Corey And Damon

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Loveless
icon12  view post Posted on 16/3/2008, 19:37




Questa fan fict non l'ho scritta io,ma una ragazza del forum dell'ysal,Susy
Ysal Forum

La posterò cui di seguito perchè è davvero un romanzo stupendo(se ne fa un libro diventa milionaria)



Titolo: Corey e Damon

Autrice: Susy
Rating: NC17 (tutto per le lemon)
Capitoli: 35 più epilogo, già terminati.
Disclaimer: Sia personaggi che storia sono puramente di mia invenzione.

Nota introduttiva: Lo ho pubblicato anche da un’altra parte, perciò è probabile che qualcuno già lo conosca. È il mio primo romanzo, per la cui stesura ho impiegato quasi quattro anni (2002-2006), e vi sono molto affezionata. La trama, nuda e cruda, tratta semplicemente dell’amore segreto e tormentato tra due diciottenni – tra cui uno fidanzato ufficialmente –, molto simili e differenti allo stesso tempo: due anime artistiche e filosofiche che daranno luogo ad un rapporto intellettuale oltre che fisico e non mancheranno di scontrare i propri pareri – spesso divergenti – in vibranti elucubrazioni mentali, talvolta affannose, taglienti, estremiste. Il tutto immerso in un’atmosfera d’immagini poetiche, romantiche e decadenti, mare in burrasca e descrizioni baroccheggianti. È un’opera piuttosto bizzarra, che mira a fissare i sentimenti e le sensazioni di un difficile periodo di trapasso come quello tra l’adolescenza e l’età adulta.

Avvertimenti:C’è qualche sfumatura shota. I protagonisti sono due uke reversibili (lo dico per evitare eventuali delusioni), ciononostante non manca la presenza anche della componente semosa.
Il primo capitolo descrive sommariamente una lemon etero, ma poi tutto il romanzo è inequivocabilmente yaoi.

Se desiderate lasciare commenti, sarò felice di sapere cosa ne pensate. Grazie in anticipo a tutti i lettori.

COREY E DAMON

Capitolo primo
Corey and Mandy


Capelli rossi e ondulati, dai riflessi splendenti. Non quel rosso carota che siamo portati a immaginarci quando pensiamo ai “capelli rossi.” I suoi erano del colore del rame, serici e sottili, e gli incorniciavano il viso come quelli di un angelo delle pitture rinascimentali fino a toccargli le spalle.

Forse furono i capelli, per primi, a colpire l’attenzione di Mandy. Ma poi di sicuro aveva notato anche la regolarità perfetta di quel viso, i grandi occhi azzurri, il naso leggermente alla francese, le labbra rosse e sensuali, una bocca… che, come spesso aveva detto lui stesso, non stava zitta un momento.

Tutti si stupivano del fatto che una ragazza come Mandy fosse attratta da una bellezza così androgina. Sulla bellezza di Corey, certo, non c’erano dubbi. Poi si poteva giudicarla infondata, senza il minimo valore, per quelle persone a cui piace l’uomo virile, o semplicemente perché qualche donna avrebbe desiderato possederla sul proprio volto.

Ma Mandy si infatuò, rimase come stregata da lui.

Si incontrarono qualche giorno prima dell’inizio della scuola, in una biblioteca dove lei era andata per una ricerca di storia assegnata per le vacanze estive. Gli chiese se poteva sedersi al suo stesso tavolo, visto che nei paraggi non c’erano posti liberi. Corey le fece segno di sì senza neanche guardarla. Indossava una camicia bianca a maniche corte e stava leggendo un grande libro dalla copertina marrone scuro.

Lei era felice, quel giorno, di aver impiegato tanto tempo a limarsi le unghie e a fare la messa in piega ai suoi lunghi capelli schiariti dai colpi di sole. — Di che libro si tratta? — domandò nella speranza che la guardasse.

Egli difatti sollevò gli occhi. — È un libro di mitologia celtica. — Come lo diceva bene! Mitologia.

— Sembra molto vecchio.

— No, non credo. È la copertina che è fatta su stampo di quelle antiche.

Riprese a leggere. Mandy non poteva permetterlo. — È interessante?

— Non particolarmente.

Mandy osservava ogni particolare del suo volto, innamorandosi di quella pelle liscia come seta. “Penserà qualcosa di me?” si chiese. “Penserà che sono carina?”

— Perché? — ribatté lei.

— Non dice niente di nuovo. Cose che già so. — Corey fulminò con lo sguardo la bibliotecaria che li ammoniva tacitamente di fare silenzio. Non che volesse continuare a chiacchierare con la ragazza, ma non accettava alcun tipo di ammonizione neppure in sordina.

— Mi interessano molto queste cose, — mentì lei che in realtà non sapeva neppure che fosse esistita una civiltà celtica. — Per cosa ti servono?

— Semplice curiosità, — rispose Corey stringendo le spalle. Mentì anche lui, a tale proposito, poiché in effetti stava scrivendo un racconto su quegli argomenti.

— E che cosa c’è scritto, lì?

— Parla dei sacrifici umani. Le stesse notizie che scrive anche Giulio Cesare nel De bello gallico.

— E come li facevano, questi sacrifici? — chiese lei, anche se non le andava affatto di sentire quelle storie.

— Venivano costruite delle enormi prigioni di legno dalla forma umana dove erano rinchiusi tutti i reietti, i ladri e i malfattori. Poi appiccavano il fuoco e quelli bruciavano vivi. Un rogo collettivo.

— Oddio, che cosa macabra.

— Eppure è successo davvero, e chissà quante volte. Il mondo non ha mai smesso di compiere sacrifici umani. I capri espiatori nel paganesimo e le streghe durante la Controriforma.

Mandy si sentiva turbata, e per un attimo si chiese se fosse il caso di continuare. Nonostante fosse un ragazzo piuttosto inquietante, era troppo bello per lasciarselo scappare. — Comunque… ― disse facendo la sua vocina più dolce, — io mi chiamo Mandy Lowell.

Corey fu colpito alla sprovvista da quella vocetta plastificata che, dopo che lui aveva parlato di sacrifici umani, come se non lo avesse ascoltato gli sbatteva davanti quello stupido nome insignificante, da bambolina viziata. Con poco entusiasmo le disse il suo.

“C’è qualcosa che ho sbagliato?” si chiese lei. Cercò di rimediare: — Perché non andiamo a parlare in un posto dove possiamo farlo più liberamente? Magari…

— Magari un’altra volta.

— Ma ci rivediamo, no? Tu vieni qui spesso?

— Anche troppo.

Mandy era raggelata. Lo guardò senza capire più niente. — Sai, — tentò ancora una volta, — mi sembrava di averti già visto da qualche parte. A scuola, forse.

Svogliatamente, Corey la informò su quale liceo frequentasse ed appurarono che era lo stesso, anche se stavano in sezioni diverse.

— Proprio una gran coincidenza, non credi? — ribatté Mandy entusiasta. — Io conosco un sacco di gente, ma a te non mi aveva presentato ancora nessuno. È un vero peccato, mi sarebbe piaciuto conoscerti prima. Sei proprio sicuro che non ti è mai capitato di sentire il mio nome? Sono famosa, al liceo. L’anno scorso sono stata reginetta della scuola e voglio riprovarci anche quest’anno; chissà che la fortuna non sia dalla mia parte. D’altronde sono diventata più carina e se sono piaciuta allora, perché non dovrei piacere adesso? E poi sono il capo delle Ceer-Leaders. Dai, possibile che non mi conosci? Non sei mai stato a vedere una partita di football?

Mandy non riusciva a capire se lui la ascoltasse o meno. Teneva lo sguardo basso sul libro e pareva stesse leggendo. — Il football non mi interessa, — sussurrò dopo qualche secondo, a voce bassa e piuttosto distaccata.

— Bene, allora facciamo conoscenza adesso. Stai con qualcuna?

A quella domanda, Corey alzò gli occhi su di lei visibilmente annoiato. — Oh, ti prego, — replicò con un mezzo sospiro. — Sono venuto qui per leggere in pace. Se vorrai parlare, tra una settimana ci vedremo a scuola.

Mandy rimase come una statua di sale. Per tutta la vita era stata abituata ad avere i ragazzi ai suoi piedi, che facevano la fila per uscire con lei, per farle regali ed essere accettati da lei. Ora chi era questo impertinente per rifiutarla in modo così palese?

— Beh, ti lascio il mio numero di telefono, se cambi idea. — Scrisse il numero in un foglietto e lo appoggiò sul tavolo, accanto a lui. — Tu mi piaci, nel caso non lo avessi capito, — gli disse mentre si alzava per andarsene.

Per tutto il tempo sperò che lui la chiamasse per farla tornare, ma non accadde nulla. Se ne restò lì, assorto nella lettura. Sulla porta Mandy si voltò ad osservare quel suo profilo netto e sottile, che esprimeva una fragilità incredibile. Più lo guardava e più si sentiva indispettita. Finalmente un ragazzo che le piaceva davvero e lui non la voleva!

In quel momento giurò a se stessa che non sarebbe finita lì.



Corey camminava per strada di sera tardi.

Nei marciapiedi squallidi e grigi altro non era che una figura inquietante, ambigua, spaventosamente angelica. Alle coppiette abbracciate e infreddolite dai primi venti della stagione, alle comitive un po’ brille dirette in qualche night club, il suo incedere elegante quasi lo faceva sembrare una presenza eterea, soprannaturale, appartenente alla dimensione inumana di un demone o di un vampiro.

Non era da tutti i giorni incontrare un ragazzo dall’aria efebica e i capelli riccioluti che fluttuavano al vento ricadendo sul colletto della giacca nera a doppio petto, stretta in vita. A guardarlo da lontano pareva più alto di quello che era (un metro e settanta o poco più), proprio per merito di quella sua figura longilinea e perfettamente proporzionata su cui spiccavano le lunghe e dritte gambe.

Con splendida disinvoltura attraversò il tratto più illuminato della via dove brillavano le luci dei bar in procinto di chiusura e si sentivano voci di giovani e anziani riunitisi insieme ad ubriacarsi. Passava talvolta di fronte a certi locali di dubbia reputazione, attorniati da parcheggi poco sicuri, immersi nelle tenebre; guardava con occhi languidi l’arcano fascino della decadenza nei vecchi muri scrostati di palazzine fatiscenti, delle quali edera e muffa avevano preso dimora, e gli scuri gatti randagi dal pelo arruffato, con gli occhi luccicanti nella notte. Nutriva attrazione riguardo a tutto ciò che era tenebroso, buio, incompreso e reietto come la sua anima. Tutto questo ammirava, incantato, ascoltando la subdola, struggente, minacciosa musica che ne proveniva.

Oltrepassò poi i romantici viali alberati dai quali di nuovo poteva avvertire le ritmiche onde infrangersi contro la spiaggia, seguendo il morbido, cadenzato fruscio marino. Nell’oscurità distingueva la spumeggiante schiuma bianca dell’alta marea e, se era una notte luminosa, l’argenteo riflesso del cielo stellato sullo specchio scabro dell’acqua: lo commuoveva e lo riempiva di un’angoscia agghiacciante.

La malinconia lo pervadeva ed avrebbe voluto essere in un altro luogo, come in una città artistica e dal passato glorioso: Parigi, Londra, Venezia, Roma… Il sogno di Corey era comprare delle preziose antichità sottobanco o di farsi accompagnare in qualche luogo misterioso e sconosciuto da individui strani e poco raccomandabili. O forse, semplicemente gli sarebbe bastato poter avere qualcuno che capisse quei dolorosi sentimenti che provava in ogni momento la sua anima tormentata.

Oh, come avrebbe voluto non essere solo di fronte a tutti i problemi del vivere al mondo! Quando era piccolo sognava qualcuno che gli tendesse la mano, che lo portasse via da quella vita che per lui non voleva dire niente, che facesse ordine nella sua testa confusa porgendogli in un piatto dorato ogni verità oggettiva dell’esistenza. Utopie, Corey, utopie. Ora gli sarebbe bastato qualcuno che lo amasse. Ma Corey non ricordava un tempo in cui quel suo insopportabile nichilismo era venuto meno anche solo quel poco che bastava per fargli credere che l’amore puro esistesse nella sua pienezza effettiva. Si domandava se e quanto le leggi estetiche incidessero in tutto ciò. “Noi siamo quello che è il nostro aspetto”, aveva un giorno pronunciato il protagonista di un suo racconto, e Corey lo credeva veramente: non c’era verità più sacrosanta che dire che l’intero universo era governato da leggi estetiche.

Il mare lo estasiava. Dal viale si vedeva anche quella splendida villa che di tanto in tanto egli stesso si fermava ad ammirare, a debita distanza, mentre passeggiava sulla spiaggia. Era immensa e stava proprio di fronte all’oceano, tanto che chi si affacciava sul balcone poteva averne l’infinita distesa azzurra davanti agli occhi: per Corey era qualcosa di magnifico.

La villa era gotica, aveva le finestre di una forma svettante che gli provocava inquietudine solo a guardarla. Il giardino, poi, sembrava lussureggiante e inespugnabile come quello di un antico palazzo rinascimentale. Naturalmente quell’abitazione non era antica a tal punto, ma ispirava un grande fascino in ogni sua fessura ed il giardino si faceva molto desiderare, nei suoi alti cancelli e gli scorci di candide statue classicheggiati che era riuscito ad intravedere senza avvicinarsi troppo.

Un giorno aveva notato la figura splendida di una persona appoggiata alla balaustra che dava sulla spiaggia. Non era riuscito a vederla bene perché era in controluce, sicché aveva potuto distinguere solamente una sagoma scura stagliata contro il sole al tramonto. Era senza dubbio un ragazzo, ma aveva i capelli svolazzanti ed era slanciato ed elegante, coi gomiti sulla ringhiera e la gamba destra leggermente piegata. Gli era piaciuta tanto, quella visione, che era rimasto a guardarla finché il giovane non era rientrato in casa, appena all’inizio del crepuscolo. Poi non gli era più capitato di vederlo intorno al palazzo, neppure qualcuno che gli somigliasse, ed aveva lasciato perdere. Continuava però ad immaginarsi quanto fosse bello abitare in quello splendore di villa che emanava una luce arcaica e misteriosa, assolutamente allettante.

Anche quella sera si fermò a guardarla per qualche minuto ergersi fiera e maestosa, vicinissima alla spiaggia. Nel fresco profumo degli alberi in periodo autunnale, lontano dal centro della città, tra i vicoli bui, a rompere il suo idillio solitario non mancò il pervertito di mezza età, dall’aspetto distinto e di famiglia illustre, che gli si avvicinò chiedendogli gentilmente: — Che fai tutto solo a quest’ora, carino? Cerchi forse qualcuno? Se mi dici quanto vuoi per una notte possiamo metterci d’accordo.

— No, la prego, mi lasci in pace, — gli rispose Corey. — Non voglio certe cose. La prego, se ne vada.

— Andiamo, — insistette l’altro. — Uno come te non viene qui senza pensare di essere scambiato per una marchetta.

— Davvero, non lo sono. Vada da qualcun altro. — Con queste parole tirava dritto per la sua strada senza rivolgere neppure un ultimo sguardo al suo abbordatore.

Tuttavia ciò non gli importava. Era abituato ad ascoltare le richieste indecenti degli omosessuali repressi che volevano portarselo a letto in cambio di denaro e gli si negava nella più totale indifferenza, perfettamente consapevole del fatto che se si fosse presentato in maniera diversa non gli avrebbero mai ostentato certe proposte. Ma cambiare la sua personalità per adattarsi al resto della massa era l’ultima cosa che Corey avrebbe accettato. Non avrebbe mai tagliato i suoi capelli, non avrebbe smesso di stendere sulle labbra il burrocacao alla ciliegia e mai indossato abiti completamente sportivi, se non nell’ora di Educazione Fisica. Non gli importava minimamente di ciò che pensasse la gente intorno.

Quando tornò a casa, dopo mezzanotte, notò subito che l’auto di sua madre ancora non si trovava in garage. Sarebbe passata almeno un’ora prima del suo ritorno. Tutte le luci erano spente: non c’era neppure la sua sorellina Britney, che quella notte restava a dormire da un’amica.

Salì nella propria camera, posò la giacca sul letto, aprì un quaderno e con una penna viola scuro scrisse:

12 settembre 1997

Come posso anche solo sperare di diventare un grande scrittore se non ho mai provato passioni folli, tormenti incontenibili o sentimenti sconvolgenti nel mio cuore? Non ho mai avuto l’ossessione per qualcuno o qualcosa tranne che per lo scrivere, se così è lecito chiamarlo. Il punto è che si possono creare passioni folli nella finzione letteraria, impossibili sono nella nostra piatta e fangosa realtà di ogni giorno. Io sono freddo, asettico come il ghiaccio, e come tale cerco la purezza più nitida.

Posso dire di incontrare persone interessanti, date le mie attuali esperienze? No. Non ho mai amato nessuno di loro. Nessuno di loro è mai stato puro ed io, giorno dopo giorno, vengo a contatto con persone sempre più grette, miranti semplicemente alla propria accettazione in questa orribile società: persone plastificate, preparate in fabbrica in serie illimitata, con pochi pensieri propri e un cervello in comune che ragiona a scopi di meschino interesse. Nessuno si preoccupa di avere pensieri personali nella sua testa. Sono troppo estremista se dico così? La maggior parte della gente, nella società “normale”, non mira ad altro che a far colpo sull’altro sesso, più o meno come fanno gli animali.

C’è questa ragazza, ad esempio, che ho incontrato in una biblioteca nella quale si trovava per caso ed in modo alquanto coatto: mi si è avvicinata e ha cominciato a chiacchierare e chiacchierare, nel modo stupido e petulante che hanno certe tipe, vantandosi di continuo, anche se in un modo del tutto casuale, di quanto sono belle e popolari. Questa, poi, era lo stereotipo in persona della Ceer-Leader. Anzi, non credo proprio di aver mai visto nessuna stereotipata come lei: pareva uscita da uno di quei telefilm che portano in scena la famiglia americana ricca e perfetta coi suoi problemi frivoli e insignificanti. Spesso mi sono chiesto se nella testa di persone come questa Mandy si affacci mai un pensiero davvero preoccupante che non sia lo smalto male abbinato con le scarpe.

Ma chi sono io per giudicare, dal momento che siamo stati a parlare solo per pochi minuti? Certo, non ha mancato di chiedermi se avevo una ragazza. Una domanda da ridere! Figuriamoci, passeranno millenni prima che ne trovi una che mi vada bene! Povera cara, che cosa doveva pensare, lei, se non all’accoppiamento? La mia porta sarebbe aperta a chiunque, se solo qualcuno avesse il coraggio e i requisiti adatti per spingerla. Ma avanti di questo passo resterò solo per il resto della mia vita e io non voglio, perché non c’è niente che mi faccia più paura.

Capisco quanto io sia stato poco delicato con quella povera e ingenua creatura che cercava solo un fidanzatino, ma detesto quel genere di comportamento! Sì, lo so, sono davvero impossibile da trattare e non credo mi andrà mai bene nessuno. La solitudine è il destino di quelli come me, qualora altri ce ne siano, poiché in questo caso avrei piacere ad incontrarli.

In fondo, povera ragazza, non era altro che una femmina di sani principi… più o meno, visto che ha scelto me, che non sono proprio un gran sano principio.

Ho conosciuto, poi, anche l’altro lato della medaglia. Ecco la persona che voleva scoparmi questa sera: sarà stato sulla cinquantina, coi capelli brizzolati e l’impermeabile grigio che lasciava intravedere un elegante completo scuro in giacca e cravatta, perfettamente stirato anche dopo una giornata di lavoro trascorsa probabilmente in qualche facoltoso ufficio con l’aria condizionata e i mobili costosi. Ora, al novanta per cento delle possibilità, l’uomo ha due adorabili figlioli, una moglie che non sospetta dei suoi piccoli vizi con i ragazzi, un cane e una Mercedes: vale a dire una vita perfetta, agli occhi di tutti. Ecco, questo è il classico esempio della persona che mi fa vomitare, che si vergogna della propria anima e la tiene chiusa in un angolo, ben coperta da una finzione senza limiti.

Come si può vivere così? Come si può fingere con se stessi? Dov’è finita la propria coerenza, la propria morale?

La mia anima è quello che vedete, la mia anima è il mio corpo. Nulla di più, nulla di meno.


Già dai primi giorni di scuola Mandy aveva continuato a stargli dietro e a tentare di instaurare con lui una conversazione che non fosse troppo impegnativa e mettesse ben in risalto le sue spiccate qualità socializzanti ed intrattenenti. Prima della lezione e quasi ad ogni cambio dell’ora, Corey si ritrovava davanti quel visetto perfettamente incipriato che lo salutava con uno studiato sorriso a novanta gradi e cominciava a chiacchierare, in modo spedito e molto brillante, con la sua vocetta acuta sempre sprizzante allegria. Quanto gli dava sui nervi quel genere di oche sempre felici in ogni momento, con quell’aria ‘facilona’ stampata sul volto! Ma era legittimo, per persone come lei che avevano sempre avuto la pappa scodellata nel piatto.

Le prime volte avevano parlato della scuola, con qualche banale apprezzamento sui professori o pareri sulle materie, che qualche volta Mandy non riusciva ad afferrare completamente, dissimulando in modo perfetto ogni più piccola mancanza.

Per Corey la sua presenza era più fastidiosa che indifferente: quando la vedeva scambiava con lei quattro chiacchiere tanto per farlo, non gli sembrava un tipo particolare o interessante, né certamente avrebbe sentito la sua mancanza se avesse smesso di cercarlo. Era sicuro che da qualche parte quella ragazza avesse una valanga di amici che ridacchiavano delle sue nuove conoscenze poco consone al carattere popolare del giro che frequentava. D’altronde quando camminavano insieme per il corridoio, Mandy stava sempre a salutare gente a destra e a sinistra, tanto impegnata in quest’attività che raramente riusciva a concludere un discorso di senso compiuto con lui.

Corey non aveva mai avuto molti amici dacché era entrato nel torbido tunnel dell’adolescenza, e neppure prima di allora le sue conoscenze si erano mai sprecate. Aveva quasi da subito preso distanza dai suoi compagni di classe, tra i quali ce ne erano forse alcuni con cui avesse legato di più, ma in linea di massima non aveva stretto rapporti di amicizia con nessuno. Erano dei ragazzi semplici, che vivevano la loro età senza troppe problematiche esistenziali e poco comprendevano la sua passione di comporre versi o scrivere racconti.

I ragazzi erano fanatici di football e baseball, mentre a lui lo sport non interessava minimamente (e questo era attestato anche dal fatto che cercasse sempre qualche escamotage per saltare l’ora di Educazione Fisica), odiava i discorsi volgari, le azzuffate puerili e i gesti irruenti che talvolta vedeva compiere dai suoi scalmanati compagni, preferendo di gran lunga starsene tranquillo a leggere una poesia di Rimbaud o a riflettere su qualche complicata questione esistenziale. A scuola aveva la media dell’otto abbondante ma, nonostante a suo parere fosse un risultato normalissimo il resto della classe ne rimaneva ugualmente impressionato e lo aveva etichettato come ‘secchione’, anche se non ne aveva affatto l’aspetto e in realtà studiava pochissimo. Ciò li portava ad avere una certa reticenza nei suoi confronti, perciò la maggior parte si limitava a chiedergli consigli esclusivamente inerenti alle materie scolastiche, chiarimenti che Corey gli aveva sempre offerto gentilmente.

Su alcune persone era in grado di esercitare un strano effetto di inquietudine che le intimoriva facendole restare alla larga per semplice istinto, anche se lui non faceva nulla per spaventarle. Le ragazze che gli si interessavano rimanevano sempre con un palmo di naso perché era difficile che concedesse loro anche solo la propria compagnia. Inutile dire che se era arrivato a quel livello d’inespugnabile solitudine la colpa era essenzialmente sua e della sua esigenza esasperante e perfezionistica che lo portava a stare male con ogni persona lo circondasse, a non accettare nessuno per quello che era, ad essere in costante, estenuante tensione verso qualcosa di aulico, di luminoso, di particolare e interessante che si sollevasse dal resto di quella massa di automi.

Si era ormai rassegnato ad essere solo e ci aveva fatto l’abitudine in modo tanto scontato da risultare quasi grottesco, come la solitudine fosse ormai divenuta la sua unica amica e con lei si fosse preparato a trascorrere il resto della vita.

Così, benché le persone cercassero di instaurare con lui anche il più semplice dei rapporti, c’era qualcosa nel suo comportamento che inconsciamente le portava a sentirsi rifiutate. Dopo aver vissuto così per quegli anni, Corey non riusciva più a sopportare quella situazione e in uno stato simile, qualora si fosse reso conto che una persona, anche qualcuno a lui detestabile come quella Mandy, gli stava tanto gratuitamente tendendo la mano, lui per istinto non avrebbe fatto a meno di provare lentamente ad afferrarla.

La ragazza aveva anche il coraggio temerario di sedersi accanto a lui durante il pranzo, talvolta non senza alcune delle sue amiche Ceer-Leaders che aveva tanto insistito per presentargli: una si chiamava Beverly, aveva i capelli sempre perfettamente lisciati come uno spaghetto e schiariti fino al biondo platino, tanto innaturali da far notare la ricrescita nera anche da lontano; un’altra, Vanessa, aveva il complesso delle efelidi troppo vistose e per ovviare a questo terribile problema si cospargeva la faccia di quantità infinite di fondotinta fino a che il viso non risultava più scuro del collo.

Erano molti gli amici che Mandy gli aveva presentato, ragazzi e ragazze, tanti che Corey aveva quasi perso il conto, e tutti facevano ovviamente parte di quella casta popolare di studenti brillanti e socialmente ricercatissimi, con la conversazione giusta per ogni occasione e sempre al massimo della compagnia, nella loro affettata e falsa gentilezza. Avevano in comune, tutti quei ragazzi, specialmente le amiche più strette, di attribuire un’importanza spropositata all’apparenza del proprio aspetto fisico, del proprio modo di presentarsi e all’adeguatezza dei propri atteggiamenti, ostentando grande sicurezza di sé e preoccupandosi di indossare sempre l’abito giusto e indossarlo bene.

Generalmente a Corey non importava niente di avere la loro amicizia e guardava la faccia che gli passava davanti di volta in volta con totale indifferenza, anche perché solitamente essa non suscitava in lui il minimo interesse, né la più banale curiosità.


Un giorno, qualche settimana dopo l’inizio della scuola, camminando al suo fianco in corridoio, Mandy lo informò che le era stata assegnata una relazione astrusa dal professore di storia ed era disperata perché in quella materia era sempre stata carente: consegnare un compito eseguito male quella volta avrebbe davvero significato ritrovarsi un quattro in pagella.

— Beh, — fu il commento di Corey, — non mi sembra poi così terribile, visto che il compito te l’ha dato da svolgere a casa. In questo modo puoi consultare tutti i libri che ti pare.

