giorno più precoci. Avrebbe avuto molte alternative, lì, fermo davanti ad un passaggio a livello sbarrato, senza cintura di sicurezza, in una posizione che avrebbe fatto rabbrividire qualunque istruttore di guida. L’auto era spenta, e le sue ginocchia piegate sul sedile impedivano ai piedi di toccare terra: fosse dovuto ripartire in fretta non ce l’avrebbe fatta. I suoi occhi vedevano tutto sfuocato, tanto erano offuscati dalle lacrime. Con quella confessione aveva ormai rovinato tutto!

“Non hai mai voluto capire che tu non conti nulla per lui? Non conta niente che ti abbia cercato qualche volta per uscire insieme o che abbia voluto rappresentare il tuo volto in uno dei suoi ritratti, o appoggiato la testa alla tua spalla, dormito una notte abbracciato a te… Non ha nessuna importanza questa intesa perfetta che c’è tra voi e che non potresti condividere con nessun altro, od il fatto che lui per te sia l’unica persona con cui riesci a parlare di qualcosa di intelligente e che rispecchi il tuo gusto artistico oltre che estetico… non conta niente.

“Perché non vuoi capire che ha un’altra vita dove tu non conti? A conti fatti non vi conoscete neppure. Vorresti forse competere con una che gli sta dietro da tutta la vita? Pensi forse di poterlo conoscere o capire meglio di quella svampita il cui problema più grave è che non le si increspino i capelli?

“E poi sei un ragazzo. Lui potrebbe benissimo disprezzarti, se lo volesse, ma non lo fa perché è una persona dolce e gentile, ed è anche per questo che lo ami tanto. Cosa vorresti? Che vada contro natura per compiacere te? Tu non puoi essere neppure suo amico, neppure se ti ha detto che sta meglio con te che con quegli altri del gruppo. Anche se ti dice così, i suoi amici resteranno loro.”

Corey sentì il petto spezzarglisi in singhiozzi. Non era giusto… non era giusto! In altre circostanze, forse… avrebbero potuto essere insieme, lo sapeva, lo sentiva. E poterlo avere vicino lo faceva soffrire indicibilmente. Avrebbe potuto benissimo riaccendere l’auto, pigiare il più forte possibile sull’acceleratore, spezzare la barriera metallica e schiantarsi addosso al treno. Ne sentiva il rumore in quello stesso momento, stava arrivando. Tra le lacrime rise ironicamente.

Aveva tre alternative: schiantarsi contro quel maledetto treno; fare dietro front verso quella spiaggia malinconica e tornare da lui, gettarglisi tra le braccia e trovarsi di nuovo a contatto con il suo corpo, col suo profumo (lui non lo avrebbe allontanato, ne era certo); oppure, come ultima possibilità, semplicemente aspettare che il treno scorresse via fluidamente sui binari e che le sbarre si sollevassero, per ripartire e finalmente tornare a casa, nella sua orribile e noiosa casa deserta.

“Non lo farai!” ordinò dentro di sé, avendo ormai da tempo imparato a fronteggiare i suoi sempre più frequenti propositi suicidi. “Non ti permetterò di ucciderti finché sei ancora giovane e bello, e Damon non ha mai detto che ti disprezza. Se lui ti dicesse che ti disprezza ti permetterei di ucciderti, non prima.”

E, visto che la seconda delle ipotesi era pressoché irrealizzabile, aspettò pazientemente che il treno compisse il suo corso sulla rotaia, ascoltando come una tumultuosa canzone il suo rumore sordo prorompere nell’aria circostante. La velocità futurista del mezzo lasciò una desolazione statica al suo passaggio, rotta essenzialmente dalla barra che a poco a poco si rialzava stagliandosi contro il cielo plumbeo.

Corey si accomodò i capelli passandovi in mezzo le dita e cercò di asciugarsi gli occhi come meglio poteva, sebbene sempre nuove lacrime scendessero ad annebbiarli, e non per sua volontà. Quelle erano le condizioni meno indicate per guidare, tuttavia rigirò la chiavetta e ripartì in pochi secondi.

Ma perché non poteva essere una di quelle persone che bastano a loro stesse?

- Continua -
 
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