— Sì, certo, — rispose lei sbuffando, — così mi passo l’intero weekend a fare ricerche sulla Guerra di Secessione. Credi che ne abbia tanta voglia? Io volevo uscire questo sabato, magari insieme a te.

— Dove vorresti andare, di grazia?

— Non lo so, a fare un giro per negozi. Andiamo in centro, incontriamo un po’ di gente.

— Oh, muoio dalla voglia, — ribatté Corey ironicamente. — Proprio come tu muori dalla voglia di scrivere quella relazione.

— Ma Corey, è sempre la stessa storia! Si può sapere che diavolo fai il venerdì pomeriggio? Mandy smise per un attimo di camminare, visibilmente seccata.

— Non mi va di uscire, tanto meno in centro a sfilare come se fossi in vetrina!

— Certo che sei strano, — commentò lei per l’ennesima volta.

Corey si era stancato di sentirsi ripetere sempre i soliti luoghi comuni: “Ma che fai? Perché non esci? Perché non ti diverti?” Come se esistesse un unico ed inconfutabile ideale di divertimento da rispettare a tutti i costi e qualora non lo avessi rispettato, ecco che la gente ti etichettava subito come “strano.” Ma poi c’era anche dell’altro, riguardo al fatto che non volesse andare da nessuna parte con nessuno. Solitamente usciva da solo, o al massimo con sua sorella per accompagnarla da qualche parte.

Mandy gli chiese di aiutarla con la relazione di storia, un’occasione buona per portarlo a casa sua. Corey prima diede uno sguardo al materiale che aveva raccolto per la ricerca, poi gliela dettò direttamente, poiché ella non aveva abbastanza cervello per accozzare dieci parole di senso compiuto.

— Sei davvero un genio, non so come ringraziarti, — gli disse Mandy. Ma in realtà conosceva benissimo il modo adatto.

Corey strinse le spalle. — Di niente. — Probabilmente per lui era uno scherzetto da poco.

La stanza di Mandy era come una stanza delle bambole. Aveva la carta da parati a righe verticali rosa incorniciate da fiori; il letto bianco; il comò pieno di spazzole, smalti e trucchi di ogni genere, dal mascara allo stick per la pelle; i libri sparsi sulla scrivania, il PC con un adesivo a forma di farfalla e un porta CD contenente tutti i capolavori di BackStreet Boys, Boyzone e Spice Girls. Sulle sue mani dondolavano mille braccialetti di plastica, al massimo di stoffa elasticizzata o metallo variopinto, e anche gli anelli erano dello stesso materiale, stramoderni e monocromi. Le unghie parevano finte ma non lo erano, almeno quelle.

Corey avrebbe voluto sapere il perché di tutta quella omologazione, ma forse, se glielo avesse chiesto, Mandy non avrebbe capito nulla. Era probabile fosse così proprio perché voleva esserlo, perché si sentiva perfettamente integrata nella mischia. Perciò se ne restò zitto, lasciando che la ragazza riprendesse a blaterare sugli unici argomenti cui era interessata.

― Naturalmente sarò capo Ceer-Leaders anche per quest’anno, ― buttò lì come se a lui importasse qualcosa. Ormai è una tradizione. Cosa farebbero, le altre, senza di me? Sai, sono io che scelgo le ragazze nuove, quelle che vogliono fare il provino, se qualcuna esce o deve essere sostituita. È un lavoraccio. A volte mi si presentano certi elementi che non puoi immaginarti. Quella del quarto D, ce l’hai presente, Hellen Litchell? È troppo grassa per fare la Ceer-Leader: mentre ballava le si vedeva oscillare tutto il lardo in eccesso. Pensa come si sentono, poi, i giocatori di football quando vedono una così! Vomitano in mezzo al campo. Per fare la Ceer-Leader devi essere carina per forza. Almeno un po’. — Si acquietò per un attimo.

Corey era convinto che la propria bocca si stesse storcendo in una smorfia di disgusto, ma si costrinse a restare ancora un po’, forse per l’inconscio desiderio di darle una possibilità, che all’ultimo momento si rivelasse qualcosa di più profondo con cui stabilire un qualche rapporto.

— Ci vuole un bel tifo, invece, a una partita, — riprese Mandy. — So cosa vogliono i giocatori di football. Sono stata fidanzata per un anno con il capitano. Hai capito chi? Andrew Mardsen, quello con i capelli biondi…

— Sì, ho capito.

— Adesso però non stiamo più insieme. — Le premeva specialmente di sottolineare questo. — No, è una storia finita, ci siamo lasciati. Lo ho lasciato io. Troppo volgare, per i miei gusti. Troppo violento. Quando facevamo l’amore era sempre una lotta.

Era convinta di averlo messo in imbarazzo. Invece lui chiese: — Perché dunque continuavi a starci? ― già immaginando la scontata risposta.

Lo guardò con un certo stupore. Poi rispose: — E che ne so? Comunque era uno stronzo, guarda. Alla fine l’ho lasciato e adesso sono disponibile. — “Disponibile per te”, sembrava voler dire.

Corey distolse lo sguardo malinconicamente, pensando: “Lei è così diversa da me, coi suoi problemini frivoli! Così vivace e così ordinaria… non capirebbe mai ciò che provo.

Ma Corey non voleva affatto che una persona come Mandy lo capisse, anzi, nel qual caso se ne sarebbe a buon diritto sentito offeso!

Ma che importa? Non sempre per scopare occorre capirsi.

— Allora, — chiese Mandy con la sua voce più seducente, — te la lasci dare o no, questa ricompensa?

Con le labbra contratte, Corey abbassò lo sguardo. Sapeva benissimo cosa fosse quella ricompensa, allora si trattava solo di scegliere: — Fai come credi.

Mandy chiuse gli occhi e lo baciò appassionatamente sulla bocca. “Fai quello che ti pare”, pensò lui. “Fammi dimenticare tutto. Fammi scomparire da questo orribile mondo.”



A Corey, lei non interessava minimamente. La maggior parte dei ragazzi della scuola avrebbe dato il braccio destro per portarsela a letto almeno una volta nella vita e lui non si sentiva affatto attratto da quella bambolona tutta curve. Non aveva la smania di abbracciarla o di possederla. Il sesso era consolatorio ma freddo, la parvenza di un piacere fittizio che ogni volta lasciava dietro un immenso vuoto.

Non trovava eccitante il suo corpo. Non trovava eccitante niente, in lei, nonostante fosse ritenuta molto carina. Non trovava sopra il suo volto un particolare che lo colpisse… anzi, al massimo lo irritava. Ogni lineamento era nella norma: naso dritto, occhi castani, bocca proporzionata… lei era proprio come cercavano di essere tutti, la faccia che tutti copiavano. Un visetto moderno, a metà tra la giornalista ipocrita e l’attrice sofisticata, con un sorriso poco innocente che a volte quasi sembrava una specie di smorfia e che a lui non suscitava neanche il minimo sentimento. Troppo noioso, troppo dozzinale per interessarlo.

A Mandy non dispiaceva la totale di passività di quel ragazzo dalla pelle liscia come seta, né si curava di ricevere da lui baci o carezze, assaporando per la prima volta il gusto di un ruolo maschile. Era restata con Andrew per troppo tempo e ormai era stanca delle sue veementi ostentazioni di virilità, della sua forza bruta e totale prevaricazione.

Ora, invece, i capelli rossi di Corey, adagiati sul cuscino, si perdevano in mille bellissimi riccioli dai riflessi lucenti. Mandy non avrebbe mai creduto di infatuarsi di un tale ragazzo, era contro le sue norme di vita, contro la sua stessa indole. Le sue amiche a volte la prendevano in giro: — Ma che ci resti a fare con quello? È davvero strano e ha un aspetto inquietante. Potrebbe somigliare a una ragazza, con quel visuccio delicato… Mandy, non è che sarai…? — Mandy ostentava una faccia riluttante e ribatteva: — Che schifo! Ma che vai a pensare? — Poi, per fare un po’ scena e per buttarla sul ridere, rispondeva, stringendo le spalle: — Al limite posso sempre lasciarlo. Che ci vuole? Ne ho lasciati tanti!

Ma per adesso non ci pensava nemmeno. E senza neppure rendersene conto era proprio lei a tentare di dominarlo, visto che lui non lo faceva: gli si era sistemata sopra prendendo tutta l’iniziativa, quasi compiaciuta nel sentire sotto le dita quel suo corpo efebico, così diverso da tutti i suoi muscolosi fidanzati che fino ad allora si erano divertiti a metterla sotto.

Corey aveva il viso schiacciato per metà contro il cuscino e i capelli di Mandy che gli penzolavano sul petto e sulle spalle, ed emanavano quel tipico odore di lacca di cui erano imbevuti fino al midollo. Avrebbe voluto pensare di farlo con qualcuno… qualcuno che non fosse Mandy. Nei suoi pensieri c’era il vuoto indefinito; non c’erano persone che amasse o volesse con sé, con cui desiderasse fare l’amore. Non c’era nessuno, solo un baratro oscuro di cui era impossibile scorgere la fine. Mentre sentiva crescere i loro respiri non poteva fare a meno di pensare che nulla mai sarebbe stato di più che uno stupido atto carnale, che non ci sarebbe mai stata corrispondenza più forte, né con lei né con nessun altro. Questo era insopportabile. Lui sognava un amore puro e incontaminato che riuscisse ad avvolgerlo, a riempire le crepe, ad allontanarlo dal baratro senza fondo. E invece tutto ciò che gli veniva scagliato addosso era solo odio e indifferenza.

Dopo l’orgasmo si mise a piangere, soffocando i singhiozzi sul cuscino. Un momento di non ritorno. La festa è finita, si torna a casa. O forse la festa è stata solo una grottesca marcia funebre, una processione di zombie.

Mandy si alzò sulle braccia e gli accarezzò una spalla. — Corey… che hai fatto?

— Lasciami in pace, — le rispose lui con voce spezzata, scostandola bruscamente. — Allontanati.

- Continua -

Edited by Loveless - 17/3/2008, 07:41
 
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)Lexine(
view post Posted on 16/3/2008, 20:11




Bella... mi piace lo stile di questa ragazza >w<
 
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Loveless
view post Posted on 16/3/2008, 21:30




vai li se vuoi continuare a leggerla subito,io ci metterò un po a postare gli altri capitoli,sopratutto finchè sto qui che ho le connex lenta
 
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Loveless
view post Posted on 17/3/2008, 07:37




Finito Capitolo 1 metto il 2 XD


Capitolo secondo
The brawl

Nello spogliatoio dei giocatori di football, dopo l’allenamento pomeridiano, regnavano un odore e un’atmosfera pressoché insopportabili. I ragazzi erano sudati e irrequieti, se la prendevano tra di loro per i passaggi andati male durante il gioco e si colpivano scherzosamente con violenti pacche virili, ognuno per dimostrare ai compagni quanto fosse forte e quanto bene riuscisse a sopravalere sugli altri. L’aria era pesante e irrespirabile, piena dei caldi vapori delle docce, sicché diveniva inevitabile non uscire da quelle quattro mura annerite di muffa con gli abiti inumiditi e i capelli bagnati.

Scott Carlton stava seriamente pensando di abbandonare quello stupido sport. Per anni aveva fatto parte della squadra di football, con successi più o meno mediocri, perché era quello che facevano tutti i suoi amici di vecchia data tra cui anche l’impetuoso Andrew Mardsen, col quale tuttavia non era mai riuscito a legare particolarmente. Da un po’ di tempo gli allenamenti gli sembravano sempre più stancanti e meno gratificanti: stavano divenendo un tedioso dovere anziché una passione per cui spendere energie e gli importava sempre meno di vincere una qualsiasi partita.

I momenti trascorsi a cambiarsi in quella stanzetta squallida, poi, erano insopportabili: la puerile irruenza di quei suoi compagni che credevano di avere l’età necessaria per godere dei piaceri della vita e rifiutarne invece le responsabilità lo mandava sempre più in bestia. Andrew, per esempio, ne era il caso lampante. Scott lo osservava attraverso il riflesso dello specchio, alla destra della propria immagine di ragazzo dai bei lineamenti poco valorizzati da una certa stanchezza e i capelli neri e lisci, che gli ricadevano sulla fronte. Andrew si stava battendo per gioco con Robert: si immobilizzavano a vicenda, si strattonavano e si colpivano l’un l’altro nel fragore generale.

Per i ragazzi tutto questo era di normale amministrazione, perciò nessuno se ne preoccupò fin quando il capitano non buttò a terra Robert con un forte pugno sulla pancia. Sia che lo avesse fatto per scherzo, sia che volesse mostrare al compagno un qualche segno di disprezzo, quest’ultimo si rialzò con sguardo infuocato e gli si gettò addosso con tutta la propria furia urlando: — Brutto figlio di puttana, cornuto, vaffanculo!

Naturalmente a quegli insulti Andrew non poté evitare di controbattere: — Ridillo un’altra volta! Io ti ammazzo, hai capito? Ti ammazzo!

— Ma sì, deficiente, tanto lo sanno tutti che non vali un cazzo! Non sei buono neanche a scopare.

— E tu che ne sai, eh? Lo vuoi provare se è vero, eh? Lo vuoi provare? Scommetto che ti piacerebbe.

Robert mostrò un sorrisino pericoloso. — Te l’ho detto, Andrew, lo sanno tutti. È inutile che lo neghi, lo sappiamo che è stata Mandy a lasciarti… per la tua impotenza sessuale, non è così?

Andrew lo colpì, ma l’altro riuscì ripetutamente a schivare i pugni ogni volta, rendendo la sua figura di eroe offeso nell’onore ancora più goffa e brutale. Robert seguitò col lanciargli ingiurie gridando fatti per lo più ignari al resto dei presenti. — E poi, Andrew, non hai idea di con chi ti ha rimpiazzato: con quel frocetto dai capelli rossi a cui sta sempre appiccicata. Non puoi negare di avercela vista anche tu. Certo che, per aver preferito a te uno come quello, dovevi essere proprio una merda come amante! Sei davvero caduto in basso, playboy, ma forse un po’ è anche colpa del troppo stress da capitano: sempre a correre su e giù e a pavoneggiarti come un imbecille.

— Io stavolta ti ammazzo! — urlò Andrew indemoniato. — Non la passi liscia: ti prendo il cervello e te lo spappolo.

A quel punto Scott fu certo di averlo visto tremare dalla rabbia.

— Quella troia! — urlò Andrew. — Non è altro che una troia che scopa con qualsiasi cretino le capiti davanti, e se tu osi rinominarmela io ti riduco una larva. Ritira quello che hai detto. Ritiralo subito!

— Che c’è, il povero Andrew si sente punto sul vivo? Allora ho toccato un tasto dolente: ti fa male essere rimpiazzato con un outsider?

Il capitano strinse i denti ad un punto tale che se ne riuscì ad avvertire lo stridore che provocavano urtando gli uni contro gli altri. Scott chiuse gli occhi nel momento in cui Andrew si gettò sulla sua temeraria vittima, senza che essa avesse ora possibilità di scampo.

Ma non fu questo a metterlo in agitazione, quanto il fatto che conosceva la reazione di Andrew quando si sentiva ferito nel suo orgoglio e sapeva come avrebbe agito di fronte a quella situazione.



Corey sistemava i suoi libri nell’armadietto e Mandy gli stava accanto insieme a Beverly e Vanessa, ed altre delle sue amiche Ceer-Leaders di cui lui non ricordava il nome. Queste da alcuni minuti fissavano una ragazza a qualche passo da loro e formulavano sottovoce dei commentini al vetriolo, ai quali ella non dava prova di prestare importanza, benché fosse evidente, e Corey aveva capito benissimo che captasse ogni singola parola uscita da quelle bocche irrossettate di marrone.

— Guardate quanto è grassa, tra un po’ scoppia! — fu proprio Mandy ad uscirsene con una battutina del genere. Le altre la seguirono a ruota: — Ma come si fa ad abbinare l’arancione con l’azzurro? Guardate che abiti, quelli andavano di moda trent’anni fa: ce li aveva mia nonna!

— Pensate, — attaccò di nuovo Mandy, — che quella balenottera lì voleva diventare una Ceer-Leader!

— Per l’amor di Dio, quella non riesce neanche a stare in piedi su una gamba sola!

— Già, le si scarica tutto. — E poi scoppiavano a ridere insieme, subito dopo che Mandy aveva dato loro il primo incoraggiamento. Distolsero l’attenzione dalla povera sventurata solamente quando intravidero, da lontano, una delle loro amichette popolari salutarle allegramente con la mano. Corey alzò lo sguardo e vide questa avvicinarsi accompagnata da un ragazzo che la teneva per mano. Era una tipa esattamente come loro: vestita di tutto punto con abiti che mettessero in evidenza le poche forme che si ritrovava, i capelli lisci come uno spaghetto sistemati uno per uno e, cosa più orribile di tutte, aveva il viso talmente ricoperto di fondotinta che pareva quasi una maschera e copriva ogni singola parte della sua pelle naturale, tanto che se avesse avuto un miliardo di brufoli non si sarebbero notati comunque.

Quando si avvicinarono poté guardare meglio entrambi i nuovi arrivati, ma diede loro solo un’occhiata approssimativa, notando fugacemente che il ragazzo che aveva accompagnato quella snob priva di fascino era di una bellezza deliziosa.

— Oh, Corey, — fece Mandy con quella sua vocetta altisonante e piena gioia, — ti avevo già presentato questi miei amici? Lei è Lena e lui è il suo fidanzato Damon.

Corey rimase a guardarli imbambolato per qualche secondo. Era troppo irretito per parlare. Troppo travolto dallo sdegno che aveva provato ascoltando con quale cattiveria agghiacciante si poneva quella ragazza nei confronti delle persone che gli stavano intorno, constatando al tempo stesso come al mondo non vi fosse la minima giustizia se un ragazzo tanto bello doveva sprecarsi a stare con una come quella. No, non era giusto, era inconcepibile. Tutto questo lo lasciava immobile, di marmo. Sicché non disse niente. Non strinse la mano di Lena quando lei gliela porse. Non li salutò dicendo “piacere” o presentandosi a sua volta.

Si limitò a voltarsi ed andarsene in classe senza pronunciare parola.


Se ne stava seduto al proprio banco col libro di letteratura in mano, aperto sulle poesie di Baudelaire che a volte leggeva prima della lezione come diletto. Aveva notato con la coda dell’occhio una figura alta e slanciata avanzare velocemente verso di lui, ma quando gli fu vicina non ebbe tanta compiacenza da alzare lo sguardo neppure quando questa cominciò a parlargli, con quel suo naturale tono sprezzante. Aveva già capito di chi si trattava. E non aveva alcuna voglia di starlo a sentire.

Scott lo guardava torvo, torcendosi le mani sudate all’altezza della vita, trapelante di ansia ingiustificata, buffa, persino grottesca per un atleta come lui. Era paonazzo in volto come dopo una lunga corsa, e lo fissava con un’espressione preoccupata e allo stesso tempo infastidita. — Puoi staccare quella tua arguta testolina dal libro per un decimo di secondo o Sua-Maestà-il-Re-dei-Secchioni non può perdere neanche un attimo del suo tempo per sapere se morirà o se vivrà?

— Vai ad esporre le tue teorie filosofiche direttamente al giornale della scuola, — fu l’audace risposta di Corey, impegnato nella lettura.

— Non ti interessa se morirai o se vivrai?

— Chi se ne frega!

Scott perse la pazienza e gli strappò il libro di mano scagliandolo a terra dall’altra parte dell’aula.

— Ah, questa non te la perdono, stronzo figlio di puttana! — urlò Corey fuori di sé.

— Ripetilo, se hai il coraggio.

— Sei infantile come un bambino di tre anni, fai schifo! Perché diavolo vieni a rompermi i coglioni? Vattene! — Lo guardava inviperito, con una strana luce scintillante negli occhi dalla quale per un attimo Scott si sentì intimorito. La linea della bocca di Corey era severa, rossa e bellissima.

Il giovane si sporse leggermente verso di lui. — Tu credi che quella merda ti servirà a qualcosa nella vita? Guarda, che la vita vera non sta in un pezzo di carta: sta qui intorno a noi ed è quello che ti succede con gli altri a segnarti il futuro! Con te invece si può parlare solo di filosofia.

— E tu che ne sai? Tu non sai un cazzo di me!

— So che Andrew è incazzato nero con te per via di Mandy. Dice che gli hai rubato la ragazza.

Corey strinse le sopracciglia, incredulo. — Gli ho ‘rubato’ cosa? Io e Mandy non ci siamo mai messi insieme!

— Fallo credere a qualcun altro. Andate a letto insieme, lo sanno tutti.

— Vedo che le notizie girano in fretta, qui dentro. Comunque io non ho mai detto di essere fidanzato con Mandy. Lei non è la mia ragazza. Andrew può dire quello che gli pare.

— No, mi sa che non hai capito. Per tutti, voi state insieme. Per Mandy, state insieme.

— Ma fammi il piacere, è una frottola immensa. Non ho mai voluto legarmi a lei. A nessuno…

— Ed Andrew non ha parlato di ‘dire’ qualcosa, ma di ‘fare’. Vuole spaccarti la faccia.

Corey scoppiò in una fragorosa risata. — Lo scimmione ha esposto la sua minaccia, ora avanti il prossimo. Se Andrew si sente frustrato per queste stupidaggini sono problemi suoi. Francamente non credo abbia un cuore per amare Mandy tanto profondamente come pare.

— Guarda che non sto scherzando: quello vuole ammazzarti davvero. Ma a me che importa? Comportati come credi. Certamente non verrò a raccoglierti col cucchiaino quando non ti si distinguerà più la faccia dal sedere, ma non penso che a quel punto possa importartene più di tanto. Scusa se ti ho rotto, volevo solo avvertirti.

— Oh, e a che cosa devo tanta abnegazione? Ho fatto qualcosa di speciale?

— La smetti di prendermi in giro, moscerino? Un’altra parola e ti faccio nero al posto di Andrew. Ti riduco in poltiglia. Ne faresti venire la voglia anche a un santo, te lo assicuro.

— Devo ancora incontrarne uno, di santo.
Scott gli lanciò un’occhiata sprezzante. — Sei la persona più cocciuta che abbia mai visto. Ma lo è anche Andrew, quando si intesta di una cosa.

— Grazie del complimento, ma non puoi paragonarmi a un protozoo come lui.

— Se fossi in te non lo prenderei così alla leggera. Io lo conosco bene.

— Guarda, Scott, muoio di paura, davvero, — ribatté Corey con un sorrisetto di sfida. — Non darti disturbo per queste sciocchezze.

— Hai ragione. Sono imbecille io che continuo a perdere tempo con te. — Scott retrocedette lentamente. — Fatti ammazzare, sarà divertente. Così magari staremo tutti più tranquilli.

— Bene. Raccogli il libro, quando esci.

Scott se ne andò di corsa quasi fuggisse da qualcosa, senza sentire minimamente una sola parola.

“Figuriamoci se mi avrebbe ascoltato”, pensò Corey fissando irritato il tomo ancora sul pavimento.


Andrew attraversò di filato il corridoio della scuola. Pugni stretti lungo i fianchi, sguardo di pietra, andatura pesante, più di un metro ad ogni passo.

Paul Richmond, il redattore del giornale, era un ragazzetto scarno, un fuscello tutt’ossa senza ombra di muscoli e con un leggero accenno di scoliosi, gli occhiali spessi, le lentiggini sulla carnagione smorta per non dire itterica, e i capelli color carota indomitamente ricci, che lui cercava invano di contenere nei loro cinque centimetri di lunghezza. Quando gli fu riferito l’imminente arrivo del capitano di football al suo cospetto (per parlare con lui; e con chi altri, sennò?), valutò per un attimo l’idea di buttarsi dalla finestra, sapendo di essere ad ogni modo spacciato e di avere ben poche probabilità di mantenere intatta la colonna vertebrale.

Andrew irruppe con impeto nell’aula di redazione dirigendosi immediatamente verso il diretto interessato ed afferrandolo per il colletto della camicia. — Tu, brutta piattola bavosa e insignificante, dimmi subito dov’è quel frocio del tuo aiutante o riduco in poltiglia te e tutta la massa cerebrale che ti ritrovi!

Il povero Paul tremava come una foglia sbattuta dal vento: — C-che cosa? — balbettò a malapena. — Con… con chi hai detto che vuoi parlare?

— Ah, non capisci? Vedrai come capirai bene dopo che ti avrò pestato! — Lo sballottò come un vecchio cencio sgualcito sbattendolo al muro ed urlando: — Quello stronzo dai capelli rossi, figlio di una mignotta: Corey Jones! Tu sai dov’è. Hanno detto che l’avrei trovato qui. Lo tieni nascosto da qualche parte? Non fingere con me, altrimenti ti ammazzo! — Gli mise davanti il pugno chiuso. — Lo vedi, questo? Vuoi sentire quanto fa male?

I ragazzi che si trovavano in classe con loro erano pietrificati e non sapevano cosa fare, indecisi se intervenire o meno, sapendo d’altra parte che ribellarsi al capitano sarebbe stata una guerra persa in partenza.

— Io… io non so dove sia, davvero. Oggi è in ritardo… credevamo che non venisse. Non lo abbiamo visto, te lo giuro… non… non oserei mai mentirti.

— Sta’ zitto, mi fai venire i nervi! E poi non ti credo.

— C’è qualche problema, qui? — chiese Corey irrompendo in quel momento e guardando Andrew in modo inquietantemente provocatorio.

Andrew lasciò andare Paul con uno strattone. — Per stavolta ti sei salvato, larva sottosviluppata. — E si voltò verso Corey avanzando lentamente. — Ma bene… ― sussurrò minaccioso col sorrisetto stampato sulle labbra. — Cosa si prova a scoparsi una puttana? Dimmelo, perché io non lo so. Te l’ha fatto quel giochetto con la lingua? No, perché a me lo faceva proprio bene. Magari potrai chiederglielo, se riuscirai ancora a parlare dopo il ‘discorsetto’ che ti avrò fatto.

Corey continuava a guardarlo dritto negli occhi con impudenza sfacciata, senza lasciar trapelare la minima traccia di paura. — Credi di sembrare tanto forte mostrandoti così geloso?

— Guarda che io ti ammazzo! — urlò Andrew in un impeto di rabbia sconvolgente. — Le vedi tutte le troie qui intorno? Darebbero una gamba per stare con me. Posso avere tutto quello che voglio, io. Ma Mandy era la mia donna, di mia proprietà. E tu ti sei preso una cosa che apparteneva a me, e questo non va bene. No, non va proprio bene!

Lo prese sollevandolo da terra in un colpo e lo sbatté contro il muro. — Lasciami! — urlò Corey con gli occhi sprizzanti di veleno.

— Che pensavi di fare, con lei, eh?

— Sei solo uno scimmione senza cervello, Andrew!

— Che hai detto? Prova a ripeterlo! — Andrew lo sbatté di nuovo contro la parete, poi lo strattonò a terra e gli si buttò sopra di peso immobilizzandolo con le gambe.

— Credi che le persone siano degli oggetti? — gli gridò Corey sprezzante, un attimo prima che l’altro gli scagliasse addosso uno dei suoi destri micidiali schiaffandogli il volto contro il pavimento. Neppure questo riuscì a tenergli la bocca chiusa; appena un istante di stordimento e prese di nuovo a provocarlo: — Credi di poterne usufruire quanto ti pare e poi buttarle e riprendertele quando preferisci? Pensi di poter avere tutto dalla vita, anche l’amore gratuito delle persone? Quale di dignità hai? Ma non ti rendi conto, razza di gorilla senza cervello, che qui dentro non c’è nessuno che ti rispetti davvero? Hanno tutti paura di te, ma se potessero ti sputerebbero in faccia!

— Sta’ zitto!!! Se continui a parlare ti ammazzo!!!

— Allora uccidimi, perché non riuscirai a non farmi dire quello che penso!

Il poderoso destro fu improvvisamente bloccato da una forza, ad Andrew sconosciuta, che lo colpì con un pugno in piena faccia e lo buttò a terra supino. Il capitano riconobbe nell’aggressore il proprio compagno di squadra Scott Carlton, che dopo averlo abbattuto subito lo picchiò nuovamente come spinto da furia cieca, una serie di colpi in pieno volto. Riuscì a dire solo: — Tu, brutto pezzente, traditore…

Intanto davanti alla porta si era accalcata una gran folla di studenti, alcuni preoccupati, altri venuti a godersi lo spettacolo. Corey non capì subito cos’era accaduto, né che Andrew e Scott si stavano ora massacrando di botte. Si trovava disteso sul pavimento, ancora piuttosto stordito, con gli occhi chiusi ed un terribile giramento di testa. Sentiva le voci intorno che si sovrapponevano e si confondevano, e quasi sembravano distanti, irreali, appartenenti ad un’altra dimensione. Si rese conto di stare per svenire e si impose di aprire gli occhi. All’inizio vide tutto sfuocato. “Dove sono?” si chiese. “In paradiso?” Gli sembrava di vedere un angelo. Un viso etereo, un angelo del paradiso che lo guardava dall’alto, si chinava su di lui e per giunta gli chiedeva: — Stai bene?

Oh, quel viso era bellissimo, di una grazia e di una dolcezza indescrivibili. E soprattutto i capelli, la cosa che gli era saltata di più all’occhio, erano splendidi. Così, scendenti dall’alto al basso, gli lambivano fluentemente il collo.

Richiuse gli occhi per un attimo e la visione scomparve, sopraffatta dalla vocetta squillante di Mandy, quasi fastidiosa in mezzo alla mischia. Cercò di tirarsi su, di tornare alla realtà. Vide accanto alla la ragazza uno stuolo di gente che guardava, si dibatteva, vociferava. Alcuni studenti si erano gettati nella rissa tentando di dividere Andrew e Scott, che si guardavano come due lupi pronti a sbranarsi fra di loro e ringhiavano, i capelli bagnati e la fronte imperlata di sudore.

— Oh, Corey! — esclamava Mandy compostamente accovacciata accanto a lui, in modo che gli slip le si scorgessero quel tanto che bastava da sotto la cortissima minigonna. — Stai bene? Andrew, sei un bruto!

— Proprio tu parli, puttana! — ribatté il capitano trattenuto a stento da un tipo tutto muscoli.

Corey si guardò intorno, quasi stupito di ritrovarsi in quel posto tanto materiale, senza riuscire a spiegare la sensazione provata pochi istanti prima.

— Quanto a te, — fece Andrew rivolgendosi a Scott, — questo proprio non dovevi farlo. Via dalla mia squadra, non ti ci voglio più. Vedrai se non riesco a buttarti fuori, brutto stronzo di un giuda. Fatti rivedere e vedrai che ti succede!

— Sai che me ne fotte, di restare nella tua squadra di merda! — rispose l’altro con stizza.


Tornando a casa in auto Corey passò a prendere sua sorella, che aveva trascorso il pomeriggio da un’amica. La vide uscire dalla villa camminando a passi veloci sul vialetto, l’espressione a metà fra rabbia e tristezza. I capelli lunghi e castani, sciolti sulle spalle, erano leggermente spettinati dal vento, e sul suo viso regnava sempre quell’espressione furbetta e maliziosa dalla quale subito si intuiva quanto fosse decisamente molto sveglia, nonostante avesse solo otto anni.

— Sei incazzata nera, — constatò lui appena fu entrata.

— Ti pare possibile? Io e Anne abbiamo litigato.

— Non mi dire.

Corey guardò indietro per fare retromarcia, mentre lei continuava a parlare. — Mi ha detto che ha baciato Jimmy, ti rendi conto?

— Jimmy è quello che ti piace, vero?

— Piace a tutte, tanto, — fece lei infastidita e rassegnata. — Quella stronza! E me lo viene a dire così!

— Avete mai provato a chiedere a Jimmy chi preferisce?

— Sì, ma non lo dice, si vergogna. Gli piaccio io, è ovvio che gli piaccio io. Anche se quella se l’è baciato non ha nessuna speranza. Domani entro in classe e lo bacio anch’io. Gli do un bacio sulla bocca. Come si dà un bacio sulla bocca?

Corey ostentò una mezza risatina. — Non c’è un modo preciso.

— Kerry dice che ha letto in una rivista che bisogna darlo con la lingua. Ma non è uno schifo?

— Dagli un semplice bacio.

Britney restò per un attimo in silenzio a riflettere. — E se Anne glielo ha dato in quel modo? Davvero! Se ha avuto il fegato di farlo?

Corey sospirò. — Che ti importa? Jimmy non sarà certo il ragazzo della tua vita.

— E tu che ne sai? Beh, lasciamo perdere. — Passò qualche altro secondo, poi gli chiese: — Quanti anni avevi quando hai dato il tuo primo bacio?

Il viso del ragazzo improvvisamente si rabbuiò, come se qualcosa di spiacevole si fosse riaffacciato nei suoi ricordi, e rispose seccamente: — Avevo quindici anni, ma non è stato romantico.

— Chissà come sarà il mio… ― mormorò lei con sguardo trasognato. — È una bella sensazione? Che si sente?

— Non si sente niente, — le rispose con voce spenta, ripensando di colpo alla sensazione di sconforto provata con Mandy. Disperazione. Terribile solitudine.

Non parlarono più per il resto del tragitto. Solo quando erano quasi arrivati a casa Britney si decise a chiedere: — Mamma ritarda anche stasera?

— Credo di sì, ha detto di avere gli straordinari. D’altronde oggi è venerdì.

— E a che ora torna?

— Alla solita, verso le una. Senti la sua mancanza?

La bambina gli sorrise. — No, tu sei meglio di lei.

— Oh, su questo non c’erano dubbi! — esclamò Corey scherzosamente.

Alison aveva lasciato un biglietto, appiccicato al frigorifero con una calamita, dove si raccomandava di non mettere a letto Britney più tardi delle nove. Era una vera stupidaggine, quando tra l’altro la mattina dopo poteva poltrire quanto le pareva. Solitamente lui la lasciava restare su finché non le veniva sonno, quindi il venerdì sera restavano insieme a guardare la televisione e a mangiare popcorn.

Corey diede un’occhiata a ciò che la madre gli aveva lasciato per cena e decise di ordinare una pizza. Alison passava i tre quarti della sua vita con in mano piatti fumanti di seconda scelta, ma se doveva mettersi lei stessa ai fornelli era un vero disastro.

Britney in soggiorno faceva lo zapping alla televisione alla ricerca di qualche programma interessante. — Comincia adesso un film che si intitola: ‘Trappola mortale’, — gli disse.

A Corey vennero i brividi. Quindi si lanciò in una delle sue solite ridondanti elucubrazioni mentali senza neppure aspettarsi che sua sorella recepisse una sola parola. — Lo sai che cos’è? — ribatté più per propria soddisfazione che per lei. — È il solito film di merda di serie Z, che piace tanto al mediocre pubblico americano e che i produttori continuano a sfornare perché va alla grande. Un giallo del cazzo, o un thriller, magari con una protagonista belloccia, per attirare gli spettatori maschili, la solita virtuosa che compie imprese impossibili e si mette col maschietto di turno, inserito bell’apposta per accontentare le tristi casalinghe frustrate della loro vita coniugale, con la solita storia d’amore in sottofondo, secondaria e dannatamente forzata. Tutto ciò che ti serve per fare un film è una ragazza con una pistola(1). Non mi ricordo dove l’ho letto, ma è terribilmente vero. Stanca della vita comune, deprimente e ripetitiva, la gente vuole vedere cose iperboliche e avventure folli che nella realtà non succederebbero mai.

— Hai ragione, c’è una ragazza, — disse Britney. Dunque lo aveva ascoltato.

D’improvviso squillò il telefono e la piccola corse a rispondere. — Corey? Sì, ora te lo passo. — Lo chiamò dalla stanza accanto: — Vieni, c’è la tua amorosa.

― Quell’oca giuliva non è la mia ‘amorosa’, sia ben chiaro! ― replicò ad alta voce, forse sperando che dall’altro capo anche lei recepisse.

— Oh, Corey! Come stai? — gli chiese invece non appena ebbe appoggiato la cornetta all’orecchio.

— Più o meno bene.

— Mi dispiace per quello stronzo. Non avrei mai creduto sarebbe arrivato a tanto, dopotutto io gli avevo detto che era finita.

— Ti prego, basta. Ne hai già parlato abbastanza, per oggi.

— Come puoi pretendere che non ne parli dopo quello che è successo? Due ragazzi si sono battuti per me! — Mandy pronunciò l’ultima frase cercando di conferire un tono sdegnato alla voce, ma era impossibile non notarvi anche un velato compiacimento.

— No, ti sbagli, — la corresse Corey. — Un solo ragazzo ha fatto a botte per te.

— Vuoi dire che tu non ti saresti battuto, per me?

— Per il mio orgoglio, forse. Per te no di certo.

— Ah, bella roba! E io che credevo ti importasse almeno un po’! A volte sai essere così cinico da risultare insopportabile… Vabbè, lasciamo perdere. Domani usciamo? C’è la partita di basket.

— La partita di basket? — ripeté Corey, per un attimo incredulo che avesse detto proprio quelle parole.

— Sì. dovrebbe giocare anche il fidanzato di quella mia amica…

— Mandy, non me ne importa niente dei tuoi stupidi amici!

— Ah, già, dimenticavo che il signorino non si abbassa a partecipare agli eventi sportivi da quando ha dichiarato guerra ai giocatori “raccomandati”. Potevi almeno venirci per fare contenta la tua ragazza.

― Tu non sei la mia ragazza! Ma come devo specificartelo, in arabo? Non capisco poi perché tu abbia divulgato una tale menzogna.

― Ma io credevo che…

― Credevi male! Poco mancava che quell’armadio umano mi mandasse in coma!

― Piano un momento, ― cercò allora di rinfacciargli, ― non puoi negare di aver colto la palla al balzo, quando mi hai portata a letto!

― Di’ le cose come stanno, piuttosto: sei tu che hai scopato me, non il contrario!

― Uffh! Beh, comunque, ― riprese lei con tono più calmo, ― tornando alla partita: sarò sola come un cane.

— Ma figurati. — Corey non ci credeva proprio per niente. “Sola” lei, che era sempre circondata dalla gente e salutava tutti mentre camminava per strada. Parlarle in corridoio era impossibile tanto era occupata a sventolare la mano e sorridere. Le stesse cose che faceva quando sfilava come Reginetta della Scuola.

— Dai, ti prego, vieni! — cominciò a implorarlo insistentemente con voce languida e sofferta. — Lo sai che senza di te non mi diverto. E poi, dai, alla fine ti diverti anche tu. Come fai a non divertirti?

— Se stare ad urlare mentre guardi un branco di scimmioni che buttano una palla dentro a un canestro di rete lo chiami divertente…

Lei ribatté con tono drammatico, falsamente singhiozzante: — Sei cattivo, non ti importa niente di me! Mai che mi volessi fare contenta!

Corey prese un respiro e finalmente sbottò: ― Smettila di rompere, Mandy, tanto non ci vengo lo stesso: non può importarmene di meno, del basket.

— Non ci posso credere. Tu non stai bene, hai qualcosa in testa che non ti funziona come dovrebbe. Ti consiglio di farti vedere da un medico, perché hai di sicuro qualche rotella fuori posto.

— Sì, certo, io sono un pazzo senza dubbio, a lasciarmi scappare una come te! — commentò riponendo in quell’affermazione tutta l’ironia che possedeva. ―Tu mi stai troppo addosso! Per un momento ti avrò anche illuso, ma non vedi quanto siamo diversi? Non abbiamo un hobby, non abbiamo una passione o un sentimento che ci accomuni.

— Va bene, certo. ― Sembrava risentita, fredda come la punta di un iceberg. ― Allora se è così che la metti, te ne puoi anche andare affanculo, stronzo. — Riattaccò all’improvviso, lasciando in sottofondo il muto, intermittente, tu-tu del telefono.

Corey rimase agghiacciato. Da una parte si sentiva sollevato da un peso, ma dall’altra si ritrovò di nuovo sprofondato nel nero baratro della solitudine. Certo, se era la solitudine quello che voleva combattere, non poteva certo farlo con Mandy, questo lo sapeva perfettamente. Almeno adesso era fuori da quell’orribile mondo di false apparenze. Ma c’era qualcosa… qualcosa che si lasciava l’amaro dietro. E che non c’entrava con Mandy.

Dopo la telefonata passò la sera con sua sorella. Mangiarono sul divano del salotto, a luce bassa per guardare meglio la televisione, continuando a saltare da un programma all’altro e senza mai vederne uno completamente. Documentari noiosi sulla fauna marina, stupidi talk-show nel decadente stile americano farcito di scemenze, orribili film commerciali, giochi a premi per vecchiette ignoranti, telenovele per mogli represse: tutta fottutissima TV spazzatura.

Poco dopo le undici, Britney salì per andare a letto. Corey, seduto sul pavimento, guardava annoiato lo schermo luminoso che proiettava luci e strane ombre sul suo viso pallido, senza ascoltare una sola parola del presentatore rimbecillito e la sua valletta supersorridente in costume da bagno luccicante e strettissimo.

Si ritrovò sdraiato a terra, gli occhi semichiusi, in uno stato di quasi incosciente dormiveglia dove nei pochi attimi di lucidità non si rendeva neppure più conto che quelle strane sagome artificiali provenivano dallo schermo acceso accanto a lui. Cambiavano colore a una velocità indescrivibile: prima rosse, poi un attimo dopo azzurre, poi gialle zafferano, poi viola acceso, e così via.

Nuvole… le nuvole che da bambino ti fermavi ad osservare disteso nel parco e a cui attribuivi mirabili forme di animali fantastici, meravigliosi prodigi, grandi cose effimere e irraggiungibili. Ombre che si evolvevano continuamente, che in ogni istante si scioglievano e si addensavano in una forma diversa, ombre che in ogni momento diventavano essenza di un viso diverso e che non la smettevano di parlare, sebbene lui non capisse cosa dicessero, perché le loro voci si confondevano, diventavano lentamente una sola e unica voce, cattiva, minacciosa, e la faccia non era né bella né brutta, un misto tra tragedia e commedia. E così si apra il sipario ed entrino gli attori. Cominci la spettacolo.

Sua sorella era già cresciuta, già diciottenne e diceva: — Io devo diventare una Ceer-Leader, devo riscattare la scuola da quest’infamia. — Si era schiarita i capelli di biondo e non sembrava più lei. C’era una festa e tutti urlavano e saltavano, con abiti dai colori sgargianti ed elettrici; urla di giovani e adolescenti che compivano un sacrificio umano nella notte… poteva vedere i cadaveri carbonizzati attraverso il fuoco e gli facevano orrore. E il fumo… il fumo saliva alto, fino a perdersi nel cielo e plasmarsi in nuove forme sempre più inverosimili, sempre più grottesche.

Scappare da quella mischia era impossibile, sì, perché c’era un’unica via di fuga, ma era al chiuso dove non c’erano luci, né lui riusciva a trovare l’interruttore per accenderle. Ed era pieno di scale ripide che si rigiravano su se stesse, discese e salite convulse, una delle quali portava ad una stanza dove entrava solo chiarore dalla piccola finestra. Era una vecchia soffitta che racchiudeva libri antichi e vecchie suppellettili impolverate. C’era odore insopportabile di chiuso… e lui, tastando il muro scrostato, cercava disperatamente l’interruttore della luce perché non riusciva a vedere niente, neppure a ritrovare la porta, e una volta che l’ebbe trovata il percorso non era più lo stesso, ma diverso, cambiato altre mille e mille volte…

Sospirò con un lieve gemito e aprì lentamente gli occhi, incapace di muoversi. Non riusciva a sopportare che al mondo esistessero tutte quelle cose (troppe!) che la mente umana non riuscisse a controllare. La televisione, così logica, sicura e rincuorante, procedeva speditamente con un’altra vendita promozionale. Si accorse di avere i capelli appiccicati al viso sudato. “Almeno sognassi l’angelo di oggi”, si disse. Invece rivide Mandy col suo abbigliamento da modella, che diceva: — Proprio non capisco questa tua ostinazione, Corey…

— Corey? Corey?

Una voce esterna da tutte le altre lo scosse fastidiosamente. — Corey, mi senti? Ti svegli o no?

Aprì di nuovo gli occhi e riconobbe china si di lui l’immagine di sua madre, l’espressione stanca e irritata, che continuava a ripetere: — Ma guardati, ti sei addormentato sul pavimento. Guarda che disastro, qui intorno. Tu pensi che io abbia voglia sempre di starvi dietro con la scopa a pulire? Credete forse che sia la vostra serva? Certo che è una soddisfazione tornare la sera tardi e trovare la casa ridotta in questo stato!

Corey si rialzò, facendo leva sui gomiti, forse troppo velocemente perché non gli girasse la testa. — Io… avrei rimesso a posto.

— Come no. Ripulisci tutto e poi vattene a letto. Sono troppo stanca anche per incazzarmi. — Prima di andarsene lo guardò un po’ meglio e proruppe in una sviolinata di puro dissenso. — Ma che ti è successo? Non dirmi che hai di nuovo fatto a cazzotti con qualcuno!

“Beh, fatto a cazzotti… non è proprio l’espressione giusta”, pensò lui.

— Oddio, Corey! Sei… sei qualcosa di impossibile! Non ce la faccio proprio più, con te. Perché devi sempre cacciarti in qualche guaio? Devi fare casino per forza, altrimenti non sei contento! — Era disperata, stava per mettersi a piangere. — Ma quando ti deciderai a crescere? Guarda che ormai hai diciotto anni! Non puoi continuare così. Cristo, mi farai dannare!

— Non puoi trattarmi in questo modo! — le urlò lui di rimando. — Io non ho fatto niente di male, ma tu riusciresti a trovarmi una colpa in qualunque occasione. Lasciami in pace! Chi ti ha chiesto niente? Vattene via. I miei affari me li gestisco da solo perfettamente, senza che tu ci metta in mezzo quella tua lingua biforcuta!

— Lascia perdere… ― fece lei con voce atona.

— Io non ne posso più, di te, hai capito? Appena posso me ne vado da qui. Non ne posso più di stare con te, non ti sopporto più!

— No, guarda lascia perdere. — Alison, gelida, risentita e tacitamente furiosa, cominciò a salire al piano disopra con la treccia castana che le penzolava sulla schiena, lunga quasi fino alla vita. — Guarda, hai ragione. Ma perché perdo tempo con te? Che mi importa? Fai pure quel che cazzo ti pare. Ammàzzati, se ti diverte.

Corey sedette per un attimo sul divano con una sensazione di freddo addosso. Accese la lampada e spense la televisione. Ma sì, se ne andasse al diavolo, non le importava nulla di lei. Pensava ancora al brutto sogno che aveva fatto. Rivedeva i cadaveri carbonizzati, i visi che una volta erano stati umani, cui erano appartenuti occhi che avevano visto e bocche che avevano sorriso, adesso ridotti ad un ammasso nero ed informe, privo della benché minima dignità di vita. Gemette di nuovo.

Persone ridotte in cenere… Chissà che avevano pensato le persone nelle camere a gas dei campi di sterminio, nel momento in cui avevano capito di stare per morire. Chissà che avevano provato tutte le streghe innocenti morte sul rogo nel momento in cui il fuoco aveva raggiunto i loro capelli.

- Continua -
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Nota:
1) “All you need to make a movie is a gun and a girl” è una citazione dalla b-side dei Placebo Miss money-penny (o comunemente detta “James Bond song”, perché dedicata a 007).

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Capitolo terzo
About Scott Carlton


Il lunedì mattina, all’uscita della scuola, a Corey parve di vedere Scott che scendeva velocemente le scale del corridoio in mezzo alla calca di gente. — Ehi, aspetta! — lo chiamò cercando di superare il fastidioso vociferare della folla. Scott si accorse di lui solo quando sentì una mano sulla spalla. Era teso da morire e si voltò di scatto, il veleno negli occhi. Quando lo vide impallidì di colpo, neanche avesse appena incontrato un fantasma. — Che diavolo vuoi?

— Non sei più nella squadra di football?

— Beh, dopo quello che ho fatto credi che abbia molte possibilità? Adesso vattene, lasciami in pace.

— No, aspetta. — Corey accennò un sorriso. — Volevo solo ringraziarti. Non so… se non fossi arrivato tu forse le cose si sarebbero messe male.

Scott sgranò due grandi occhi da finto e ironico stupore. — Davvero? Ma guarda un po’! E pensare che io l’ho fatto solo per farti un dispetto. Sembravi tanto contento che Andrew volesse pestarti a sangue!

— Sei il solito cretino!

Scott lo guardava con rabbia, se non con odio. Tuttavia, dietro quegli occhi così scuri e fieri, poteva forse nascondersi una sorta di fragilità di cui Corey non era mai riuscito a comprendere la vera natura? — Figuriamoci… povero Andy, l’ho salvato dalle tue abominevoli grinfie! Dovrebbe ringraziarmi, invece di cacciarmi a pedate. Gli ho salvato la vita! Tu prima o poi lo avresti ucciso, microbo. Se le parole fossero dardi.

La battutina ebbe il potere di far ridere Corey, cosa per lui alquanto inusuale.

— Cos’è che ti diverte tanto? — replicò Scott aggrottando le sopracciglia, sempre più nervoso.

— Dai, calmati. Sei agitato, pare stia per prenderti un collasso.

— Ma che cazzo ne sai tu? Che fai, adesso mi mandi anche i feticismi?

Corey gli prese il polso. — Sentiamo se il battito cardiaco è regolare… Accidenti, sembra quello di una bomba a orologeria.

Scott sottrasse il braccio con uno scatto violento. — Ma insomma, lasciami in pace! Che cazzo vuoi, da me?

L’altro lo guardò e gli chiese più seriamente: — Ti dispiace di non stare più nella squadra?

— Non me ne frega un cazzo.

— Davvero?

— Ti ho detto che non me ne frega un cazzo! — ripeté quasi urlando. — E adesso dileguati, vattene affanculo! — Corse via più veloce della luce.

* * *
Quando tornò a casa, Scott trovò Corey ad aspettarlo. Era bello come non mai: i suoi capelli risplendevano nella luce e si perdevano in deliziosi riccioli ai lati del volto, aveva gli occhi di un azzurro chiarissimo e la sua espressione non era cupa come al solito, ma addolcita da un sorrisetto gentile e malizioso.

— Corey… che sei venuto a fare, qui? — gli chiese.

Lui si avvicinò con quel suo meraviglioso passo elegante. — Non mi piace affatto come ci siamo salutati prima: ti sono venuto a ringraziare e tu mi hai trattato in quel modo. Perché ce l’hai con me? Ti ho fatto forse qualcosa di male?

Scott non sapeva che cosa dire. — Oh no, Corey, io…

— Sai che mi ferisci, quando ti comporti così. — Lo guardò con occhi languidi e brillanti. — Non riesco a sopportare questo rapporto ostile che c’è tra noi. Forse ti sembrerà stupido che io venga a dire a te proprio queste cose, ma devo sapere perché. Tu mi odii, non è così? Si capisce anche troppo bene.

Scott sentì il cuore sobbalzargli dal petto e quasi scoppiò in lacrime. — Oh, no… ― sussurrò, con voce soffocata. — Non è così, non è come credi. Io proprio non ti odio, non ti ho mai odiato. Non so come spiegarti… questo mio comportamento imperdonabile. È solo che, se non dovessi più neppure tentare di convincermi ad odiarti, non so se riuscirei a nascondere…

Corey si fece ancora più vicino e gli accarezzò il viso col tocco serico e freddo delle sue dita. — Avanti, continua.

— Io, Corey, quando sei vicino a me, non riesco a capire più niente. Non ci sto più con la testa.

— Sì, sì, ti capisco benissimo.

— La mia mente non connette. Sballa completamente.

— A me capita la stessa cosa quando ti sono vicino.

— Non posso crederci!

— È così, — gli confermò Corey. — Mi sembra di impazzire. Ma io… io… ― A quel punto gli prendeva il viso fra le mani e lo baciava profondamente sulla bocca.

— Oh sì, sì, amore mio…― sussurrò Scott. — Ti ho sempre amato. Sempre, sempre… Ma ero convinto che tu neanche potessi prendere in considerazione una simile possibilità, che un ragazzo si innamorasse di te. Ho sempre tentato di respingere questo sentimento, ma ti amo. Non posso negarlo a me stesso!

E Corey gli diceva: — Cosa ti ha fatto credere che potessi non amarti? Si capisce quando qualcuno ti ama. È inutile fingere.

Quindi in un batter d’occhio si ritrovavano in camera, nel letto di Scott. Poteva finalmente stringere il suo Corey fra le braccia nella felicità più totale, sentire le sue labbra sulle proprie, baciarlo dappertutto, avere la sua pelle serica sotto le dita. Di solito da quel momento in poi passavano la notte a letto insieme a fare l’amore, stretti l’uno nell’altro.


Scott arrivò all’orgasmo e smise di masturbarsi. Al buio, sotto le coperte da solo. Aprì gli occhi respirando affannosamente e si rannicchiò con le ginocchia al petto. Si sentiva male da morire, aveva il gelo nell’anima. Sempre la solita storia, erano mesi e mesi che continuava così.

Quanto gli ci era voluto per ammetterlo a se stesso? E quanto ancora aveva fatto per non pensare più a lui, per lasciarlo perdere completamente! Era stato tutto inutile. Perché non è facile dimenticare qualcuno che vedi tutti i giorni e che per di più fa parlare così tanto di sé.

“Io ho la mia vita, lui ha la sua. Insieme non c’entriamo niente, noi due.” Non faceva altro che ripetersi questo, invano. Ma cosa poteva mai fare? Correre da lui e gridargli: “Ti amo”? Come minimo gli avrebbe risposto con un calcio nel sedere. Quella situazione era impossibile da reggere. Scott stava peggio ogni giorno che passava e non c’era alcuna via d’uscita: a Corey non sarebbe mai passato per la testa che lui, proprio lui, un ragazzo che per di più faceva di tutto per essergli antipatico, avesse potuto desiderarlo così tanto.

Ogni volta che lo incontrava cominciava a sudare a freddo, gli prendevano le vertigini e la tachicardia. Quella mattina, quando Corey gli aveva stretto la mano al polso, gli era parso di svenire. Era l’effetto che gli sortiva quel ragazzo e non c’era cura che lo lenisse. Lo voleva come mai aveva voluto nessuno nella sua vita e per questo si sentiva mostruosamente in colpa. Tutta colpa di lui, di quella bellissima e dolcissima strega dagli occhi di ghiaccio.

Scott aveva una paura tremenda che se avesse manifestato anche per un attimo i suoi veri sentimenti, sarebbe andato incontro ad un disastro irrimediabile. E per questo, sì, lo amava e lo odiava allo stesso tempo, per questo lo trattava male in modo da poter convincere se stesso prima di tutti che non gli importava nulla di lui. Ma più lo vedeva e più lo desiderava, peggio di una droga. E lo desiderava carnalmente, desiderava andare a letto con lui, toccare la sua pelle, accarezzare i suoi capelli. Nessuna ragazza aveva avuto questo potere.

Lo conosceva ormai da tantissimi anni, avevano anche frequentato le elementari insieme, ma non erano “amici” nel vero senso della parola, si parlavano raramente e mai avevano condiviso un solo interesse. Corey era sempre stato ritroso, se ne restava sulle sue anche quando era ancora un bambino. Rifiutava sprezzantemente di partecipare ai giochi di squadra durante gli intervalli in giardino, polemizzando persino quando era costretto a farlo per forza nell’ora di ginnastica. Era costantemente irritato, sempre in conflitto col mondo intero.

Tra le ragazzine aveva un grande successo, benché non cercasse mai di sedurle, ma a lui non importava: ad attirarle era il suo semplice aspetto. Le più temerarie gli giravano intorno come libellule alla luce e talvolta, se erano fortunate, riuscivano anche a cavargli di bocca qualche parola. Si sentivano affascinate e incuriosite da lui, che era forse considerato carino almeno quanto strano. Capelli folti e morbidamente riccioluti già da allora ed il viso di una bambola di porcellana, dalla pelle bianca e gli zigomi rosa, le labbra rosse e l’espressione severa, un misto tra Atena e Afrodite.

A scuola era una specie di genietto, neanche a dire che passasse la vita sui libri. Vivacità mentale… “cattiva” la definivano però le maestre, già presagendo i disastri che avrebbe combinato da grande. Polemico fino all’esasperazione, aveva sempre da ridire su tutto, nulla passava di fronte a lui di ingiustificato, nessun torto non riscattato, nessuna ingiustizia perpetrata. Naturalmente spesso accadeva che un insegnante gli chiedesse di aiutare i compagni meno dotati o semplicemente più svogliati e lui rispondeva: — Cosa crede, che abbia studiato pedagogia? Lo faccia lei, il suo lavoro. — Era chiaro che alla fine dell’anno l’otto in condotta non glielo togliesse nessuno.

Allo stesso modo andavano le lezioni di catechismo. Tutti ridevano nel vedere il colorito rosso-peperoncino del prete (che tra l’altro soffriva pure di colesterolo, povera anima), mentre cercava di rispondere alle domande di Corey, un apparentemente innocuo bambino di sei anni che gli chiedeva: — Mi dica, come è possibile che il genere umano sia stato generato da Adamo ed Eva se essi hanno avuto solo due figli maschi? E nel caso avessero avuto un maschio e una femmina, i loro figli non sarebbero venuti con delle malformazioni? Se così fosse, discenderemmo tutti da unioni tra fratelli e sorelle. Ma la Bibbia non condanna l’incesto? — Oppure: — Nella Bibbia c’è scritto che Noè fece entrare nella sua arca di tutti gli animali “il maschio e la sua femmina.” E per quelli asessuati, come fece? E come riuscì a farli entrare tutti in una sola nave? — Un’altra domanda era: — Come mai la Bibbia dice che Dio ha plasmato l’uomo dalla polvere mentre i libri di scienze dicono che si è evoluto dalle scimmie? — Per poi concludere in bellezza: — Non ha mai pensato nessuno che anche la Bibbia racconti una specie di leggenda, come quella greca di Prometeo? Ma come cavolo fanno a crederci? È piena di contraddizioni!

Qualche anno dopo, stando alle chiacchiere tra genitori, il prete aveva chiesto di contrattare a quattr’occhi con Alison Jones e le aveva discretamente fatto notare che suo figlio era un bambino impossibile, le sue domande erano troppo imbarazzati e blasfeme perché non influissero anche nella fede e nell’integrità morale degli altri ragazzi e che era meglio per tutti se se lo fosse tenuto a casa. Alison era furibonda con suo figlio e lo rimproverò come nessuno l’aveva mai vista. Corey rimase completamente impassibile.

Durante la sua infanzia, Scott se ne era sempre tenuto alla larga. Solo perché, secondo quello che gli avevano insegnato, probabilmente era la cosa più giusta. I suoi genitori non stimavano Corey come una gran buona compagnia, perciò si dimostravano soddisfatti del comportamento del figlio, il quale si limitava a fare soltanto ciò che facevano gli altri: andare a scuola, partecipare all’attività sportiva, stare con quegli amici che erano bravi ragazzi e non mettevano in discussione i valori inculcatigli, e che portavano un taglio di capelli corto e ordinato. “Ignavi e noiosi”, li definì, pensando a loro a distanza di anni.

Ciononostante egli non aveva mai avuto la forza di cambiare, di sottrarsi dall’essere un pappemolle privo di proprie scelte e vere decisioni. Gli piaceva davvero giocare a football o lo faceva solo perché verso quello sport lo aveva indirizzato suo padre? Gli stavano tanto simpatiche persone come Andrew? Ora cominciavano ad affacciarsi nella sua mente interrogativi di questo genere.

Anche durante l’adolescenza si era sempre perfettamente integrato nella comunità: bei abiti all’ultima moda, grande socializzazione, molti amici, ma nessuno veramente intimo. Aveva pure abbastanza spasimanti: tutte vestite allo stesso modo, chi più chi meno, con gli stessi capelli e lo stesso modo di fare, quasi uscite in serie dalla fabbrica. Qualora ce ne fosse qualcuna che esulava dal branco, andava a finire che neanche quella gli interessava minimamente. Ci flirtava per un po’ di tempo e poi via, come una lente a contatto usa e getta.

Intanto anche Corey stava crescendo, e diventava ogni giorno più carino. Ogni giorno i lineamenti del suo volto si facevano più affilati e gli occhi più penetranti. Era un vero incanto e se ne fregava altamente dei giudizi degli altri: si vestiva come gli pareva e portava i capelli lunghi anche se non erano di moda. Lui era senza dubbio la persona più bella che Scott avesse mai visto, più bello di tutte le attrici o le modelle della TV.

Infatti, sebbene ora non si trovassero più in classe insieme, l’istituto era rimasto lo stesso e lui aveva modo di incontrarlo in corridoio o di vederlo di sfuggita, senza contare che, appena messo piede al liceo, anche come novellino Corey riuscì subito a farsi notare, senza essere tuttavia mai etichettato come ‘popolare’. A volte Scott si scopriva intento ad osservarlo, trasognato con gli occhi languidi. Poi, rendendosene conto, si riprendeva e arrossiva per la vergogna. Com’era bello… un vero angelo. “Ma ché, sei pazzo a guardarlo così?” si rimproverava. “Che mi sta succedendo?”

Poi, quelle rare volte che Corey gli rivolgeva la parola, anche solo per un saluto, entrava in uno stato di agitazione tale da riuscire solo a trattarlo con sufficienza, sempre pronto a ripetersi: “Ma che mi importa, alla fine, di quello?” Però… guai a torcergli un capello. Diventava completamente pazzo all’idea. Quando Andrew aveva detto che voleva spaccargli la faccia, Scott già sapeva come sarebbe andata a finire.

Avrebbe voluto odiarlo per quel sentimento così turpe e riprovevole che aveva fatto nascere nel suo cuore… ma come si faceva ad odiare un ragazzo dall’aria così fragile? Sì, certo, se ne andasse al diavolo. Però dentro di sé lo amava. Non faceva che pensare a lui, il nome di Corey risuonava in ogni molecola del suo corpo e più tentava di cancellarlo, più forte una voce glielo gridava.

Da tempo ormai aveva desistito in questa battaglia. E quando gli rispondeva male poi si sentiva in colpa: faceva di tutto per farsi odiare e ciò lo faceva soffrire ancor più. Ma come fargli capire che in realtà avrebbe voluto stringerlo tra le braccia, amarlo e coccolarlo fino alla fine dei suoi giorni?

Scott non faceva altro che piangere, senza comprendere cosa avesse fatto di sbagliato dopo una vita passata a cercare di essere come tutti gli altri, per scoprire una tale diversità. Perché doveva innamorarsi di qualcuno che la società non avrebbe mai approvato (forse tollerato, ma mai approvato) per lui? Perché non poteva amare tranquillamente una di quelle sciatte e insignificanti teenagers che gli ronzavano intorno? Perché proprio Corey? Perché proprio un ragazzo?

Si chiese se davvero fosse gay. Una domanda che lo tormentava, ma di cui dopo una serie di contorte elucubrazioni mentali ormai non gli importava più niente. A volte era convito di esserlo, ma non riusciva a capirlo bene, dal momento che Corey era l’unica persona della quale davvero sentisse il desiderio. Allo stesso tempo era già stato a letto con molte ragazze: solo insignificanti scappatelle o al massimo storie mai durate più di due settimane. Non sapeva come definirsi. E cominciava anche a pensare non fosse poi così importante doversi per forza riconoscere in una delle ferree categorie sessuali prestabilite.

Trascorreva la sua vita in bilico, senza sapere se ci fosse qualcosa cui valesse la pena aspirare, se dovesse per forza avere un obiettivo. Come poteva avere un obiettivo su Corey in una situazione come la sua?

Miliardi di volte pensava a ciò che poteva succedere se addirittura si fosse dichiarato, ma non aveva il coraggio per farlo. Era un’ipotesi impensabile. E Corey come avrebbe reagito? Non lo avrebbe mai preso sul serio! Avrebbe detto qualcosa di cattivo per ferirlo: quello che sapeva fare meglio.

Nelle sue fantasie immaginava sempre che Corey andasse da lui e gli dicesse quanto in segreto lo avesse sempre amato. Pensava a quanto sarebbe stato bello… che c’era di male a sognare? I sogni restavano lì ed erano unicamente suoi. Nessuno poteva profanarli o portarli via, erano qualcosa che non avrebbe perso mai, neanche nei momenti più disperati. E lui… solo di sogni riusciva a vivere, ormai.

Andare a letto con qualcun altro ora gli avrebbe fatto semplicemente schifo. Si masturbava pensando a Corey quando era solo, la sera e la mattina nel suo letto, fingendo di essere con lui, di stringerlo tra le braccia, di venire proprio insieme a lui. Questa era la sua unica consolazione… di avere ancora i suoi sogni, di poter costruire le sue scene perfette dove Corey sembrava tutta un’altra persona e lui era finalmente felice.

Si rigirò nel letto, insonne, stanco ed ansioso. Non riusciva a dormire né a riflettere lucidamente. Solo un gran magone nel petto, un’inquietudine tormentosa riuscivano a scuoterlo da quell’apatia.

Si alzò per andare in bagno a lavarsi la faccia madida di sudore. La casa era enorme e deserta, dunque non c’era nessuno che potesse svegliare. Non che questo gli dispiacesse, almeno poteva fare ciò che gli pareva senza rotture di scatole. Da quando sua madre era morta, cinque anni prima, suo padre non aveva fatto altro che viaggiare da una parte all’altra degli Stati Uniti con Cindy, la sua nuova fidanzata ossigenata e siliconata a più non posso. Ma cosa c’era da stupirsi? In fondo Michael Carlton aveva saputo da subito della malattia terminale della moglie, sicché aveva avuto tutto il tempo per prepararsi sia psichicamente che affettivamente. Perché biasimarlo?

Se non altro, dopo la morte della madre di Scott, Michael aveva lasciato al figlio il libero arbitrio dei suoi rapporti interpersonali: poteva riportare a casa dei reduci dal manicomio e tanto non gli sarebbe importato. Vedere Corey non gli avrebbe fatto né caldo né freddo.

Tornò a letto e provò a riaddormentarsi. Un altro pensiero su Corey e sarebbe stato costretto ad iniziare tutto daccapo. Ogni volta che lo vedeva, specie se gli parlava, se lo sentiva diventare duro all’istante. Che situazioni imbarazzanti…

Ma come si era permesso, quel pezzo di merda di Andrew, di trattarlo in quel modo? Se qualcuno non lo avesse fermato Scott sarebbe stato capace di ucciderlo, ne era sicuro. Come si può fare del male a un ragazzo così bello? Come si può dimostrarsi incazzati come lo era sempre lui stesso?

Incoerenza. Confusione. Le contraddizioni della Bibbia. No, molto più logiche, le sue, e molto più vere.

Esaurimento nervoso.

Si alzò di nuovo dal letto, andò nella stanza vuota di suo padre e tirò fuori una scatola di sonniferi dal cassetto del suo comodino. Ne prese mezza pasticca. Almeno questo l’avrebbe fatto dormire in pace.

- Continua -




Vabbè dai...il 3 è corto.....metto anche il 4

Capitolo quarto
First meeting


Corey spalancò la porta del bagno della scuola sperando che dentro non vi fosse nessuno. Così almeno gli sembrò alla prima occhiata. Quel luogo era ciò che di più squallido avesse mai visto in vita sua, tanto vuoto e grigio da trascendere addirittura i paramenti delle sue barbariche predilezioni, per irrompere nella decadenza pura fino alla volgarità delle scritte porno e gli apprezzamenti dei quali i muri erano rozzamente imbrattati.

Lo detestava, eppure era l’esatta trasposizione fisica della sua anima, che allo stesso modo egli avrebbe desiderato cancellare fino all’ultimo pensiero per farsene dipingere una completamente nuova, tinta di colori vivaci e fiori nel bocciolo.

Rise ironicamente. Non l’avrebbe mai data a bere a nessuno, su quell’aspetto: gli avessero offerto di cambiarla, piangendo lacrime di coccodrillo avrebbe rifiutato senza pensarci due volte.

Si avvicinò allo specchio e guardò la propria immagine riflessa attraverso il vetro rotto e orribilmente macchiato di nero. Osservava quella sua bellezza struggente, che gli stava davanti come un demone venuto a chiedergli l’anima. Il viso minuto e dai lineamenti affilati, gli occhi languidi e grandi, chiari come il cielo di un’alba autunnale, le labbra rosse e sensuali, la bocca forse leggermente troppo larga ma perfettamente proporzionata e delicata, come il capolavoro di un pittore di miniature: un luccichio di azzurro e rosso sul volto.

Era proprio quella bellezza a farlo sentire così tragicamente solo. Sentì affiorargli le lacrime agli occhi e d’improvviso gli fu impossibile trattenersi dal piangere. Si portò una mano sullo zigomo che Andrew gli aveva colpito constatando che, nonostante fosse trascorsa una settimana e non si vedesse quasi più niente, faceva ancora un po’ male.

Mandy non gli aveva parlato molto spesso da quando l’aveva trattata bruscamente al telefono. Continuava a salutarlo, certo, a scambiare con lui qualche vaga parola sulla scuola, ma niente di più. A Corey in effetti non importava.

Lo tormentava quell’essere tanto incompreso al mondo, quell’impossibilità di raggiungere la felicità che amava e desiderava, quella pienezza di vita esistente solo nelle più belle utopie e mai nella realtà. Non riusciva a trovare rifugio in nessuna forma di arte, per quanto le adorasse tutte. Non c’era scampo.

Quasi incredulamente sentì, con non poco stupore, la propria voce gemere singhiozzi in una disperazione infinita e indescrivibile. — Non ne posso più, — piangeva con voce spezzata. — Non ce la faccio più… Odio questa vita! — Si coprì il viso con la mano destra.

— Corey… ti senti male? — gli chiese improvvisamente la voce di un ragazzo.

L’aveva udita davvero o se l’era semplicemente sognata? Era possibile, gli succedeva spesso. Ma non in quell’occasione. Sentendosi agghiacciare, si rese conto di non trovarsi da solo in quell’ambiente, ma di essere stato osservato da qualcuno per tutto il tempo. Lo aveva chiamato per nome, eppure non conosceva quella voce. Sapeva solo che era la voce più splendida che avesse mai sentito.

Ovviamente non poteva mascherare le lacrime. Cercò di asciugarsi il viso con indifferenza, una lieve strisciata di mano. — No… ― bofonchiò goffamente, — va tutto bene.

Si voltò verso il suo interlocutore e dapprima credé di non averlo mai visto in vita sua. Rimase di sasso, quasi pietrificato. Accanto gli stava un ragazzo dalle fattezze deliziose. Era alto più o meno quanto lui, dalla figura elegante. Gli abiti chiari che indossava ne mettevano in luce lo splendido portamento e la graziosa leggerezza dei gesti. Teneva una sigaretta fra il medio e l’indice della mano sinistra, dalla quale saliva un’esile striscia di fumo che andava a sbattersi contro il soffitto. Anche quell’oggetto assumeva un aspetto leggiadro addosso a lui.

Ma più di tutto fu il viso ad attirare su di sé l’attenzione di Corey: aveva due occhi che potevano essere quelli di una strega o di un angelo, grandi e distanti, da conferirgli un aspetto di innocenza pura, quasi infantile. Ed erano verdi, avvenenti, di una tonalità chiarissima e assolutamente limpidi anche nella penombra.

La linea del viso era fine, splendidamente modellata, e la pelle lattea che pareva effigiata dalla panna. I capelli piuttosto lunghi gli ricadevano a metà collo lambendogli dolcemente i lati del volto, folti e leggermente ondulati, di uno splendido castano dorato. Le sopracciglia, chiare e sottili, incorniciavano con espressività quel volto già bellissimo per natura, e Corey si rese subito conto che se lo avesse scorto in mezzo ad una folla avrebbe comunque trovato qualcosa di speciale in quel viso. Era la dolcezza, su questo non nutriva dubbio. La sensualità della morbida curva delle sue labbra gli fece subito venire in mente una frase del Ritratto di Dorian Gray: “Il mondo è cambiato perché tu sei fatto d’avorio e d’oro… la curva delle tue labbra riscrive la storia”.

— Chi sei, tu? — domandò Corey preso alla sprovvista.

— Sono Damon Marshe. Non ti ricordi di me? Ci ha presentato Mandy qualche giorno fa.

La sua voce era… come dire? Leggera come i passi di un elfo che danza sul petalo di un fiore. Elegante e allo stesso tempo distaccata, dal suono limpido e vellutato.

Damon… era davvero lui! Lo splendido ragazzo che stava con quella tipa scialba e priva di significato che era amica di Mandy. La coppia cui Corey, da gran maleducato, si era rifiutato di rivolgere la minima parola nella sua spudoratamente ostentata indignazione. Ed ora Damon lo salutava con affabilità disarmante.

Fidanzato di quella lì, amico di quelli lì. Non riusciva a crederci.

Farfugliò qualche scontata parola di scusa. — Certo che mi ricordo di te, — disse. — Perdonami, è che da un po’ non ci sto molto con la testa. — Sentendo il bisogno di giustificarsi prima che Damon affermasse qualunque altra cosa, aggiunse: — Avrai pensato che sono un matto. Credevo non ci fosse nessuno, altrimenti non avrei…

— Capisco come ti senti, — sussurrò l’altro.

In circostanze normali a Corey sarebbe venuto da ridere. Invece riuscì soltanto a chiedergli: — Come puoi saperlo?

— Non so che ti è successo, ma capisco che a volte si possa odiare la propria vita, che spesso non sia proprio il massimo della bellezza. — Tirò una boccata di fumo con una grazia eccezionale. Per un attimo a Corey sembrò un poeta bohemien, nonostante gli abiti di classe.

— Mi dispiace per quello che ti è successo con Andrew, — gli disse Damon dolcemente, ed egli notò una nota di vera tristezza nei suoi occhi. — Come ti senti, ora?

— Non mi ha fatto nulla che mi abbia ucciso, ma per questo devo ringraziare Scott. Ha avuto un buon tempismo, anche se non capisco perché l’abbia fatto.

— Scott Carlton? Perché non avrebbe dovuto? Avrei voluto farlo io.

Corey fece una risatina inquieta immaginando l’assurdità di quell’ultima affermazione: Andrew era come minimo il doppio più largo di quel sottile ragazzo che gli stava di fronte. — E perché mai tu? — ribatté.

— Perché odio Andrew.

— Tu? Non hai la faccia di uno che odia.

Damon accennò un sorriso malinconico che accentuò ancora la sua bellezza. — Ho creduto fossi svenuto… quando ti ho chiesto se stavi bene non mi hai risposto.

Corey rimase a fissarlo per un momento interminabile. — Eri tu…? ― mormorò.

— Mi sa che devo tornare in classe, — sussurrò lui. — Sono stato via un’infinità, il prof si irriterà di sicuro. — Spense la sigaretta e la gettò via. — Dovrei smettere, — commentò.

— Eh sì, dovresti proprio.

— Per adesso ti saluto, Corey. Tanto ci rivedremo spesso.

— Certo.

Damon si avviò lentamente alla porta e quando se ne fu andato, l’altro rimase ad osservare in quella stessa direzione per ben più di un minuto senza distogliere lo sguardo, quasi incantato.


Andrew non dava segni di voler infierire nuovamente. Sembrava tenersi alla larga da Corey come aveva sempre fatto e pensare soltanto a conseguire i suoi ampi successi nel glorioso mondo del football. A Corey non sortiva né caldo né freddo. Con la sfacciataggine più sfrontata, non aveva la minima esitazione a trovarsi nei posti che bazzicava il capitano, sebbene fossero completamente diversi dai suoi.

Mandy continuava a frequentare lo stesso gruppo di amici di Andrew, con le sue compagne Ceer-Leaders e i loro rispettivi fidanzati quasi tutti degli sportivi e dell’alta società. Pareva si fosse molto riavvicinata al suo ex-ragazzo e probabilmente sarebbero tornati insieme, visto che Andrew non faceva che reclamare la proprietà ‘legale’ della ragazza, gli mancava giusto un documento scritto. Alla mensa la loro compagnia si riuniva occupando anche più di due tavoli vicini.

Corey non sapeva mai dove sedersi, perché in effetti di amici non ne aveva. Solitamente durante l’ora del pranzo finiva per starsene solo in giardino a leggere qualche libro con un lecca-lecca alla ciliegia in bocca, sorseggiando un succo d’arancia o qualunque altra cosa non implicasse troppa attenzione visiva. Si annoiava da morire, nonostante tentasse di lasciarsi trasportare dalle malefiche suggestioni di Baudelaire o dai turbolenti scenari apocalittici dei poeti decadenti. Ogni tanto alzava lo sguardo, infastidito dalle urla stridule delle ragazzine vanesie che tentavano di farsi notare dai loro prediletti e disgustato dalle immancabili piccole risse quotidiane tra i ragazzi più rozzi e violenti.

Vide Paul Richmond, accortamente sistematosi nell’angolo più riparato di un tavolo in fondo alla stanza, completamente solo. Qualche posto più in su c’erano alcuni ragazzi del giornale, ma non gli prestavano molta importanza.

— Vuoi che mi sieda con te? — gli chiese Corey.

— Fa’ un po’ come ti pare, — fu la sprezzante risposta.

— Sei acido come il latte andato a male.

— Ah beh, senti chi parla! — ribatté Paul. — Dovrei forse porti i miei ringraziamenti, se il capitano della squadra di football ha quasi tentato di ammazzarmi? — Parlava stentatamente, quasi balbettante. Vedendolo così non si sarebbe certo detto fosse un genio con la media del nove. Si sistemò nervosamente gli occhiali riprendendo a mangiucchiare la sua fettina scondita. Corey si chiedeva come riuscisse a non vomitare soltanto a guardare quella roba.

— Non vorrai prendertela con me per questo, — gli rispose calmo. — Lo sai che non ho fatto niente.

— Qualcosa devi aver fatto sicuramente, per averlo indispettito così. E, te lo chiedo per favore, non darmi troppa confidenza al di fuori dell’ambito lavorativo. Mi dispiace, Corey, davvero, ma hai il potere di attirare su di te le ire degli altri, e io semplicemente non voglio andarci di mezzo.

Corey prese un sospiro doloroso, avvertendo la sensazione di un nodo alla gola. Non gli andava neanche più quell’orribile cappuccino che aveva comprato. — Ascolta, Paul, — gli disse cercando di non alzare la voce, — ti stai comportando da idiota, proprio come farebbe Andrew. Pretendi di scrivere di politica e giustizia, e poi ti comporti con me come se la colpa di quanto è successo fosse mia. Mi spiace che ti abbia aggredito, mi spiace se ti ha spaventato. Se sono le scuse che vuoi, allora scusa. Alla fine non ti ha fatto niente.

— Lascia perdere, Corey, va bene? — fece l’altro con voce atona e asettica. — Chiudiamo quest’argomento.
Naturalmente era arrabbiato con lui. Non che a Corey importasse granché di quel sentimento, più che altro lo mandava in bestia il motivo che lo aveva suscitato. Ma era abituato a convivere con simili ipocrisie e non aveva mai considerato Paul come una persona con cui mantenersi in buoni rapporti. A dire la verità nella vita, li aveva sempre buttati all’aria, i suoi rapporti.

Mise in bocca il suo lollypop a forma di bon-bon e si mise a osservare le comitive della scuola intente nelle quotidiane e ricreative arti del pranzare e del conversare. Scott era seduto accanto ad alcuni suoi compagni di classe tra i quali si trovava anche qualche componente della squadra di Andrew che gli era restato solidale. Per una volta aveva i capelli ben pettinati, liscissimi e di un lucido nero corvino. Non erano molto lunghi, e per questo gli davano un’anomala aria da bravo ragazzo che poco gli si addiceva. La mascella forte ma a suo modo delicata, i lineamenti squadrati ma sottili ed il piacevole contrasto chiaroscuro tra la pelle e i capelli lo facevano quasi sembrare attraente. Niente a che fare con certe altre bellezze che aveva incontrato di recente, quello era ovvio.

Ma in quel momento Scott aveva l’aria di non sentirsi molto bene: era pallido come un fantasma e piuttosto taciturno, sguardo sfuggente e labbra serrate. Corey non aveva idea di quello che gli passasse per la testa e non riusciva a capire perché si fosse comportato in modo simile, lui che sembrava tanto fedele alla squadra e al suo energico leader. Forse si era stancato del football ed aveva semplicemente utilizzato l’occasione come pretesto per andarsene senza dover fornire troppe spiegazioni. Non stava a lui interessarsene.

Rivolse invece l’attenzione al tavolo di Mandy, ma l’oggetto della sua ricerca non era ovviamente l’appariscente Ceer-Leader, quanto il fidanzato della sua amica. Gli ci volle del tempo prima di riuscire ad intercettarlo con lo sguardo: purtroppo era voltato di spalle e vicino a lui era seduta quella sciacquetta insignificante. Come aveva detto che si chiamava, Mandy? Qualcosa come Leni o Lena.

Damon aveva dei capelli a dir poco meravigliosi e si muoveva con gesti aggraziati e misurati, in un’armonia quasi neoclassica. Ogni volta che si erano incontrati in quegli ultimi giorni, seppur di sfuggita nel corridoio o in mezzo alla calca di gente all’uscita della scuola, Damon lo aveva sempre salutato molto affettuosamente con un sorriso luminoso, mentre la sua ragazza a malapena alzava lo sguardo con una strana smorfia mista tra indifferenza e fastidio. Li vedeva quasi sempre insieme, a volte persino mano nella mano e si sentiva bruciare dall’ira, di fronte a quella visione, chiedendosi perché Damon continuasse a frequentare il giro di Andrew, se lo odiava come gli aveva detto lui stesso. A guardarlo bene veniva da chiedersi: “Ma che diavolo c’entra, con loro?”

Non era certo il ragazzo che a prima vista si sarebbe definito un dandy viziato come quei grotteschi individui che di solito gli giravano intorno. I suoi non erano dei capelli da conformista, tanto erano lunghi e fluenti. Per non parlare poi di quei fantastici stivaletti che indossava talvolta: rispecchiavano uno stile vagamente glam ed erano stretti sulle punte e con almeno cinque centimetri di tacco. Corey immaginava quanto coraggio ci volesse ad indossare articoli di quel genere in simile compagnia. Vederlo insieme a loro lo avviliva ed a sconfortarlo era soprattutto il fatto che, se Damon era amico di quei ragazzi, sicuramente gli stavano bene e gli stava bene il loro modo di vita. Non c’era altra spiegazione.

Sapeva che non sarebbe mai potuto diventare amico di uno come lui. Neppure si conoscevano e non c’entravano niente l’uno con l’altro, quindi doveva per forza farsene una ragione.

Lanciò un’ultima occhiata su Scott, quasi attirato verso di lui come una calamita. Notò che lo stava guardando, ma appena sentì gli occhi su di sé ritrasse subito lo sguardo. Pareva imbarazzato, lievemente indispettito.

— Hai finito di contemplare l’universo? — gli chiese Paul ad un tratto, riportandolo alla situazione presente. Pareva essersi calmato, grazie al cielo.

— Me ne vado, — gli disse Corey.

— Non hai neanche toccato questo tuo intruglio.

— Te lo puoi bere tu.

— Non posso, sono allergico al latte.

— Allora perché non lo dividi dal caffè molecola per molecola, tu che sei così bravo in Chimica?

— Vacci piano con il cinismo, — ribatté Paul riluttante, mormorando qualche leggero insulto sottovoce. — E questa sera, per favore, vieni puntuale. È pronta quella recensione che volevi scrivere su Oscar Wilde?

— Ci sto lavorando su.

— Per me sarà un fiasco.

— Molto probabilmente. Anzi, di sicuro.


Scott riprese a fissare il piatto vuoto che aveva davanti agli occhi come fosse stata la cosa più interessante del mondo. Si sentiva le guance in fiamme.

Nulla al mondo poteva descrivere la bellezza di Corey in quel momento, mentre si guardava intorno con aria trasognata e fieramente disinvolta, succhiando quel lecca-lecca rosso scarlatto. Scott tentava di rimirarlo con la coda dell’occhio, non senza notare la sconcertante ed inconsapevole carica erotica di quel suo gesto innocuo.

Si accorse che le mani gli tremavano, tanto che un suo amico gli chiese se stesse bene. Rispose di sì, risparmiandogli il fatto che gli stesse salendo un’erezione: quanto al resto stava bene.

Tenne per sé tutta la sofferenza e l’angoscia che provava. Quando… quando quella specie di Mefistofele avrebbe smesso di esercitare il proprio ascendente su di lui? Non ne poteva più. Stava per scoppiare. Avrebbe voluto urlare, sparire all’istante dalla faccia della terra.

- Continua -
 
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Loveless
view post Posted on 17/3/2008, 08:06




Capitolo quinto
All of my father

Quando aveva sette anni, a Corey fu chiesto di scrivere un tema sul papà. In classe i suoi compagni erano chini sul banco a scrivere già da un quarto d’ora, mentre lui aveva ancora di fronte il foglio immacolato. Fu molte volte per accostarvi la penna, ma sempre si ritraeva in un nuovo ripensamento. La maestra lo guardava da lontano, lunga e stretta, da sotto gli occhiali spessi, con aria vagamente minacciosa.

Corey se ne restava lì rimuginando a più non posso, l’espressione preoccupata, cercando di ricordarsi ciò che gli aveva detto sua madre in proposito. Naturalmente non poteva lasciare il foglio in bianco, qualcosa doveva pur scrivere.

Purtroppo non ho mai conosciuto mio padre, scrisse. Mamma mi ha detto che è dovuto partire per un viaggio quando io ero ancora molto piccolo, per questo non lo ho mai visto. Vivo da solo con lei.

Bene, la prima parte l’aveva detta. Il punto era che non c’era proprio nient’altro da dire, infatti mamma non gliene parlava di sua volontà ed egli non le aveva mai posto domande insistenti poiché sapeva che la facevano soffrire.

Due anni prima, vedendo in un parco gli altri bambini che giocavano coi loro papà, le aveva chiesto dove fosse finito il suo. Lei era diventata nervosa, aveva cominciato ad agitarsi e gli aveva risposto: — Se ne è andato lontano e non tornerà più. Ma questo per noi è un bene, perché papà era un uomo cattivo.

Quelle esatte parole, aveva detto: papà era un uomo cattivo. Poi si era chiusa in camera e aveva cominciato a piangere. Corey non aveva mai visto un adulto piangere e ne era rimasto sconvolto e atterrito, confutando quell’ostinata convinzione che gli adulti non piangessero mai. Giurò a se stesso che mai e poi mai le avrebbe chiesto qualcos’altro di lui.

Tuttavia non riusciva a spiegarsi come un papà potesse essere cattivo. Lui vedeva quelli degli altri bambini e pensava che fossero buoni. Perché proprio il suo doveva essere cattivo? Forse anche tra gli altri ce ne era qualcuno cattivo che sgridava i propri figli. Ma questo voleva dire che anche sua madre era cattiva perché lo sgridava in continuazione. Quindi c’era qualcosa che non filava, in quel ragionamento.

Fatto stava che non poteva scrivere un tema di sole poche righe, perciò cercò un modo per ampliarlo senza andare troppo fuori argomento. Di lui non so niente, scrisse, ripetendo lo stesso concetto con parole diverse per la terza volta; quindi descriverò come lo avrei voluto se avessi potuto averne uno.

Dunque seguiva una dettagliata e difficoltosamente allegra descrizione fisica e morale dell’ideale soggetto in questione, nonché un grazioso elenco di tutte le fantasiose esperienze che lui e quell’ipotetico padre avrebbero condiviso insieme, tanto che ne uscì fuori un tema lunghissimo, tragicomico e scritto perfettamente, se comparato al fatto che l’autore frequentava la seconda elementare.

Allo scadere delle due ore Corey consegnò il componimento con molta più disinvoltura di certi altri che magari non erano riusciti a scrivere neppure mezza facciata per mancanza di idee. Il brutto cominciò dopo, quando un suo vicino di banco gli chiese ingenuamente cosa avesse scritto nel proprio tema. A quel punto si trovò spiazzato, senza sapere cosa rispondere. Si era inventato delle assurdità per due ore di fila ed ora non riusciva a ripetere a parole la bugia più banale. Bofonchiò qualche vaga risposta senza senso e non fece in tempo a dare la minima spiegazione che subito un altro suo compagno, rivolto a quello che lo aveva interrogato, con aria canzonatoria cominciò ad insinuare: — Che domande gli fai? Corey non ha mai avuto un padre e la sua mamma non sa neppure chi sia! Nel tema avrà scritto solo cavolate.

— Non è vero! — esclamò Corey fuori di sé.

— Certo che è vero. Ho sentito mia madre che ne parlava con quella di Micky. Lo sanno tutti, è inutile che inventi delle frottole. E sappiamo anche come vengono chiamati quelli che non sanno chi è il loro papà: figli di puttana!

— Io ti ammazzo, brutto stronzo! — urlò lui avventandosi addosso al compagno con le mani sul collo.

La maestra intervenne a dividerli prima che poté, e del resto di quella scena Corey ricordò solo che si arrabbiò tanto, come non l’aveva mai vista in vita sua, ed esclusivamente con lui.



Quel giorno, quando tornò a casa con un occhio nero, sua madre corse da lui spaventata e gli si inginocchiò davanti chiedendo con apprensione: — Che ti è successo? Come te lo sei fatto, questo?

Corey scoppiò in lacrime disperate e singhiozzando le disse: — Un mio compagno ha detto che tu non sai neppure chi sia il mio papà, e ti ha chiamato come quelle ragazze che stanno sul marciapiede di notte!

Il viso di Alison assunse subito quell’espressione terribile, severa e agghiacciante che lui aveva sempre temuto. — Perché ti hanno detto queste cose? — replicò con voce carica di collera, come se ce l’avesse con lui. Il suo comportamento non fece altro che aumentare le lacrime del ragazzino.

— La maestra ci aveva dato da scrivere un tema sul papà…

— E tu che ci hai scritto? Corey, che ci hai scritto?

— Quello che mi hai detto quella volta. E poi… ci ho provato, ma non sapevo…

— Quale volta? — gridò Alison quasi in preda al panico. — Quale volta? Io non te ne ho mai parlato! Mai!

— Allora è vero che non sai chi è!

— Sta’ zitto! Io lo conosco, lo conosco benissimo, per mia sfortuna. Vorrei non averlo mai incontrato. Maledetto il giorno che l’ho incontrato! Avrei preferito essere una puttana, piuttosto. — Cominciò a camminare velocemente per la stanza, frenetica, i lunghi capelli castani scomposti sulle spalle e gli occhi iniettati di sangue. — Tu non devi mai parlare a nessuno di lui, mi hai capito? Digli che è morto. D’ora in poi inventagli che è morto! Non andare a raccontare i cazzi miei alla gente. Vuoi che la mia reputazione diventi peggio di così? Adesso calmati. Vieni qui, ché ti medico le ferite.
Corey non osò proferire un’altra singola parola.


A quell’epoca Alison aveva appena ventitre anni e lavorava in un localetto di terza categoria dove serviva ai tavoli e talvolta intratteneva gli avventori che desideravano qualcosa di più di un Cheesburger con patatine. Era una ragazza molto bella, alta e dalla figura delicata, ma sapeva rovinare i doni che la natura le aveva dato bene come nessun altro. Sul suo volto era sempre stampato un sorrisetto cinico e disincantato, che tuttavia veniva appena notato dalle persone di poca riflessione che lei frequentava. In quell’espressione era racchiusa tutta la sua delusione nei confronti della vita.

Spesso tornava a casa a notte fonda per terminare gli straordinari, altre volte non tornava affatto. Naturalmente non poteva permettersi di spendere continuamente i soldi della baby-sitter, perciò Corey dovette abituarsi fin da piccolo a rimanere solo, a cenare e ad andare a letto tutto solo con l’obbligo categorico di non aspettare sua madre ancora sveglio.

Non aveva paura del buio. Anzi, il buio gli piaceva: formava delle strane ombre attraverso gli oggetti, i quali non sembravano più ciò che apparivano di giorno, nella loro mera ed ignobile semplicità, ma acquistavano un significato arcano, più autentico, quello della loro vera essenza. Con la notte l’intero mondo diveniva un guazzabuglio di forme indistinte e allo stesso tempo rivelatrici, bizzarre e spaventose, ma che non gli facevano mai paura. Le tenebre scatenavano tutto ciò che vi era di barbarico e indomito nel suo cuore e ne operavano una catarsi, lo purificavano da ogni sentimento di odio, così che la mattina seguente potesse di nuovo salutare sua madre con un sorriso.

Aveva trascorso nottate intere a scrutare le ombre confondersi nell’oscurità, pur di non rivedere le strane sembianze che la sua vita acquistava negli incubi. Quelli gli facevano paura.

Molte volte sognava suo padre, l’uomo cattivo, che irrompeva improvvisamente nella sua camera per ucciderlo o portarselo via in qualche sconfinato e desolato campo di tortura dal quale non sarebbe mai uscito. Nei suoi sogni aveva un sorrisetto folle e gli occhi scintillanti di fuoco come quelli di Satana, del quale il prete forniva ai bambini il poco di quella peculiare descrizione fisica che bastava per spaventarli e fargli nascere nell’animo la paura della morte.

L’uomo cattivo arrivava con passi pesanti e cadenzati, gli premeva una delle sue grandi mani sulla bocca affinché non riuscisse ad urlare o a chiedere aiuto, e le sue dita erano forti e ruvide, quasi graffiavano la sua morbida pelle di bambino. A volte era cosciente di stare sognando ma non riusciva a svegliarsi di propria volontà, e pregava perché ciò avvenisse al più presto.

Nonostante cercasse spesso di compiacere sua madre con piccoli regali, ella non abbandonava mai quella sua espressione dura e ineccepibile, si dimostrava poco espansiva di fronte alle piccole dimostrazioni di affetto che pretendevano di cavare sangue dalle pietre: se ne restava ferma, a malapena alzava le estremità delle labbra per simulare la parvenza di un sorriso, ringraziava freddamente. A volte Corey la sorprendeva a guardarlo fissamente quasi raggelata, con gli occhi vitrei e la bocca distorta in una lieve, grottesca smorfia di disgusto.

Eppure era un così delizioso fanciullo, con morbidi riccioli da angioletto e gli occhi grandi e luminosi! Ma lei lo fissava con tale sguardo per qualche differente e misterioso motivo. Forse le incuteva timore quello strano rosso rame dei suoi capelli, che lei in effetti non possedeva. Corey aveva letto nel suo libro di Storia che nell’antichità, in certi paesi, le persone con i capelli rossi venivano considerate emissari del diavolo o suoi diretti collaboratori, tanto che molte di loro erano addirittura state arse sul rogo. Così Corey si era convinto di possedere in sé qualcosa di demoniaco ed oscuro, una forza arcana e malefica che persino sua madre temeva, e dati i presupposti gli pareva del tutto lecito comportarsi da peccatore ed infrangere, all’occorrenza, qualsiasi comandamento prescritto dalla Bibbia.

A volte tentava di intrufolarsi di notte nel letto di sua madre. Come gli sarebbe piaciuto poter dormire abbracciato a lei e respirare il suo profumo! Ma la donna lo allontanava dicendo: — Non crescerai mai se vorrai sempre dormire con la mamma. Ormai sei troppo grande per venire a letto con me, vai in camera tua.

In tutto il disastro che era la sua vita, negli spaventosi incubi che ne popolavano le notti, solo di un punto era assolutamente certo: c’era qualcosa in lui che sua madre odiava con tutto il suo cuore, qualcosa che la disturbava e le faceva dare di matto. Altrimenti come spiegarsi il fatto che passasse sempre più tempo fuori casa anche se non era impegnata con il lavoro?

La vedeva tornare ogni sera accompagnata da uomini che al massimo duravano una settimana. Ce ne era sempre uno diverso, tanto che Corey non riusciva mai a fissare nella mente la faccia di nessuno, ma aveva l’impressione che neanche Alison vi prestasse molta attenzione. Lui li scorgeva di sfuggita dalla finestra buia passare attraverso il piazzaletto ed entrare in casa, stringendo a sé l’esile figura di sua madre come se volessero mangiarsela. A quell’ora lui avrebbe dovuto dormire da un pezzo: cercava di non fare rumore, di non dare segni di vita, ed era allora che sentiva quei sospiri lascivi, rumori strani e voluttuosi provenire dalla stanza accanto. Disteso supino sul letto, il suo profilo netto si stagliava contro il bianco lucente del muro e lui, impassibile, ascoltava avvertendo segretamente nelle proprie vene l’essenza peccaminosa e proibita celata dietro all’atto che stava avvenendo, anche quando non ne conosceva ancora il significato.

Ogni volta, per non lasciarsi vincere dalle lacrime, si ripeteva che un giorno forse sarebbe nato di nuovo, ed allora avrebbe avuto ad amarlo una persona da non dover dividere con nessuno.

A volte Alison gli presentava di sfuggita i suoi amanti: volti senza senso, movimenti senza grazia, ragionamenti privi di sensibilità; ecco il genere di uomini che frequentava. Corey si domandava quanti di loro aspirassero a divenire suo padre e che cosa avrebbero fatto di lui una volta riusciti in questo intento. Certo era che nessuno di loro voleva dei figli. Né li aveva voluti sua madre, probabilmente. Ma questo non poteva saperlo poiché ella non gli parlava mai di quel torbido periodo antecedente alla sua nascita. Una volta sentì un fidanzato di Alison dire a sua madre: — Mi spiace, ma non sono pronto ad impegnarmi con un figlio. Né mio né di qualcun altro.

Come poteva, allora, non essere arrabbiata con lui per la sua semplice esistenza se essa precludeva anche le principali relazioni umane?

Alison trascorreva intere giornate di totale apatia senza dimostrare il minimo entusiasmo per nulla, se ne restava a casa a dormire anche il giorno di Natale (a malapena ricordava le festività), e non riceveva visite da nessun parente, tanto che Corey non aveva neppure conosciuto i propri nonni. Poi invitava clandestinamente i suoi amichetti ed era capace di farsi sbattere sul tavolo della cucina da qualche aitante maschione dopo essersi scolata anche l’ultima bottiglia di birra.

Corey leggeva libri. Quando la vita diveniva insopportabile cercava di distrarsi in questo modo, ma non sempre gli riusciva. Sapeva che un ragazzino della sua età non avrebbe dovuto essere tanto triste da pensare già che vivere fosse qualcosa di orribile, una sorta di torto che Dio o chi per lui aveva voluto commettere nei confronti dell’umanità, ma leggendo capiva che c’era stato qualcun altro, prima di lui, a provare quegli stessi sentimenti, un po’ come l’effetto che ha per qualcuno il blues. Riusciva in questo modo a sentirsi un po’ meno pazzo, un po’ meno anormale, un po’ meno solo.

- Continua -
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Capitolo sesto
Philosophical lucubrations



Corey tornava a casa in auto poco prima di cena, dopo essere stato a scuola a preparare gli articoli per il giornale che sarebbe uscito la mattina seguente. Era una giornata di ottobre piuttosto buia: il sole era tramontato da un pezzo e dal cielo, avvolto di cupe nuvole grigio scuro, cadeva una pioggerella fine e leggera che rendeva la strada scivolosa e conferiva alla città un aspetto fastosamente squallido, ancora più inquieto del normale. Il mare era in tempesta ed il suo brontolio non abbandonava mai i suoi pensieri attorcigliati in infallibili morse.

Mescolato al lento e ritmico sospiro delle onde ad un tratto udì una melodia perdersi nell’aria, ed era un ragazzo a cantarla. Corey non capiva bene da dove provenisse: sapeva che lo incantava, che risvegliava in lui qualche strana emozione sopita dall’infanzia suscitandogli un lieve senso di elegiaca nostalgia, di qualcosa posseduto per un attimo e ormai perduto, rimasto nella musica di quella canzone. Per qualche strano moto dell’animo gli sembrava di averla già ascoltata, che avesse sempre fatto parte di lui, che volesse dire qualcosa a cui rispondere: “Sì, proprio così, esattamente!” Era così malinconica e sublime!

Ad un tratto scomparve e lui si sentì come defraudato. Poco dopo scorse una figura sottile, allato della strada deserta, camminare speditamente con splendida leggerezza: aveva i capelli a caschetto ed una giacca attillata in vita. Non poteva crederci! Non avrebbe mai confuso quel portamento elegante neanche tra mille persone, lo aveva guardato troppo bene. Quello era Damon Marshe, il ragazzo che aveva incontrato in bagno qualche giorno prima e che spesso si fermava ad osservare durante il pranzo. Era lui a cantare quella canzone? Che diavolo ci faceva sul ciglio della strada sotto la pioggia? Tra l’altro, avvicinandosi lentamente, notò che teneva un ombrello nella mano destra, ma era chiuso.

Quando gli arrivò a fianco si accostò rallentando, abbassò il finestrino e gli parlò quasi in un sussurro: — Ciao, Damon. Tutto bene?

Damon sembrava avere lo sguardo trasognato ed era bellissimo, ma quando sentì la sua voce gli fece un gran sorriso e lo salutò. — Corey, sei tu! Come va?

— Bene. Ma tu perché cammini sotto la pioggia? Vuoi che ti dia un passaggio?

— Ma no, non disturbarti. Abito qui vicino.

— Non mi disturbi affatto. Tanto non ho alcun impegno.

— Ti bagnerò la carrozzeria.

— Oh, figurati che mi importa.

— Allora grazie, accetto volentieri. — In un attimo Damon si sedette al suo fianco. Aveva i capelli leggermente bagnati e perciò più ondulati del solito: formavano degli splendidi riccioli ad incoronare i perfetti lineamenti del viso, gli zigomi alti e finemente scolpiti, la delicata fossetta proprio sotto di essi e il profilo netto e sottile. Anche nella penombra si intuiva quanto i suoi occhi verdi non si sarebbero mai scambiati per dei comunissimi occhi castani, ed il gioco di chiaro-scuri non faceva che risaltare il suo sguardo limpido.

— Stavo facendo una passeggiata, ― gli disse, ― ma poi mi ha sorpreso la pioggia. Come vedi mi ero portato l’ombrello, ma quando comincia a piovere non ho mai il coraggio di aprirlo.

— Vuoi dire che ti piace camminare sotto la pioggia?

— Sì, è una cosa che adoro. —Fece una risatina. — Penserai che io sia fuori di testa.

— Oh no, affatto. La pioggia ha il fascino irresistibile della decadenza, a volte sembra quasi liberi dall’animo i brutti pensieri lavandoli via.

— Trovi ci sia del fascino nella decadenza? —chiese quell’insolito compagno di viaggio di fronte alla battuta poetica di Corey, con un sorriso che a prima vista (ma forse era solo un’impressione) gli sembrò malinconico.

— Sì, — confermò. — Credo che ce ne sia molto più che nella gioia. Le giornate di sole sono noiose e banali, invece l’oscurità è misteriosa e irrazionale, più suggestiva.

— È il Dioniso di Nietzsche, — mormorò Damon lasciandolo piacevolmente sorpreso. — Lo conosci, vero?

Corey sorrise maliziosamente. — Giuro che se non lo conoscessi non avrei vissuto. Ma come fai ad essere così sicuro delle mie nozioni filosofiche?

— Ho letto alcuni tuoi articoli.

— Oh. Davvero? E… sentiamo, come li hai trovati?

L’altro gli rivolse di nuovo quel suo sorriso amabile e irresistibile. — Mh, molto verbosi e baroccheggianti, ciononostante sintatticamente impeccabili. Mi piace il tuo senso dell’estetica: sei terribilmente severo con le opere di cui parli, ma io condivido i tuoi pareri per la maggior parte. Le tue recensioni artistiche… le ho trovate splendide.

— Ne sono felice. Credo che il più della gente le disprezzi.

— Perché dici così? Se le disprezzassero non avrebbero lasciato che continuassi a scriverle. Forse trovano semplicemente irritante che tu abbia dei giudizi mentre loro annegano nell’ignavia.

Corey non poté sottrarsi dal sollevare un’estremità della bocca in un accenno di sorrisetto lusingato. Non avrebbe mai creduto che qualcuno che frequentava un giro di amici come il suo potesse instaurare quel genere di discorsi. — Hai detto che condividi i miei pareri per la maggior parte, giusto? E la parte che ne resta fuori cosa riguarda?

— Il tuo articolo su Hegel. Hai esagerato. La sua filosofia è un caposaldo, è interessante. Non puoi dire che le sue teorie sono stupidaggini solo perché non credi in Dio. Insomma, ovunque, anche nella vita comune, si svolgono processi di alienazione.

Corey sospirò. — Oh, sai che novità: ha scoperto il bilduns roman(1)!

— Non puoi minimizzarlo in questi termini.

Corey era affascinato da quella discussione. Alla vista di quel ragazzo che si impegnava a sostenere la propria causa filosofica con quella sua decisa gentilezza gli mandava il cuore a mille.

Dunque replicò: — Ti rendi conto che Hegel ha dato il via alla legittimazione di tutte le efferatezze della storia? Dicendo che il reale è razionale, lui giustificava tranquillamente tutti gli scempi e gli abomini, sia passati che presenti che futuri, con il pretesto che tutto fosse necessario alla realizzazione di quel suo amato Spirito Assoluto. E, perdonami, ma io in tutto questo non ci vedo che fatalismo. So che è una cosa completamente diversa, ma alla fine il risultato è lo stesso: sarà quel che sarà, tutto è scritto, tutto necessario, tutto giustificato, non ha senso batterci per cambiare nulla. Non è ovvio, poi, che quel pazzo di Hitler riprendesse proprio le teorie hegeliane per rincitrullire i tedeschi e giustificare le sue insane manie di onnipotenza?

— Sai benissimo, — replicò Damon, — che se Hegel avesse saputo come poi il Nazionalsocialismo ha distorto le sue teorie si sarebbe rivoltato nella tomba. E poi, se non altro, non sai che anche le teorie del tuo Nietzsche sono state abbondantemente usate a scopi razzisti?

— Sì, lo so, ― mormorò Corey tristemente. — Su quel periodo della storia è meglio sorvolare, altrimenti rischio di andare fuori strada. E comunque… certamente non ho mai innalzato neppure Nietzsche su un piedistallo. Anche lui era considerato un idealista, e per quanto mi riguarda io e gli idealisti viviamo su spiagge opposte.

— Pensi forse che gli esistenzialisti fossero più intelligenti? Ti piace tanto Shopenauer?

— No. — Corey sorrise. — Veramente pensavo a Kierckegaard.
Damon lo guardò con due occhioni spalancati che gli diedero un’aria infantile: avrebbe fatto tenerezza a chiunque. — Morboso,— affermò. — Ancora non si è scoperto quale fosse il suo segreto di famiglia. Ma perché proprio lui? Era un religioso convinto, e non mi pare che tu…

— Oh, questo può essere irrilevante. Diceva cose vere, molto più di quel montato di Hegel. L’angoscia… l’angoscia è reale, altro che l’Assoluto. E poi… diciamocelo, tra tutti quei filosofi, era quello esteticamente meno brutto.

Dopo neanche due secondi scoppiarono a ridere entrambi. — Che direbbero, i nostri professori, se ci sentissero parlare così? — commentò Corey. — Non ti preoccupare… so fare anche discorsi più stupidi.

— È stato divertente, — disse Damon continuando a sorridergli. Le sue parole si sfumarono nel silenzio, nel rumore dell’auto sulla strada. — Non fai discorsi per niente stupidi. Anzi…

— Eri tu a cantare, prima? — domandò Corey in un filo di voce.

Gli parve di vederlo arrossire leggermente e sorridere d’imbarazzo. — Sì, ma non dirlo a nessuno, me ne vergogno un po’. Non è una cosa che dovrei fare… credevo di non essere ascoltato.

— Invece a me piaceva, era una canzone bellissima e tu cantavi molto bene.

— Era una canzone di David Bowie. Ho ritrovato un suo album tra i vecchi dischi di mia madre, quelli degli anni settanta.

— Il glam rock?

— Esattamente. In quel periodo la bisessualità era una moda e tutti i ragazzi andavano in giro coi lustrini sugli occhi e le scarpe a punta.

— Come quelle che porti tu?

Damon fece una risatina imbarazzata. — Sì. Vedo che le hai notate. Finora l’unico ad averlo fatto è stato mio padre che mi ha detto: “Ti proibisco categoricamente di indossare questa roba!” Ma se esco di casa con l’abbigliamento che vuole lui, ciò non vuol dire che non possa vestirmi come mi pare a scuola, dico bene?

― Ah-ah! Dovrebbero fare tutti come te. — “Dovrebbero essere tutti come te”, pensò subito dopo. — Aspetta una cosa. Ma dove devo andare?

― Ehm… dovremmo tornare indietro. Perdonami, ho dimenticato di dirtelo… mi dispiace, ti ho fatto solo perdere tempo.

— Oh, non dirlo neanche. Mi è piaciuta quella dissacrante chiacchierata filosofica, — gli disse Corey facendo inversione di marcia. Si sentiva una strana inquietudine addosso, certamente dovuta alla situazione circostante. Eppure quel Damon tutto era tranne uno che mette inquietudine. Allora cos’era la strana sensazione che gli bruciava nelle vene?

— Scusa se non ti ho fermato prima, — gli disse ancora Damon.

— Non stare a scusarti, per me è un piacere. — Non sapeva bene il perché, ma si trovava a guidare ad una velocità talmente ridotta che se avesse pigiato un po’ meno l’acceleratore l’auto si sarebbe fermata. Qual’era il motivo per prolungare ancora quel viaggio?

Lanciò un’occhiata verso il suo interlocutore che in quel momento se ne stava in silenzio, lo sguardo assorto in chissà quali pensieri, osservando la pioggia farsi più sottile al di fuori del finestrino. Le sue labbra erano socchiuse, sensuali, ed una ciocca di capelli bagnati gli ricadeva dolcemente sulla guancia sinistra.

― Oh… ecco, fermati pure qui. E scusa ancora per averti fatto ritardare. Siamo proprio davanti a casa mia.

Solo allora Corey si rese conto del luogo in cui si trovavano. Sul lato destro della strada quasi era possibile scorgere il mare: ed ecco quell’immensa villa gotica, come lui amava definirla, svettare imponente di fronte a loro. Con le labbra socchiuse e lo sguardo attonito e sognante, non riusciva a pronunciare una sola parola.

— Ti ringrazio tantissimo per avermi accompagnato. Sei stato gentile. — Il viso di Damon era illuminato dalla luce bianca del lampioncino che filtrava attraverso il vetro dell’auto. Lui aveva un sorriso davvero splendido ed un volto delizioso.

— Di niente. Ne sono stato felice, — sussurrò Corey.

— Ci vediamo, — disse lui, uscendo dall’auto, sotto la pioggia ormai diradata.
Fece una corsa verso il cancello, continuando a salutalo con la mano e a sorridergli. Corey lo guardava languidamente, lui e la villa in quello scenario buio e piovoso, e continuò a guardarlo finché non scomparve dalla sua vista. Respirò profondamente appoggiando una mano sullo schienale del sedile accanto, avvertendo la consistenza della tappezzeria leggermente bagnata e tiepida. Sentì affluire il sangue al viso e le sue labbra accennarono la parvenza di un sorriso, lui che quasi mai sorrideva se non per sarcasmo.

- Continua -
__________

Nota:
1) Bilduns roman: Romanzo di formazione.

Capitolo settimo
Phisical Education lesson


La materia scolastica che Corey più detestava era l’Educazione Fisica. Il professor Jonson fortunatamente era di indole bonaria e pacifica, ma non sopportava i perdigiorno. Pretendeva che in qualunque circostanza i ragazzi si cambiassero da cima a fondo od almeno si presentassero in tenuta sportiva durante le sue ore: chiunque, pure coloro che avevano l’esonero firmato e controfirmato da medici e fisioterapisti, dovevano indossare le scarpe da ginnastica anche solo per restarsene seduti in panchina. Dunque Corey andava tranquillamente a cambiarsi con gli altri e indossava il suoi pantaloncini corti (che permettevano al pubblico di bearsi delle sue gambe filiformi) ed una T-shirt blu scuro, molto più scic che sportiva.

Mentre si stavano cambiando, alcuni suoi compagni parlavano di compiere una spedizione nello spogliatoio femminile mentre le ragazze svolgevano la lezione, nella speranza di trovare in giro qualche indumento intimo. Tra risate e battutine volgari si avventurarono verso le zone proibite prima di raggiungere il professore in palestra. Corey rimase solo nello spogliatoio con Paul.

— Che stupidi! — affermò subito quest’ultimo. — Possibile non capiscano che per saltellare le ragazze abbiano bisogno di portarli addosso, reggiseno e mutandine?

— Sì, ma molte se li portano di ricambio, — ribatté Corey in risposta.

— Oh, vedo che tu conosci l’ambiente dall’interno.

— No, è che se fossi una ragazza farei così.

— Vuoi dire che ti porti le mutande di ricambio? Ah, già… avevo scordato che a te non serve. Se tutti facessero così, nessuno si sporcherebbe mai gli abiti.

Corey si sentiva di umore troppo poco cattivo per rispondergli con una frecciatina delle sue.

Il resto della comitiva irruppe freneticamente nell’ambiente, correndo col fiatone. — Dio, che corsa tremenda! Per poco non ci scoprivano. Marc faceva da vedetta: loro sono tornate quasi subito. Se non ci hanno visto è stata pura grazia divina!

— Avete trovato qualcosa, almeno? — chiese Paul, che all’apparenza sembrava indifferente alla faccenda ma in realtà era fin troppo interessato.

Volete ammirare il bottino di guerra, ragazzi? Eccolo qui! — disse un tipo che aveva in mano un reggiseno di pizzo bianco taglia terza e che ora stava sventolando orgogliosamente come un grande trofeo. Tutti corsero a sbaciucchiarlo e a strusciarvisi sopra il viso: — È ancora caldo! — gridò uno di loro, e la cosa era praticamente impossibile visto che da più di un’ora non veniva indossato.

— Oh, merda! — esclamò ad un certo punto Kevin. — Non trovo più i miei occhiali! Li avete visti per caso? Cazzo, dove sono finiti? Oddio… li ho lasciati di là dalle ragazze! Merda, li avevo tolti un attimo e poi nella fuga mi sono scordato di riprenderli!

Gli altri sghignazzarono e cominciarono a prenderlo in giro, ben sapendo che nessuno di loro aveva il coraggio di tornare a cercarli, e d’altra parte non potevano certo chiederli direttamente alle ragazze, che in questo modo avrebbero scoperto che erano stati lì ed il piccolo furto sarebbe subito stato spiegato.

— Adesso per fare ginnastica non mi servono, — affermò Kevin. — Ma dopo come faccio?

— Vabbe’, dopo magari lo spogliatoio è vuoto, — ipotizzarono gli altri. — Ti conviene tentare alla fine dell’ora.

Dunque si avviarono insieme in palestra. Il professore aveva appena terminato di firmare il registro di classe. Fece l’appello, segnò gli assenti e mise i ragazzi ad eseguire una semplice corsa di riscaldamento. Dopo cinque noiosissimi minuti di corsa Corey pensò: “Va bene, questo può essere il momento giusto”, e con molta disinvoltura finse di appoggiare male il piede destro in modo da simulare la slogatura di una caviglia o quantomeno uno strappo muscolare.

— Professore! — chiamò poi con voce strozzata e agonizzante, — non riesco più a correre, mi fa tanto male la caviglia!

Il professore, a braccia conserte, avanzò esasperato verso di lui. Corey lo raggiunse saltellando sul piede sinistro e contraendo il viso nella più patetica smorfia di dolore che Jonson avesse mai visto in vita sua. — Come diavolo hai fatto a farti male in questo modo? — tuonò l’insegnante rosso in viso. — Neanche la persona più goffa e maldestra riuscirebbe a farsi… quello che ti fai tu, Jones! Guarda Paul. Lui sì che non ci riesce, ma almeno ci prova.

“E certo!”, pensò Corey, “quello pensa solo a prendere dieci in tutte le materie!”

— Ma tu credi di potermi ingannare con queste tue melodrammatiche messe in scena? Lo vedo che è tutta una finta, che ti credi?

— Professore, non è vero! ― piagnucolò lui.

— Non insistere: lo vedo da come ti muovi. Tu non cadresti così se non volutamente. Non inventare scuse.

— Professore, glielo giuro, mi fa tanto male! Mi permetta almeno di bagnarla con l’acqua fredda.

Jonson, che non voleva avere sensi di colpa a riguardo dei suoi studenti, pur sapendo di aver pienamente ragione, di fronte agli occhi azzurri e imploranti di Corey si sentì alla stregua di uno schiavista e suo malgrado sospirò:— E va be’, vai, vai, Jones, fai come ti pare.

Nel raggiungere il bagno dei ragazzi, Corey quasi si dimenticò di continuare a zoppicare.

— Ma sappi che non ti metterò più di sei, nella scheda! — gli gridò da dietro il professore mentre il ragazzo entrava nel bagno saltellando allegramente. Questa volta rimirò allo specchio l’immagine del suo viso rilassarsi dopo quell’improvvisata simulazione dolorosa, e divenire bellissimo ed etereo come al solito.

Segretamente si compiaceva. In realtà sapeva benissimo (e così anche il professore) di avere un corpo delizioso e due gambe lunghe, perfettamente diritte, che mai lo avrebbero tradito inciampando. Tuttavia non poteva farci niente, era più forte di lui: odiava qualsiasi tipo di sport tranne il nuoto, che era a contatto con l’acqua. Precisamente le cose che detestava di più erano lo sforzo inutile e l’orribile sensazione di sudaticcio subito dopo. Quella non poteva soffrirla per nessun motivo. Odiava sentire i capelli appiccicati al viso, senza contare che dopo una grande sudata si prendeva puntualmente la febbre.

Dopo poco sentì dei passi oltrepassare la porta. Era John, un suo compagno di classe. — Il professore ha detto che se hai fatto devi tornare là.

— Che palle!

— Come sta la tua caviglia?

— Oh, è un dolore insopportabile.

— Sì, come no.

Con molta disapprovazione Corey seguì John in palestra. Proprio in quel momento stava entrando un’altra classe dalla porta secondaria. L’attività fisica era divisa per sessi, perciò lì si trovavano tutti ragazzi. Il professore che precedeva i nuovi arrivati disse a Jonson che nella palestra accanto era saltato un tubo dell’acqua ed ora c’erano gli idraulici che svolgevano le riparazioni, quindi gentilmente gli chiese se per quell’ora avessero potuto far allenare insieme gli allievi delle rispettive classi. Naturalmente Jonson, nella sua accondiscendenza, rispose subito di sì.

I due insegnanti si misero a scambiare qualche parola fra loro. Corey si sedette sulla panchina sorreggendo il viso con le mani e sperando che quell’ora noiosa e pestilenziale terminasse il prima possibile, quando improvvisamente si sentì chiamare da dietro da una voce dolce e gentile. Sentì sobbalzargli il cuore nel petto per la repentinità di quel richiamo, o forse semplicemente perché aveva capito di chi si trattava. Si voltò con il sorriso più amabile che avesse mai offerto la sua bellezza glaciale verso lo stesso ragazzo che aveva accompagnato a casa due sere prima.

Damon indossava una maglietta bianca, stretta e dal tessuto leggerissimo, e ovviamente anche lui un paio di pantaloncini corti blu. Ah, era perfetto sotto tutti gli aspetti e in ogni minimo particolare. I suoi capelli, leggermente spettinati, gli formavano sotto le orecchie dei riccioli che gli baciavano dolcemente il collo.

— Hai visto? — gli disse sedendosi accanto a lui. — Così ci ritroviamo a fare Educazione Fisica insieme. La nostra palestra è allagata, avresti dovuto vederla: pareva una piscina.

— Veramente, — disse Corey, — non mi dispiacerebbe fare una nuotatina in acqua, invece che stare qui.

― Anch’io adoro nuotare. Potremmo andare a fare un bagno al mare quando viene estate, se ti va. Tu hai mai fatto…? — Non riuscì a concludere la frase, giacché i rispettivi professori li richiamarono intimandogli di riunirsi subito a correre insieme ai loro compagni.

Corey andò a saltellare con gli altri senza accennare nulla a riguardo della pseudo-slogatura della caviglia, né fornire spiegazioni di fronte allo sguardo alterato e stupito dell’insegnate. Purtroppo non appena rientrati nella mischia Damon venne di nuovo accalappiato dai suoi compagni di classe e Corey non poté sapere cosa tesse per chiedergli.

Quella fu l’unica volta che Corey si prestò a svolgere per intero una lezione di ginnastica, anche se lo fece cercando di impegnarsi il meno possibile ed evitando di eseguire qualsiasi esercizio quando il prof non stava a guardare.

La sera in cui aveva accompagnato a casa Damon, prima di addormentarsi non aveva fatto che pensare a lui: aveva ripercorso nei minimi dettagli le battute che via via si erano scambiati e passato in rassegna ogni singolo avvenimento e incontro fra loro, a partire dai giorni d’estate in cui lo vedeva appoggiato al balcone che dava sul mare: una creatura eterea, una silfide dai capelli cullati dal vento.

Poi quella notte stessa l’aveva sognato, aveva sempre lui nella testa: i suoi occhi verdi come il mare, la linea delle sue labbra, quel suo modo elegante di parlare e di muoversi. Aveva sognato di essere di nuovo solo con Damon in macchina, ma questa volta c’era di diverso che non stessero proprio parlando.

Quando si era svegliato di soprassalto in piena notte, era di nuovo a lui che pensava. Aveva sentito contorcersi nel petto un tormento indicibile. Non era certo quello di essere tanto ossessionato da un ragazzo giacché per lui non faceva differenza, quanto il fatto che nelle sue condizioni… lui era irraggiungibile.

Questo lo aveva fatto piangere, disperare, odiare il mondo e la vita ancor più di quanto non li avesse mai odiati, e allo stesso tempo avvertire un sentimento a lui sconosciuto per un’altra persona: una passione fortissima. Aveva provato passione per opere d’arte, letteratura, grandi storie e grandi realizzazioni artistiche, ma mai per un’altra persona. E questo lo emozionava e lo struggeva allo stesso tempo.

Verso la fine dell’ora si trovarono di nuovo vicini: Damon aveva accanto solo ragazzi della classe di Corey e grazie a Dio non stava parlando con nessuno. Lui colse subito la palla al balzo per rivolgergli la parola: ― Cosa volevi dirmi prima?

— Oh, beh… è una cosa un po’ stupida da chiedere. Volevo sapere se… ecco, se hai mai fatto da modello per un quadro. Insomma, se hai mai posato.

— No, per un quadro mai, — rispose Corey molto incuriosito da quella strana domanda. — Ma ho fatto delle foto. Nel senso che una tipa una volta mi ha chiesto se poteva farmi delle foto artistiche quando avevo tredici anni.

— Era una tua amica?

— No, non la conoscevo. Mi ha fermato per strada.

— E te ne sei fidato su due piedi?

— Sì, mi ha anche dato dei soldi.

— Ti ha lasciato tenere le foto?

— No, ho solo una copia dei negativi, ma non li ho mai fatti sviluppare.

— Tu… ― sussurrò Damon, — ti faresti fare un ritratto da me?

Corey era esterrefatto. Lui era un artista e voleva fargli un ritratto! Accennò un sorriso e si sentì impallidire.

— Naturalmente potrei…

— È perfetto, — si affrettò a confermare. ― Ho sempre sognato che qualcuno mi ritraesse! — Ovviamente non era vero: l’idea non gli era mai passata neppure lontanamente in testa. — Che tipo di ritratti fai?

— Sai, mi piace quel tipo di arte che esisteva prima della fotografia, quando la vita antica ed il viso delle persone non potevano che affidare la propria eternità alla bravura di un pittore. Detesto l’arte moderna e considero Picasso la peste del gusto. Cerco di dipingere come se la macchina fotografica non fosse stata inventata e non è molto semplice… però è la mia passione. ― Lo guardò per qualche secondo. — Tu hai un volto che si presta bene per un ritratto.

A Corey venne voglia di chiedergli perché non ritraeva la sua ragazza, ma gli sembrò una domanda troppo stupida: di sicuro l’aveva già fatto da un pezzo.

— Tu sei l’unico che non si annoia quando comincio a parlargli di arte, — affermò Damon.

— Io adoro l’arte, davvero, — ribatté lui stavolta sinceramente. — E la letteratura, specie quella meno conosciuta.

Avrebbe tanto voluto continuare a parlargli, ma i professori gridarono che era ora di andarsi a cambiare. Corey e Damon avevano completamente disertato l’ultimo esercizio.

— Aspettami all’uscita della scuola, — gli disse Damon prima di raggiungere i suoi compagni, — così ci mettiamo d’accordo per vederci, se ti va.

— È perfetto, — ripeté lui seguendo gli altri verso gli spogliatoi, ma con la mente da tutt’altra parte. In una selva cruda e più tenebrosa di qualunque altra avesse mai attraversata nella sua vita: il sentiero di un amore impossibile.


Marc entrò nello spogliatoio con aria furtiva. — Di là sono appena arrivate le ragazze di un’altra classe, — annunciò a Kevin.

— Merda, sarei dovuto andarci durante la lezione! — imprecò questi. Doveva ancora recuperare gli occhiali e certamente non aveva il tempo di aspettare che le nuove arrivate finissero di cambiarsi perché doveva tornare in classe con gli altri. — Ragazzi, dovete aiutarmi a trovare un modo per recuperarli!

Marc disse che le ragazze che stavano nello spogliatoio in quel momento erano al massimo delle novelline che frequentavano il secondo anno e non li conoscevano: dovevano trovare un modo per intrufolarsi tra di loro e recuperare gli occhiali. Ma come fare? Nessuno aveva il coraggio di entrare lì dentro in loro presenza, neppure inventando una scusa qualsiasi.

— Certo, ― ipotizzò Marc, immune nella sua virilità, — la cosa migliore sarebbe che entrasse una ragazza, ma non abbiamo ragazze che siano nostre complici. Allora l’unico modo è che ci vada qualcuno di noi, ma vestito in modo che loro non si accorgano che sia un ragazzo. Mi spiego?

— Sì, e chi ci va? — replicò Kevin sarcastico. — Pensi di andarci tu, bitorzolone come sei? Dai, è un’idea assurda: ammesso ci sia qualcuno disposto ad andarci, lo riconoscerebbero subito. Non sono mica stupide!

— Non c’è bisogno di essere stupide per cadere in una bugia completa, — ribatté Marc volgendo lo sguardo. — Corey… ce lo fai questo piacere?

— Che cosa? — ribatté lui stizzosamente. — Ti sei bevuto il cervello!

Anche gli altri concordarono con lui dicendo che Corey era perfetto.

— E dai, ti prego, sono in mezzo a un casino! — lo scongiurò Kevin.

— Non voglio avere a che fare con i vostri intrallazzi, lasciatemi in pace, — gli intimò lui. — Avete voluto comportarvi da imbecilli, adesso ve la sbrigate da soli.

— Non farti pregare, — cercò di blandirlo Kevin con voce gentile. — Ho imparato la lezione e di certo non lo rifarei. Ma tu aiutami!

— Ma scusa, non è meglio chiedergli di ridarteli senza tante storie? Di’ loro che si trovano lì per…

— Sei matto? Quelle ci fanno a fettine, poi vanno dal preside e ci fanno sospendere tutti per una settimana!

— Che assurdità! — commentò cinicamente Corey.

— Ragazzi, muoviamoci, — disse Marc, — tra poco dobbiamo tornare su: non abbiamo molto tempo. Corey, tu sei l’unico con i capelli lunghi, qui. Perciò, che tu lo voglia o no, ora vai lì dentro e riprendi quegli occhiali. Coraggio, datemi una mano a prepararlo.

Corey decise di non ribattere e si prestò blandamente a quei loro giochetti, lasciandosi agghindare dalle mani dei suoi compagni di classe senza battere ciglio. Era tanto emozionato per quel breve scambio di parole che aveva ancora un leggero rossore sugli zigomi.

Alcuni ragazzi si preoccupavano del fatto che con quei capelli rossi e l’aspetto appariscente fosse già stato notato dalle ragazze per i corridoi, perciò gli consigliarono di farsi vedere in viso il meno possibile. Ad ogni modo lo camuffarono da fanciulla. Si affrettarono a sfilargli la maglietta e ad adattargli al petto il famoso reggiseno rubato, causa di tutte le loro disavventure. A farlo fu proprio Marc il quale, cercando di non darlo a vedere, non esitò a far sostare un po’ troppo le mani sulla vita sottile del suo amico, o nel sistemare abbondanti fazzoletti nelle opulente coppe del delicato indumento di pizzo. Corey si comportò come se non si fosse accorto di niente.

— Non sarà un po’ troppo alto, come ragazza? — chiese qualcuno.

— Dettagli. Uno e settanta va più che bene. Nessuno ci farà caso.

Gli fecero indossare la maglietta stretta che aveva messo per l’ora di ginnastica e i jeans che portava prima, scuri e attillati. Alcuni pensavano andasse benissimo anche in pantaloncini corti, ma preferirono non rischiare. Infine si ingegnarono di simulare un nastro per capelli e glieli raccolsero in una coda alta che, dicevano, faceva più femminile. Gli riempirono le labbra del burrocacao alla fragola che lui stesso aveva nella tasca della giacca e lo mandarono in missione. Paul esclamò irrisoriamente: — Metamorfosi completata!

— Voglio trenta dollari, — disse Corey a Kevin.

— Tu sei pazzo! Per così poco.

— Chiamalo poco! Nessuno di voi lo farebbe, e poi con questo scomodissimo affare che mi avete infilato mi si slargherà tutta la maglietta. Fai tu: prendere o lasciare. Dammi i soldi subito, altrimenti non ti ci vado.

— Sei uno strozzino. E se ritorni senza occhiali?

— Ti ridarò metà della caparra.

— E chi mi dice che vai a cercali per davvero?

— Te lo ho detto, prendere o lasciare.

Digrignando i denti, Kevin gli diede il denaro. — Ti fai pagare più delle puttane di periferia.

— Perché? — si intromise Paul. — Tu ne sai qualcosa?

Corey intascò il denaro ed uscì. Attraversò il buio corridoio fino ad arrivare alla porta col disegnino della bambina rosa stilizzata. Prese un respiro ed abbassò la maniglia. Da dentro giungeva il tenue vociferare di quelle vocine acute, i profumi di deodoranti zuccherosi ed il caldo tipico degli spogliatoi. Senza dubbio molto meglio di quello dei ragazzi dove regnava l’orribile odore di sudaticcio.

Appena fu dentro le presenti gli lanciarono un breve sguardo di ammirazione, ma poi subito tornarono ai loro discorsi da ragazzine mentre tranquillamente si toglievano magliette e pantaloni. In quel momento Corey si rese conto che i suoi compagni avevano avuto ragione: non solo le ragazze non lo avevano riconosciuto, ma lo consideravano addirittura molto bello. Naturalmente non sapeva fino a che punto ciò che trovavano attraente fosse il semplice travestimento o quanto piuttosto il fascino androgino che se ne celava dietro, quel fascino che le faceva sentire attratte da una persona che credevano fosse del loro stesso sesso e dubitare della propria identità sessuale, non senza provarne un compiaciuto senso di colpa.

Lo lasciarono gironzolare senza il minimo sospetto. Dopo essersi guardato un po’ intorno individuò gli occhiali quasi subito: erano caduti sul pavimento in un angolo.

— Hai visto? — disse sottovoce una ragazza all’amica, nel momento in cui lui si chinò per raccoglierli. — Era il ragazzo di cui ti parlavo, insieme a quelli che sono usciti prima: Damon Marshe, la più bella creatura sulla faccia di questa terra.

Corey sorrise senza rendersene conto e concordò pienamente.

— Vuoi dire che quello è il fidanzato di Lena Barkley? — ribatté l’altra. — Quella brutta, insipida smorfiosetta insignificante sta con quel bel ragazzo?

— Sì! E poi non venirmi a dire che la vita non è ingiusta.

— È una cosa assurda. Se c’è stata speranza per quella, c’è speranza per tutti. Certo, Damon potrebbe avere molto di meglio. Non c’è paragone: lui è così bello.

— Sì, sembra un angelo e proprio non capisco perché debba stare con quella snob.

— Beh, certamente a lui piacerà perché ha qualche bella qualità interiore.

— L’unica qualità di quella è che possiede un sacco di soldi. Come lui, d’altronde. Quindi non è neanche per questo che ci sta. Ma l’hai vista? Ha sempre la puzza sotto al naso, va in giro coi vestiti firmati Versace e una volta, ti giuro, ha anche indossato una stola di visone. Se ha un solo capello fuori posto entra in crisi e possiede un livello di grazia a zero assoluto, ma si crede di essere tanto bella solo perché il principe azzurro le fa la carità di stare con lei.

— Ma dai, senza dubbio non ci sta per farle la carità. Magari è anche lui uno stronzetto viziato e tra di loro se la intendono. Tu che ne sai? Lo conosci, per caso? Ci hai mai parlato?

Corey avrebbe voluto intervenire e difenderlo. Avrebbe voluto dire: “No, lui è la persona più dolce e gentile che possa esistere…” Ma non poteva farlo: lo avrebbero scoperto. Tuttavia la ragazza disse qualcosa di molto simile: — No, è impossibile. Si capisce dai suoi occhi che non è come lei: ha un viso troppo dolce, troppo innocente, troppo…

— E allora perché continua a starci?

— E che ne so? Forse ha tendenze masochiste.

— Tu sei troppo drastica, — cercò di concludere l’amica condiscendente. — Ognuno ha il diritto di essere amato, anche una come Lena, se è davvero come la descrivi tu. Forse Damon ha trovato in lei qualcosa di speciale.

L’altra volle comunque l’ultima parola: — Sì: una speciale bravura nello storcere il naso.

Nessuna delle due, a quel punto, riuscì a trattenere una divertita risata. Anche Corey avrebbe voluto ridere ma si sentiva inquieto. Recuperò gli occhiali e si rialzò in piedi. Sentiva che le due ancora confabulavano qualcosa, ma non gli interessava. Si avviò verso l’uscita e, una volta fuori, si slacciò i capelli e li fece volare all’aria, sollevato per aver finalmente troncato quella messa in scena grottesca.

Al ritorno trovò Marc che lo aspettava davanti alla porta chiusa. — Com’è andata?

— Li ho presi. Ma che ti importa? È Kevin l’interessato.

— Tu sei sempre così cinico?

— Dai, fammi passare. Voglio andarmi a cambiare, sono già in ritardo. Questa roba addosso mi dà noia.

— Hai un caratteraccio! — Marc lo prese per un braccio, lo sbatté con le spalle al muro e lo baciò violentemente sulla bocca, strisciando la sua ispida barba contro il viso di Corey liscio come seta.

Corey provò un tremendo ribrezzo. Quel suo irsuto e muscoloso compagno non gli era mai neanche sembrato minimamente attraente, anzi gli era anche antipatico. Si sentiva la nausea. Cercò di scostarlo con le braccia, ma l’altro era ovviamente molto più forte di lui e lo teneva fermo senza fatica. — Lasciami! — gli gridò. — Mi fai schifo, lasciami in pace! Io sono un ragazzo e a te i ragazzi non piacciono, lasciami in pace!

— Sì, ma adesso sembri una ragazza. — Marc prese a baciarlo sul collo.

— Guarda che mi metto ad urlare!

— Non ti conviene.

Fuori di sé dalla rabbia, Corey gli sferrò una violenta ginocchiata sui testicoli. Marc si accasciò a terra, in un grido di dolore strozzato, gemendo e mugolando, disteso sul pavimento in posizione fetale e con le mani sopra il punto colpito. Corey si sfilò il reggiseno insieme a tutti i fazzoletti di cui era stato riempito e glielo gettò in faccia. — Tienitelo per ricordo, — gli disse freddamente.

— Oddio, Corey… quanto mi hai fatto male! — piagnucolò Marc, riuscendo a malapena a mettersi in ginocchio. — Io, davvero, non so cosa mi sia preso. Per un attimo sono uscito fuori di testa. Guai a te se lo dici a qualcuno!

— Guai a te se lo rifai, — replicò lui.


All’uscita, in mezzo alla baraonda di studenti che facevano a gara per catapultarsi fuori dalla scuola, Damon era insieme alla sua fidanzata e stavano mano nella mano, attorniati dai soliti amici coi quali trascorrevano il pranzo ogni giorno.

Corey sapeva di non avere il coraggio di chiamarlo per primo, dunque se ne restò fermo ad aspettarlo. Così aveva detto: “ci vediamo all’uscita della scuola”, ma forse non se ne ricordava neppure. Lo vedeva piuttosto malinconico, scambiare qualche vaga parola col resto della comitiva. Osservava quel bel viso, quegli splendidi occhi luminosi, studiava ogni suo singolo movimento ma non riusciva ad intuire ciò che gli passasse per la testa. Capiva solo che non sarebbe mai neppure potuto diventare suo amico come lo erano quei disgustosi figli di papà che gli stavano sempre intorno. E questo era davvero un disastro. Un disastro colossale!

— Che fai qui fermo come uno stoccafisso? — Si era improvvisamente sentito rivolgere la parola dalla fastidiosa vocetta di Mandy che mai gli era sembrata tanto irritante. — Aspetti qualcuno?

— Vuoi qualcosa, Mandy?

Lei scoppiò in una risata. — Lo sai che cosa voglio! Quello che da te vogliono tutti.

Corey l’avrebbe uccisa. Gelidamente, replicò: — Un’ora di ripetizione in letteratura: cinquanta dollari; una di storia, sessanta; algebra settantacinque…

— Mi riferisco a un’altra cosa, e tu lo sai! — disse lei ridacchiando. Corey era quasi certo che fosse sotto l’effetto di qualche droga leggera. Non riusciva a credere di essersi lasciato convincere, una volta, ad andare a letto con una persona simile. Doveva essere stato proprio disperato!

Con la coda dell’occhio guardò dalla parte di Damon e si accorse che i due si erano allontanati dal gruppo e si stavano dirigendo verso di loro. Cosa peggiore non poteva succedere.

— Ciao, ragazzi! — li salutò Mandy con insolita euforia. — Mi pare di aver già fatto le presentazioni.

— Sì, ci conosciamo già, — confermò Damon. Dunque rivolse la parola esclusivamente a Corey: — Come va?

— Tutto a posto, grazie.

— Ti cercavo per parlarti di oggi, — disse Lena a Mandy, tentando di assumere la posa statuaria e naturale di una modella che si ferma per far rimirare l’abito al pubblico. — Andiamo a fare shopping? Ho visto un abitino in quella boutique…

— Oh, mio dio, cara, non vorremo comprare un abito uguale!

— Quando possiamo vederci? — chiese Damon a Corey.

— In ogni momento, quando vuoi. Anche oggi, tanto io non ho alcun impegno.

― Per me è perfetto oggi. Loro vanno a fare spese insieme. Ti va di venire da me?

― Va benissimo. A che ora?

— Quando vuoi. Il prima possibile.

Mandy e Lena avevano ingaggiato un animato discorso su cosa indossare alla tale festa del tale dandy.

— Ti aspetto, — gli sussurrò Damon con quel suo sorriso gentile.

- Continua -

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Capitolo ottavo
Restless my soul


Quando non aveva ancora nove anni, Corey assistette in TV ad un documentario sull’Olocausto comprendendone per la prima volta il significato, e ne rimase scioccato. La notte si svegliò in preda al panico, con un sudore freddo sulla fronte e i conati di vomito, mentre nella sua testa continuavano a lampeggiare allucinanti immagini di fili spinati, trincee di colore grigio, inferni in terra.

Fu assalito da una febbre violentissima che lo tenne incollato al letto per più di una settimana: Alison ne fu molto irritata perché per badare a lui era stata costretta a prendere qualche giorno dal lavoro. Avrebbe voluto bruciare i suoi libri. Invece Corey quasi annegava nello struggente compiacimento del tormentarsi con gli orrori del mondo: studiava disperatamente, con irrazionale fervore e inconsulta pazzia, quasi invasato da qualche demone che volesse distruggere il suo corpo a suon di tormenti psichici.

Con accuratezza ossessiva ricercava nei libri le grandi stragi della Storia e le apprendeva senza ignorare la minima parola, la minima tortura causata al più piccolo essere vivente, e più sapeva che gli faceva male più se ne circondava. Stermini, guerre di religione, pestilenze, torture, patiboli, sacrifici avvelenavano costantemente la sua anima e gli impallidivano il volto, tanto che in certi momenti quasi pareva somigliare ad una perfetta, minuziosa statua di marmo.

Non era disposto a perdonare niente al Creatore, neanche la minima ingiustizia: per lui di tutto era colpevole. A volte si prometteva che quando sarebbe stato al cospetto divino, se mai ciò fosse avvenuto, avrebbe detto a Dio quello che pensava. Gli avrebbe rinfacciato tutti quegli orrori senza ragione!

Mangiava pochissimo, era costantemente abulico. Non usciva, non si rallegrava della luce del sole: nutriva una terribile rabbia dentro che lo faceva sentire ancora più impotente, ancora più solo, ancora più in collera per dover essere costretto a vivere nel mondo: certo quello era l’inferno, non la cava di fuoco e fiamme che predicava il prete.

Dunque, sconvolto ed in preda al delirio, andava dal parroco a dirgli provocatoriamente: — Lei non ha fatto che insegnarci che viviamo in un mondo con un Dio buono e giusto, che ama le sue creature e stabilisce per loro tutto un ordine provvidenziale e perfettamente giustificato. Allora, mi spieghi, perché c’è tanta sofferenza in questa terra? Perché esistono le malattie incurabili ed il dolore fisico? Perché i deboli e innocenti devono sopportare le angherie e i capricci dei più forti? Non mi dica che tutto questo è stato costruito per stimolarci alla pazienza e alla sopportazione in vista di una redenzione celeste: è solo uno stupido modo che avete voi per giustificare quest’incongruenza insanabile.

«La verità è che il mondo non è affatto stato pensato da una mente superiore in nostra funzione: non siamo altro che briciole dell’universo, e la natura e la terra conseguirebbero perfettamente il loro corso senza accorgersi di nulla, anche se noi venissimo soffiati via! Come può in tutto questo esserci una ragione?

«Ha mai provato a chiedere a un bambino del terzo mondo che si prostituisce e si droga di acido se crede che Dio abbia voluto quella vita per lui? Allora a quel punto dovrebbe chiedersi: ‘Perché? Che ho fatto di male, per meritarmi questo? Non sembra forse più logico pensare che Dio voglia punirci per qualcosa che non abbiamo fatto, per un reato che non abbiamo commesso? Tanto a lungo vorrà farci pesare quel morso che Eva diede alla mela? Oh, il mondo è una merda, signore, e Dio non è altro che il Diavolo! Prova compiacimento nel tormentarci!»

Il prete davanti a tali parole era comprensibilmente disorientato e furioso: in primo luogo perché quelle terribili ed eretiche affermazioni venivano pronunciate di fronte a tutti gli altri bambini del catechismo e mettevano in discussione ogni loro equilibrio morale, in secondo luogo perché tali pensieri immondi erano scaturiti dall’angelica voce di un ragazzino, che per l’ingenuità e l’innocenza della sua giovane età avrebbe dovuto accettare serenamente i semplici dogmi a lui impartiti, senza porsi troppe pericolose domande la cui risposta stava nella fede pura ed immacolata.

Don Mattew diveniva rosso in volto e, con la voce chiara e scandita con cui si parla ai bambini, pur sapendo perfettamente che gli argomenti che Corey gli aveva sbattuto in faccia non erano affatto da bambini, continuava a ripetere le solite storie sulla giustizia di Dio, su un Giudizio Universale in cui i buoni sarebbero stati premiati e i cattivi puniti, concludendo che, se avesse continuato a nutrire quei peccaminosi pensieri che il Diavolo instillava nella sua mente per provocarlo, certamente Dio gli avrebbe presentato la giusta espiazione.

— Gli dirò io quello che penso, — rispose allora Corey. — Dovrà spiegarmi che cosa intende Lui per provvidenza, perché non credo che una persona che commette peccato lo faccia per cattiveria. Piuttosto lo fa perché le circostanze nelle quali si trova così gli impongono, a seconda dell’etica morale che gli è stata impartita e della sua educazione. E non penso che a questo mondo esistano persone completamente cattive o completamente buone. Dovrà spiegarmi Lui invece il perché di questo male gratuito.

— Quale? Quale male gratuito? — sbottò dunque il parroco, al culmine della tensione.

— Ebbene, signore, perché metterci al mondo e farci sopportare tutti i travagli della nostra società piena di sovrastrutture inutili, farci assistere in alcuni casi alla morte dei nostri cari, al disfacimento del proprio corpo, alla vecchiaia inarrestabile… per cosa? Per morire. Per nient’altro che la morte. E non basta un Paradiso per giustificare la possibilità che ci è stata data di vivere. Non lo giustifica! Ogni più infimo malfattore… non ha chiesto lui di vivere!

Alla fine di quella lezione, scandalizzato che un bambino usasse paroloni come “sovrastruttura” o “etica morale”, don Mattew chiese di parlare in privato con Alison e, dopo averle brevemente riassunto la sua piccola discussione con Corey, le disse: — Penso che suo figlio abbia in mente idee ben più grandi di quelle che tentiamo di imparargli noi. Non mi fraintenda: è un ragazzo che possiede un’insolita vivacità mentale, forse anche un po’ troppa. Ma credo che in certi momenti abusi eccessivamente di questa sua intelligenza. Mi spiego? Un grande ingegno realizza molte e buone cose, se viene ben stimolato, ma qualora sia portato nella direzione opposta può procurare un danno altrettanto grande. Ora, io non so da quali letture sia stato suggestionato Corey per sviluppare pensieri tanto… come definirli? Pessimistici, per non dire altro. Ma penso che sia ancora in tempo per riportarlo sulla giusta strada. Tuttavia… se continua a fare domande di questo genere interrompendo ogni volta quello che io sto per dire e, anzi, addirittura contraddicendolo, temo che gli altri ragazzi finiranno per essere ancora più confusi. Pensi che l’altro giorno il piccolo Scott Carlton, lo conosce?, è scoppiato in lacrime quando Corey si è messo a raccontare delle streghe che venivano bruciate nel Cinquecento. Non fa altro che raccontare queste storie per convincerli che Dio sia malvagio e ce l’abbia con l’intero genere umano. Che diventeranno, se fin da ora credono queste cose?

Il messaggio era chiaro. Alison se ne andò infuriata e si trascinò dietro Corey tenendolo per il braccio mentre lui la guardava senza battere ciglio. In auto, freddamente, gli gridò: — Ma perché diavolo proprio a me doveva capitare un figlio così fuori di testa? Per una volta non te ne potevi stare buono senza contestare? Credi che al mondo la debbano pensare tutti come te? Se è così, beh, sei per vivere male, carino. Le premesse non sono buone. Non potevi essere come tutti gli altri ragazzini? Non potevi essere un po’ meno cupo e andartene a giocare a Baseball nel parco come fanno quelli della tua età, senza tormentarti tutto il giorno con quelle stronzate filosofiche dei tuoi libri? Ma chi è che fa come te? Nessuno. Dimmi chi si comporta come te! Tutti gli altri escono, respirano l’aria, prendono la luce del sole, tu invece sembri un fantasma! Tutti a me devono capitare, gli strani!

La sera, mentre piangeva disteso al buio tra le lenzuola del suo letto, Martin, l’uomo che in quel periodo stava con sua madre, entrò nella sua stanza per consolarlo. Ormai era quasi un anno che viveva insieme a loro ed il suo rapporto con Alison sembrava andare meglio di qualsiasi altra relazione che ella avesse mai intrapreso con qualcuno. La cosa che più differiva in lui dai precedenti fidanzati era la sua età: più o meno sulla trentina, al contrario dei ragazzini che aveva sempre portato a casa fino ad allora. Era alto, bruno, coi capelli castani e lisci, gli occhi gentili color nocciola, e un sorriso solare che formava quelle caratteristiche pieghette ai lati delle guance che contribuivano a dare all’espressione un tocco seducente e particolare.

Quella sera si sedette sul ciglio del letto e dolcemente gli sussurrò: — Non piangere, Corey. Tua madre non è arrabbiata con te. Lei ti vuole bene. È solo preoccupata perché ti vede tanto triste e tanto malinconico, non riesce a capirne il perché e vorrebbe fare qualcosa per aiutarti, per vederti più allegro.

— Ma non l’hai sentita? — ribatté lui, singhiozzando e tentando di nascondere il viso tra i capelli e il cuscino. — Lei non pensa mai a me veramente. Si preoccupa solo del fattore economico, per lei contano soltanto gli affari pratici. Non le importa di come mi sento io.

— Perché allora non provi a farglielo capire? Parlale come fai con me.

— È inutile, inutile… Ma non mi importa. Sai, non mi importa niente di lei. Come potrei ragionare con una che mi prende per pazzo? Me lo ripete in continuazione.

— Ma non lo pensa veramente!

— No! — urlò Corey. — Lei mi odia! Non so cosa ho fatto, ma lei mi odia! Vuoi che non lo capisca? Forse è un fatto intrinseco del genitore, quello di odiare il proprio figlio quando non è come voleva che fosse. Dopotutto Dio non fa altro che questo. Sai qual è la verità? Che siamo tutti soli. Ognuno di noi è solo contro gli altri, con il difetto più grande che nessuno riesce a stare solo!

Corey sbatteva le braccia sul letto e pareva quasi invasato da un furore inconsulto.

— Calmati, ― sussurrò Martin abbracciandolo e carezzandogli i capelli. — Calmati, questo non è vero. Non è vero. Tutti ti ameranno, tutti… ma tu stesso devi amare, devi permettere agli altri di entrare nel tuo cuore. Forse non potrà succederti con tutti o con alcuni ci vorrà più di altri, ma alla fine non sarai mai solo. È geneticamente impossibile nella psicologia umana.

— Sì, ma bisogna vedere in che modo non si rimane soli. E di che natura è l’affezione di coloro che si hanno intorno.

— Io credo che nella vita si raccolga quello che si semina. E se tu dai amore, amore riceverai.

— Tu parli per ingenue utopie, Martin. Non si può amare puramente in una società così materialista, così volta esclusivamente agli interessi economici. Non si può…

Corey aveva chiuso gli occhi. Le sue guance erano ancora bagnate dalle lacrime. Martin prese un fazzoletto e gliele asciugò delicatamente. — Corey, sei ancora molto giovane. Davanti a te c’è una vita intera: non hai ancora compiuto sbagli irreparabili e sei in tempo per realizzare qualsiasi sogno. La vita non sarà male, se saprai come viverla. Segui il tuo cuore.

— Utopista, ― sussurrò lui.


Alison e Martin si sposarono pochi mesi dopo. Il giorno della cerimonia lei indossò un abito lungo, bianco e appariscente ma da quattro soldi, e furono invitati solo i parenti più stretti, tra cui anche i genitori di Alison che finalmente Corey conobbe per qualche ora, e che gli restarono del tutto indifferenti. Si limitarono semplicemente a salutarlo in modo alquanto distaccato, borbottando tra loro qualcosa di offensivo riguardo ai suoi capelli rossi, che lui non riuscì ad intendere. Nonostante l’euforia della festa, il temperamento di sua madre rimase tiepido e sulla sua bocca, quando non stava seria, si dipingeva semplicemente l’accenno di un sorriso discreto.

Nacque una bambina, Britney, che aveva la pelle rosea, grandi occhi neri e folti capelli castano scuro come quelli di Martin. Corey era l’unico in famiglia ad avere occhi e capelli chiari.

Martin era un dottore specializzato in ematologia, ed era forse anche per questo che Alison l’aveva sposato: perché guadagnava un sacco di soldi.

I primi tempi trascorsero felicemente. Sua madre pareva meno stressata e questo le faceva guadagnare in bellezza. Quando tornò a lavorare assunse una bambinaia per Britney: una scialba signora di mezza età che soffriva di solitudine ed ogni volta che ne aveva la possibilità si metteva a raccontare a Corey la sua vita passata e le vicende dei suoi figli ormai adulti, rimembrando i bei tempi andati. Lui la ascoltava per educazione, ma a volte, quando proprio non ne poteva più, usciva di casa prima del suo arrivo per tornare soltanto all’ora di cena.

Si fermava sotto l’ombra di un albero nel parco a leggere qualche classico della letteratura o semplicemente passeggiava per la città, osservava le case, i cunicoli più nascosti ed i modi di comportarsi e di vivere delle persone. Gli piaceva anche semplicemente sedersi in un posto e restare a guardare la gente che passava, senza sospettare minimamente che in realtà era la gente a guardare lui.

Ancora non si rendeva conto di quanto fosse angelica, gelida e attraente la sua bellezza. Già portava i capelli lunghi, era cresciuto in altezza e le sue labbra erano irresistibilmente sensuali. Non aveva la minima idea che le persone, specialmente quelle più sensibili all’arte e ai valori estetici, non lo vedessero più come un innocente ragazzino, ma perfettamente comprendessero l’incommensurabile erotismo che sprigionava quell’aspetto così seducente che si celava dietro alla sua efebica purezza.

Una ragazza sui vent’anni un giorno gli si avvicinò e, dicendogli che aveva un viso bellissimo, gli chiese se fosse stato disposto a farsi scattare delle foto da lei. Dapprima Corey non ne era molto entusiasta, ma quando la ragazza gli promise un compenso lui accettò, ben consapevole del fatto che il sangue non fosse acqua. La fotografa lo portò a casa sua e lo fece mettere in posa sopra un letto pieno di cucini dalle lenzuola di seta, gli fece dei primi piani, delle foto con i capelli scompigliati e con espressioni malinconiche, glaciali, assorte e divertite. Scattò delle figure intere piuttosto conturbanti, nelle quali Corey ‘indossava’ esclusivamente il diafano velo di un lenzuolo che lambiva con dolcezza il minor spazio possibile di superficie sul suo corpo, accentuando ancora di più la carica erotica che le fotografie avrebbero sprigionato nel progetto dell’artista, mentre lui se ne stava in ginocchio o sdraiato sul letto come la Paolina Borghese del Canova.

Alla fine del servizio la ragazza era molto soddisfatta e Corey, una volta intascato il denaro, ridendo ironicamente le chiese se per caso non avesse intenzione di mandare le foto a qualche rivista erotica omosessuale e lei rispose che non l’avrebbe fatto perché temeva di essere denunciata per qualcosa di simile all’abuso su minori. Corey rise in maniera ancora più divertita e le lasciò il suo indirizzo, tramite il quale poi lei gli spedì i negativi.

Martin avrebbe voluto farlo divertire come facevano i bravi padri coi figli, portandolo alle partite di football o ripercorrendo i soliti luoghi comuni del campeggio nei boschi o della pesca sul ghiaccio, ma a Corey non piaceva nulla di tutto questo. In mancanza di altro, per il suo compleanno lo portò a teatro a guardare Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.

Alison non era voluta venire sentenziando: — Soltanto una noiosissima perdita di tempo. ― Ma a Corey non importava. Era troppo occupato ad osservare le splendide rifiniture dorate della balconata, affascinato dal minuzioso allestimento del palco, le voci sonore che riempivano la platea come uno scampanellio e la fantasiosa perfezione dei costumi silvestri, per dispiacersi dell’indifferenza di sua madre.

Era molto grato a Martin perché sapeva che, nonostante il teatro non fosse proprio la sua passione, l’aveva accompagnato allegramente, affermando, all’uscita, di aver trovato lo spettacolo assolutamente splendido. La situazione era strana. A nessun coetaneo di Corey passava lontanamente per l’anticamera del cervello di avvicinarsi ad un teatro, mentre a lui piacevano i musei d’arte, le biblioteche, le cattedrali e le mostre di libri antichi: tutte cose che venivano considerate, per la maggior parte, piuttosto noiose e adatte alle mollezze femminee.

A sua madre non piacevano. Era lui che ne aveva il culto, dal momento che l’arte simboleggiava, a suo parere, l’unico motivo al mondo per il quale valesse la pena vivere. E all’arte letteraria dedicò la sua anima: scrivere storie, punto. Era l’unica cosa bella, l’unica cosa positiva di cui gli importasse, l’unico modo in cui trasmettere la propria concezione della vita senza che un prete bisbetico ci gridasse sopra: “Sacrilegio!”


Fu il periodo meno infelice della sua vita. Britney cresceva bene e diventava ogni giorno più bella: le sue guance sembravano due pesche e i suoi capelli batuffoli di seta. Aveva ormai quasi quattro anni ed era diventata molto affettuosa, specialmente con il fratello maggiore, che lei venerava e adorava. Quando veniva messa a letto ogni sera pretendeva che lui le raccontasse una storia: non voleva nessun altro. Ad Alison stava più che bene, si risparmiava la fatica di farlo lei, ma tutte le volte raccomandava a Corey di non assuefarla a quei suoi soliti e orribili racconti sanguinosi. Non voleva mica che diventasse mezza matta come lui!

Corey le raccontava la fiaba della Sirenetta, così come l’aveva scritta Hans Christian Andersen. Gli piacevano quelle favole di cui erano protagonisti eroini esclusi ed emarginati, volti nella costante tensione della propria accettazione di fronte al prossimo e che spesso facevano una finaccia come la sirena, che davanti all’impossibilità genetica della realizzazione del proprio amore accetta di dare in pegno alla strega la propria voce come altissimo prezzo per ottenere un paio di gambe umane ed essere inserita nel mondo terreno del suo amato. Corey era convinto fosse così anche nella realtà: la strega cattiva non era altro che la metafora della Natura, la quale alla fine richiede sempre quello che dà, estinguendo il debito fino all’ultima briciola.

Su sollecitazione di Corey, Martin gli raccontava del suo lavoro in ospedale, tra i pazienti affetti di leucemia ed i malati terminali. Ascoltare quei discorsi lo faceva soffrire, ma egli stesso vi si sottoponeva.

Erano luoghi, quelli, in cui c’era bisogno di una valanga di psicologia. Le persone reagivano nei modi più svariati alle proprie condizioni: alcune divenivano strane, sembravano comprendere il senso della vita e comportarsi in modo magnanimo tutt’ad un tratto, altre si dimostravano serene struggendosi dentro per la disperazione, altre ancora, la maggior parte, si deprimevano irreparabilmente.

E quanti ragazzi, quanti bambini vedeva in quei reparti ogni giorno! Ragazzini ridotti a letto e a snervanti cicli di chemioterapia, che vedevano sfumare giorno per giorno la propria giovinezza a causa di un morbo subdolo, che lavorava nell’ombra e sempre troppo tardi rivelava la propria furia assassina.

Martin non gli negava quei tremendi racconti come forse altri avrebbero fatto per non turbare la serenità di quel ragazzo già così tanto compromessa, al contrario egli riteneva che Corey, sentendo di qualcuno che si trovava in una brutta condizione senza darsi per vinto, rivalutasse la propria e cominciasse a pensare che il destino non fosse poi così malevolo nei suoi confronti.

Ma questo, in Corey, non fece che sortire l’effetto contrario e confermare ancor meglio le sue teorie, le quali provocavano in lui un altro vano interrogativo: fino a che punto la natura può essere forzata senza che si ribelli?

-Continua -


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Capitolo nono
Deviant love


— Attenzione, Damon, — si raccomandò la signora delle pulizie, che indossava un elegante grembiulino bianco immacolato. — In quel punto vicino alla finestra ho versato per sbaglio la cera per i mobili, questa mattina, mentre ripulivo. Mi dispiace, è scivolosissimo.

— Non c’è problema, Becky.

La villa era un’autentica reggia, e quando Corey vi aveva messo piede era rimasto estasiato. Solo da fuori, alla semplice vista del giardino, pareva di trovarsi in un luogo idillico, quasi sospeso in una dimensione di eden: le piante di gelsomino si arrampicavano voluttuosamente ai cancelli, i sempreverdi proiettavano la loro muschiosa ombra nel curatissimo prato dove, durante la bella stagione, dovevano certo fiorire piccole margherite bianche e delicati fiorellini azzurri.

Cercò di immaginarselo in primavera, il profumo degli iris e delle rose densamente sparso nell’aria calda e mescolato al salmastro profumo della salsedine. Neppure riusciva a capire come vivesse tanta virente bellezza in un luogo simile: si sa, l’aria del mare non fa bene a certi tipi di pianta. Tuttavia gli oleandri erano splendidi, e mescolati a molte altre specie floreali di cui Corey non conosceva il nome. Le siepi perfettamente tagliate mostravano l’assidua mano di un giardiniere esperto, mentre sul retro svettava la torreggiante palma che tante volte aveva intravisto da fuori: nello spessore del suo tronco e nella vigorosa grandezza delle sue foglie, che probabilmente da sole avrebbero sostenuto il peso di una persona, nella sua altezza c’era qualcosa di esotico e grandioso.

La cosa più bella per Corey, da esteta quale era, erano state le sontuose statue marmoree e classicheggianti, che rappresentavano putti, ninfette, imponenti corpi maschili dai muscoli splendidamente scolpiti, dee curvilinee e sinuose dal petto delicato, che parevano fatte di vera carne tanto davano l’impressione di serica morbidezza. Al centro fluiva una piccola fontana barocca, dove un angioletto dalle ali di piuma e i capelli inanellati versava acqua dalla brocca che stringeva tra le tenere mani. Quando Corey chiese di chi fosse il gusto raffinato col quale era stato curato il giardino, Damon gli rivelò che da quasi un secolo veniva allestito quello stile dal momento che la villa, fatta costruire dal bisnonno di suo padre, risaliva al 1870 o giù di lì, e da sempre si era cercato di mantenere il più possibile la tradizione.

L’interno non era da meno: tutti mobili antichi ed un soggiorno dal divanetto in stile impero, di epoca napoleonica. Alle pareti erano esposti, attorniati da cornici talmente elaborate che forse valevano più dei quadri, splendide riproduzioni di Jack Louis David tra cui il celeberrimo [i[]Giuramento degli Orazi[/i]. Oltre alle credenze baroccheggianti, vide tavoli e sedie in stile Rococò, probabilmente sullo stampo di certe suppellettili che dovevano figurare alla corte di Luigi XVI, vide enormi lampadari di cristallo, lunghi e pesanti drappi di tende dorate cadere morbidamente sul pavimento, immensi tappeti dal disegno finissimo e minuzioso.

Chiedendosi che professione esercitasse suo padre per permettersi un simile sfarzo, Corey ricollegò il cognome Marshe ad un famoso avvocato di cui aveva sentito parlare qualche anno prima riguardo ad un processo per omicidio. Alan Marshe: così si chiamava, ed era anche comparso in televisione, ma lui non ne ricordava la fisionomia. A suo tempo se ne era parlato tanto perché sembrava fosse spietato: aveva gli occhi di ghiaccio, si diceva, coi quali incastrava a suo piacimento la parte avversaria, innocente o colpevole che fosse. In quell’occasione l’imputato fu assolto, benché tutti sapessero della sua colpevolezza, ma non furono mai trovate le prove per dimostrarlo. Corey non aveva idea se questo ipotetico Alan avesse qualcosa a che fare con il suo Damon o vi fosse imparentato: fatto stava che il suo amico non gli aveva mai parlato in quel senso di suo padre né accennato alla sua professione.

Damon non si soffermava neppure a mostrargli la casa, né sembrava passargli per la testa che potesse interessargli visitarla come un museo pieno di pezzi d’antiquariato. Si muoveva con leggerezza e ad ogni suo passo i morbidi riccioli dei capelli gli sbattevano sul collo fluttuando. Oh, quei capelli, com’erano belli! Talmente sottili e leggeri che parevano sempre perfetti anche da spettinati, gli scendevano ai lati del viso talvolta disegnandogli la cornice di un ricciolo proprio sotto lo zigomo.

Lo portò subito in camera sua, ed un attimo prima di spalancare la porta gli disse: — Benvenuto nel mio atelier.

Corey si sentì curiosissimo, entrando in quella stanza enorme, lussuosa e stranissima, perché effettivamente sembrava proprio la camera di una reggia settecentesca allestita a studio pittorico rinascimentale. Accanto alla porta-finestra, riparata dal diafano tendaggio di un bianco quasi trasparente, era collocato un cavalletto con una tela di medie dimensioni, dipinta solo per metà. Accanto ad esso, sopra una sorta di scrivania, stavano tavolozze e tubetti di colore ad olio a profusione, evidentemente da poco riordinati da Becky. Il letto stava sulla parte destra della stanza, accostato alla parete più riparata, ed era a due piazze con sopra una morbida coperta bianca e la spalliera turchese, imbottita e dalla forma sinuosa.

La cosa sconvolgente erano i quadri che occupavano ogni spazio libero sul muro: appoggiate all’armadio c’erano tele talvolta enormi, ed i muri stessi erano dipinti anche laddove venivano coperti da altri quadri incorniciati.

E che dipinti! A Corey sembrava di aver fatto un salto nel tempo ed essere stato catapultato in un’epoca lontana, quando i ragazzi erano graziosi come fanciulle e portavano scarpe di nero lucido con la fibbia d’argento. Era un mondo che racchiudeva una tradizione barocca, sacra e profana, profondamente armonica, diabolicamente carnale. Angeli che danzavano persino sul soffitto, in un’estasi delirante di gioia e adesione alla beatitudine. Il soffitto, meglio di una cattedrale, raffigurava angeli dalle vesti purpuree e voluttuose pieghe negli abiti, che fluttuavano delicatamente sui piedi arcuati, scompigliavano le ciocche fulve e dorate delle loro chiome ricciute.

Su un’alta tela appoggiata contro l’armadio c’era un San Sebastiano talmente illuminato dalla grazia che neppure pareva un martire trafitto da frecce appuntite: il suo sguardo era volto verso il cielo, un viso pulito, gli occhi azzurri e i capelli scuri, rapito totalmente dall’estasi divina, mentre sul bianco e sottile corpo scivolavano rivoli rossi di sangue dai punti ove erano conficcate le frecce.

La plasticità era naturalistica, anche se forse un po’ idealizzata. “Ma è questo che deve essere l’arte”, pensò Corey nella sua personale concezione, “altrimenti non avrebbe senso”. Gli studi della luce vivificavano la rappresentazione e parevano sempre raggi di luce divina, ambrata, che connotava l’ambiente di sacralità e misticismo. I visi erano perfettamente ovali, le bocche voluttuose, gli occhi enormi ed ipnotici.

Le pareti erano invece dedicate agli dei, e vi erano rappresentate scene della mitologia greca: un tumultuoso e concitato Ratto di Ganimede, dove il piccolo coppiere frigio, che urlava di spavento tra le grinfie del suo rapace rapitore, coi suoi riccioli biondi era quanto di più bello potesse essere ammirato; un Narciso che specchiava la grazia della propria immagine in un trasparente riflesso d’acqua, incurante dei richiami di Eco; una riunione di canto ove prendevano parte Apollo, Giacinto e Ciparisso, dei quali era indescrivibile la levigatezza compositiva e le splendide forme dei corpi: snello e aggraziato quello del dio della musica, che aveva come per tradizione i lunghi capelli cinti dall’alloro, ed esili e delicati quelli dei due ragazzi.

Poi comparivano altre scene minori, come un lascivo Dioniso con la coppa dorata di vino rosso in mano, il peplo corto fino al ginocchio e l’edera tra i riccioli scuri.

Corey restò per quasi mezz’ora ad osservare ogni singola figura di quel paradiso del peccato, abbassandosi sulle ginocchia ed avvicinandosi ai dipinti fino quasi a toccarli col naso, per ammirare quanto minuziosamente erano realizzate quelle figure. Avevano tutte lo stesso stile, inconfondibile, come un sigillo. Damon sedette sul letto aspettando che terminasse di rimirare la stanza.

— Come riesci a fare queste…? — tentò di dire Corey, con le parole che gli morivano in gola. — Non avevo mai visto… ― Esattamente: erano quasi perfette, come quelle degli artisti che riproducevano la realtà, magari sublimandola, prima che si potesse rinchiuderla nella fotografia. Sembrava che Damon fosse andato a lezione dal Caravaggio o da Raffaello, o da Leonardo.

— È che mi diverte tantissimo, — gli rispose. — Adoro dipingere. Lo faccio come passatempo e non mi stanco per niente, anche se può sembrare faticoso. Purtroppo non sempre i risultati sono come vorrei.

— Non ho mai visto niente di più bello, — sussurrò Corey con aria quasi sognante. Un attimo dopo gli sembrò subito sconveniente. Poteva sembrare un’adulazione troppo sfacciata da rivolgere ad un ragazzo. Doveva stare più attento, nascondere meglio il vortice di sentimenti che gli si contorceva nello stomaco.

— Davvero? Se lo dici tu mi fido, — disse invece Damon. — Ma avrai tutto il tempo di guardarli: adesso voglio farti qualche schizzo.

Corey si voltò e lo guardò stupito. — A me?

— Sì. Era per questo che…

— Oh, già, me ne ero dimenticato. — “Chissà perché vuole farmi il ritratto”, si chiese Corey per la millesima volta. “Non è possibile che mi trovi bello? Sì, forse mi trova bello semplicemente come soggetto da ritrarre. Forse vuole mettere la mia faccia su quella di Isacco prima del sacrificio. Sì, non c’è altra spiegazione.”

— Becky ha lasciato il tè con i dolcetti. Serviti pure, — gli disse Damon appoggiando il vassoio sul letto. — Non c’è assolutamente bisogno che tu stia in posa come Doryan Gray: puoi muoverti quanto ti pare e chiacchierare, a me va bene lo stesso. Per adesso faccio solo un disegno preparatorio. ― Intanto sistemava i carboncini ed i fogli da disegno. Poi andò ad scostare le tende per avere più luce e uno dei suoi stivaletti scivolò sulla cera di cui Becky l’aveva appena avvertito facendogli perdere l’equilibrio. Con uno scatto fulmineo Corey lo sorresse da dietro avvolgendogli le braccia al petto. Ci fu un istante in cui i loro volti furono vicinissimi e gli occhi verdi di Damon, con la testa all’indietro, incontrarono i suoi da sotto. Corey aveva il capo chino e i suoi lunghi riccioli rossi sfiorarono per un attimo la fronte del suo amico.

Con un sospiro si staccò da lui immediatamente, quasi arrossendo d’imbarazzo. A quello stupido e banalissimo evento lui stava dando un’importanza patetica: commiserò disperatamente se stesso. “Sono il ragazzo più sfortunato di questa terra”, si disse. “Merito solo di morire.”

— Mi hai ripreso… grazie, ― Damon constatò l’evidenza con un risolino imbarazzato. ― Me lo aveva anche detto che qui era scivoloso.
Per il disegno decisero di andare in giardino, poiché Damon amava dipingere, come si suol dire, anche en plein air. Da una parte per Corey fu meno difficile giacché l’aria della stanza gli sembrava troppo calda e statica, troppo voluttuosa e ispiratrice. Al vento, almeno, il suo cuore impazzito poteva rifornirsi della giusta quantità di ossigeno.

— Spero non ti stia annoiando troppo, — gli disse Damon mentre faceva scorrere fluentemente la matita sul foglio, alzando ogni tanto gli occhi su di lui per guardarlo. —Vuoi che ti porti un libro, o non so…

— Oh no, non è affatto noioso. E poi qui è un vero incanto. — Fece passare alcuni secondi prima di chiedergli: — Hai mai dipinto degli autoritratti?

— No, è una cosa che non mi piace.

— Perché? Molti artisti lo hanno fatto.

— Non mi interessa. A parte che non riesco a farlo, ma mi sembra qualcosa di troppo narcisista. Una specie di autoidolatria, mi fa venire i brividi.

Corey pensò che un ritratto di Damon dipinto col suo stile sarebbe stato bellissimo, ma preferì non porre altre domande o commenti a riguardo. Chiese invece: — E della tua ragazza?

— Neppure.

— È lei che non vuole?

— No, anzi, a Lena piacerebbe. Sono io che non riesco a ritrarla. Ci ho provato diverse volte, ma non viene mai come lei vorrebbe. Dice sempre che il disegno non le somiglia, e alla fine dopo svariati tentativi ho desistito.

— Forse la fai troppo bella, — insinuò Corey con tutta l’impertinenza che possedeva. — Ho notato che tra i tuoi quadri non c’è un soggetto che non sia sublimato. Comunque per quelli è un’altra cosa, perché non sono dei veri e propri ritratti. Sono curioso di vedere il mio.

— Tu non hai bisogno di essere sublimato, sei già bello così. — Non lo aveva detto con malizia, né nascondeva alcun secondo fine. Il tono della sua voce racchiudeva la più pura innocenza, ma gli piacque lo stesso sentirselo dire.

— Posso vederlo? — chiese Corey sbirciando sul foglio.

— Solo quando sarà finito.

Il bianco tavolo del giardino era stato imbandito con ogni sorta di dolci e pasticcini dall’aspetto molto invitante, ma Corey ne assaggiò giusto uno per non essere scortese. Da un po’ di giorni a quella parte si sentiva ancora più abulico del solito, quasi inebriato di qualcosa di più raffinato del cibo in quanto tale.

— Posso chiederti una cosa, se non sono indiscreto? — si sentì domandare ad un certo punto.

— Certamente.

— Cosa c’è stato tra te e Mandy?

Corey fece un sospiro. — Non so cosa ne sappia la gente, ma noi non siamo mai stati insieme come ha cercato di far intendere lei. Siamo andati una volta a letto insieme, ma per me non ha significato niente. Se non è stato reciproco non so proprio che farci. Puoi considerarmi cinico, se vuoi, ma lei non mi piace affatto.

— Allora perché…?

— Perché mi sentivo solo e lei mi è piombata addosso. — Corey abbassò gli occhi, divenuti in quel momento tristi ed eterei come cristallo purissimo. — Ma non è una buona scusa per stare con qualcuno anche se non lo si ama, giusto? ― Dopo qualche secondo, poi trovò il coraggio di indagare: ― Tu con Lena, invece?

Damon alzò le spalle con noncuranza, in uno strano sorriso a misto fra tragico e ironico. — Tutto okay.

― Sì?

― Certo, lei… non sbaglia di una virgola e piace a tutti i nostri amici. Altro che il sottoscritto… ― aggiunse quasi compiaciuto. ― Lei contesta terribilmente il mio stile e dà ragione a mio padre dicendo che dovrei tagliarmi i capelli e vestirmi in modo più normale. Da dandy, cioè, loro intendono questo. So di essere contestatissimo nel gruppo, ma almeno uno stile ce l’ho.

— Hai paura che lei ti lasci?

— Io… ― sussurrò Damon, — forse ti sembrerò presuntuoso, ma non credo le passi per la testa di lasciarmi.

“Il gruppo,” si ripeté Corey. Continuava a girargli per la testa quella parola. “Lui naturalmente frequenta quei ragazzi perché li frequenta Lena, pur sapendo di essere apertamente contestato. Di sicuro non lo fanno con cattiveria, non gli salta neanche per la testa di non riconoscerlo come uno di loro, ma allora perché…? Oddio, non ci capisco più niente. Mi sembra di parlare di lupi e di branchi.”

— A dire la verità, — gli disse Damon a voce bassa, — da un po’ di tempo la loro compagnia mi sta sempre più pesante. Sono tutti bravi ragazzi (Andrew a parte, naturalmente), ma… c’è qualcosa che stona.

— Forse sono troppo bravi.

― Forse, ― ripeté con un sorrisino. ― Ma in verità nessuno di loro è mio amico. Non è una cosa che viene da loro, ma da me che non ho i loro stessi interessi, quindi a volte può succedere che non ci si capisca molto. Non sono persone cui riuscirei a confidare qualcosa di personale.

— Neanche a Lena? Non c’è stato qualcosa in lei che te ne ha fatto innamorare, che ti ha fatto pensare che fosse speciale e potesse capirti?

Damon rimase perplesso di fronte a quella domanda. —Ma a te, Corey, vengono in mente tutti questi particolari prima di cominciare un rapporto?

— No, penso solo che molte delle comuni relazioni amorose inizino senza motivo solo per attrazione ad incastro, istintiva tra uomo e donna, senza considerare appieno l’empatia tra gli spiriti. È inutile convincersi di amare qualcuno semplicemente perché è considerato simpatico o di apprezzabile compagnia, se dentro di sé non si prova una specie di sentimento travolgente: passione, rapimento, afasia, abulia, insonnia…

— Tu… sei un romantico, Corey. Credi che un giorno ti sposerai con la tua anima gemella?

— No, io non credo nel matrimonio. Lo deploro, mi fa schifo. Tuttavia, non te lo nascondo, per tutta la vita ho sognato un amore puro, appagante e totalizzante, di quelli dove conti solo tu e la persona che ami senza niente di contingente. Ma so anche che trovarne è impossibile: questo accadrebbe se fossimo degli angeli invece che mortali. Tutte le insignificanti storie che ho avuto finora le ho cominciate sapendo già dal principio che sarebbero finite, anzi, quasi aspettavo con impazienza la loro fine per iniziare tutto daccapo. Non mi è mai importato niente di nessuno, e ho pensato: che senso ha continuare in questo modo, farsi del male e arrecarlo ad altri se tanto non c’è amore?

— Sì, lo so, Corey. Sarebbe bello, ma l’amore vero, l’amore puro platonico… non si può trovare. Le persone si conoscono e, se stanno bene insieme, ecco che provano a costruire qualcosa per il futuro senza che ci sia quella passione, quel rapimento di cui tu parli. Tanto non si può rimanere soli per tutta la vita: prima o poi ci si deve pur sistemare.

Corey sorrise tristemente. — Questo è quello che dicono tutti. Ma io personalmente non riuscirei mai a legarmi per la vita ad una persona che non amo. Preferisco elemosinare delle momentanee parvenze d’amore come ho sempre fatto.

Anche Damon sorrise malinconico, sollevando lo sguardo verso di lui: questa volta non per dargli la semplice occhiata fine al disegno, ma per incontrare i suoi occhi. — Non avevo mai sentito nessuno parlare così. È la stessa sensazione che ho sempre provato anch’io. Intendo quello che hai detto sull’amore puro, ci vorrebbe lo splendore degli angeli per un amore puro. Le anime… non si incontrano mai. L’amore disinteressato non esiste e tutte le forme di amore sono spinte dall’egoismo: in un rapporto filiale i genitori amano i figli perché sono il sangue del loro sangue, perché vedono in loro la proiezione di se stessi, e in un rapporto di coppia spesso si resta insieme perché si ha paura. Si ha paura di rimanere soli, di avere precluse certe possibilità della vita o di sbagliare qualcosa. Ma tu… sei abbastanza sprezzante da dire che non ti accontenteresti di una storia rimediata, a costo di sfidare la solitudine. Tu sei intoccabile. Mentre io…non potrei mai farlo.

— Oh, a me invece viene quasi naturale.

— Cosa?

— Rimanere solo, —rispose con una nota di ironia. — A te non è proprio mai capitato di innamorarti veramente, anche se quest’amore era solo da parte tua?

Damon attese qualche secondo prima di ribattere: sembrava in difficoltà, nonostante quella fosse una domanda semplicissima. — Io… veramente… non credo. Non ho mai provato questo genere di amore e sinceramente non credo possa esistere.

Corey decise di non tormentarlo più con quei suoi ragionamenti contorti. Si sentiva il nodo alla gola senza una precisa ragione. Fino a poco prima egli stesso avrebbe detto: “L’amore puro, la passione… non sono che delle chimere.” Aveva forse mai avuto un esempio d’amore, lui, nella sua vita? E certamente così era stato anche per Damon. Ma nonostante non ne avesse avuto gli esempi, c’era qualcosa, nell’animo di Corey, che portava scompiglio e confusione tra le sue convinzioni.

Ora quei sentimenti che credeva inesistenti li stava provando in prima persona e gli sembrava di impazzire, come dopo aver assistito materialmente ad una teofania. A provocargli quel senso di fastidio interiore era stato quel discorso così triste di Damon sull’impossibilità dell’amore.

Avrebbe preferito che fosse stato stupido come Mandy, almeno non se ne sarebbe innamorato. Invece Damon era portato proprio alle sue stesse riflessioni, era bello come un angelo ed era un ragazzo: tutti particolari per mezzo dei quali lo aveva ammaliato. E forse, chissà, gli sarebbe piaciuto di meno se non si fosse trovato in quella comitiva come una rosa in mezzo all’erbaccia. Una simile immagine in qualche modo gli faceva paura.

Damon appoggiò la matita. — Ecco, ho finito. — Corey si avvicinò per vedere il disegno. — È soltanto una prova, devo perfezionare.

Gli sembrò di osservare una propria fotografia mai scattata. L’aveva colto in una posizione che non aveva effettivamente assunto ma che ritraeva lui, senza dubbio, ed era splendido. Il soggetto del ritratto guardava assorto, in un punto lontano, imprecisato. I suoi occhi erano così ben sfumati che quasi parevano azzurri anche dal bianco e nero. La bocca, lasciva e sensuale, leggermente socchiusa, gli dava un’aria sognante, di totale spontaneità.

Ne trapelava una bellezza struggente, esattamente quella di Corey, tanto che lui stesso, nel vederlo, rimase commosso come Narciso. I lunghi capelli, resi con sinuosa morbidezza, coronavano il viso sul lato destro, mentre sul sinistro la testa faceva leva sulla mano, in una posa spontanea.

— È venuto davvero bene! — confermò Damon soddisfatto. Corey gli espresse la propria meraviglia e si complimentò con lui nel modo più euforico che riuscisse a raggiungere. In realtà una parte di lui aveva sperato che il ritratto risultasse orribile, talmente orribile da non poterlo neanche guardare. In questo modo avrebbe forse trovato un alibi per mettersi l’anima in pace, per smettere di tormentarsi? Ora si sentiva più avvilito che mai.

— Sono molto felice di esserti stato d’aiuto, — gli disse. — Ma ora devo proprio andare.

— Come mai così presto?

“Perché il solo guardarti mi fa stare male. Ogni volta che ti vedo mi pare di perdere la facoltà di parola, mi annienti completamente. Io non so cos’è… questo tuo sfuggire evanescente dalle mie braccia, giustamente molto prima di averti preso. Tu mi sei precluso, come era giusto fosse chi veramente amo in questa mia vita intrisa di snervante solitudine”.

— Ho da fare. Devo accompagnare mia sorella da un’amica.

— Oh, capisco. Allora… se ti va, ci possiamo rivedere.

— Il disegno non lo hai già fatto?

— Sì, ma potremmo…

— Beh, vedremo, non saprei. Forse è meglio di no, tu… Anzi, magari sì. Sì, certo, ci possiamo rivedere.

— Benissimo, allora per adesso… a domani.


Anche se poteva sembrare una scusa, che doveva accompagnare Britney era la verità. — Perché stai piangendo? — gli chiese la ragazzina quando vide la lacrima che gli bagnava la guancia durante la guida.

— Perché sono uno stupido.

— Dimmi che ti è successo.

— Niente che ti riguardi.

— Tanto, peggio che a me non può andarti. Pensa che Jimmy ci ha provato con Anne.

— ‘Ci ha provato?’ Ma quanti anni credete di avere?

— Oh, non metterti a fare il moralista anche tu! — replicò lei come se avesse intuito i travagli che lo affliggevano. — Ricordi di quando ti ho detto che lei lo aveva baciato? Beh, lo aveva fatto senza lingua. Ora lui ci ha preso gusto e lo ha fatto con la lingua.

— La mia unica raccomandazione è: state attente a non rimanere incinte. Quando potrà accadere, ovviamente. Qualcuno dice che i genitori amano i propri figli; io dico che se i figli vengono a rovinargli la vita quando sono ancora bambini loro, li odiano comunque e indipendentemente.

— Mia madre non mi odia!

— A te non ti ha avuta quando era bambina.

Quando tornò a casa si era già fatto buio: Britney avrebbe dormito a casa di Kerry. Prima di attraversare il cancello gli parve di vedere una figura familiare dall’altra parte della strada. — Scott, che ci fai, lì?

— Niente. Passavo di qui. È proibito, per caso? — rispose la sagoma, parzialmente colpita dalla gelida e pallida luce del lampione.

Ci mancava solo quel gran maleducato. Corey se ne tornò in casa senza neanche salutarlo. Era come una fontana: non faceva in tempo ad asciugare le lacrime che gli veniva da piangere ancora e ancora.

Si infilò sotto la doccia con le immagini di quel pomeriggio che gli vorticavano in testa. Quanta arte, quanta fioritura celestiale di colori! Un eden profano dove avrebbe consumato da solo quel sentimento opprimente che gli bloccava il respiro. Gli tornarono in mente le controverse storie della mitologia greca che Damon aveva dipinto sulle pareti della propria camera. Erano tutte storie d’amore efebico: Narciso si innamora di se stesso e dunque necessariamente di un ragazzo, il giovinetto Ganimede era amato da Zeus, Giacinto e Ciparisso, giovinetti anche loro, da Apollo. E conosceva perfettamente l’usanza dell’omoerotismo nella Grecia antica. Damon aveva immortalato per sempre quel momento di transizione prima del passaggio all’età adulta, prima dei doveri, della moglie e di un rapporto ‘normale’. Che diavolo significava? Non era neppure certo se Damon lo avesse fatto consapevolmente o scelto tali soggetti per altre ragioni.

Per ora non poteva che rannicchiarsi nel letto e piangere, piangere, piangere fino allo sfinimento. Malediceva il mondo, malediceva se stesso e specialmente sua madre che ce lo aveva messo. Ma più di tutto malediceva le catene che lo tenevano imprigionato a quei sentimenti terreni: l’amore impossibile, la passione struggente, il compiacimento malefico, la sofferenza disperata della solitudine.

Oh, ma perché non poteva essere atarattico? E perché non poteva amarlo? Perché quello non era l’Eden che Damon amava fingere nella sua stanza, ed il mondo non era bellissimo. Era un deserto di scheletri.

Sospirò dolorosamente. Damon… Damon e la sua pelle bianca e morbida, i suoi capelli serici e fluenti, e i suoi occhi del colore del mare… Chissà che effetto sarebbe stato fare…? Ma no, non era giusto creare così presto una trasfigurazione di lui, anche se sapeva che prima o poi non avrebbe potuto fare altrimenti.

Si sentiva male. Aveva la nausea allo stomaco, ed anche se non mangiava niente era costantemente sopraffatto da un senso di pienezza interiore, pienezza nell’animo e allo stesso tempo insoddisfazione.


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Capitolo decimo
Refused love


Alison e Martin avevano cominciato a litigare come dei pazzi. Corey sentiva le urla dalla sua stanza chiusa a chiave, e Britney piangeva disperata durante le serate trascorse immancabilmente ad ascoltare le grida dei suoi genitori al piano di sotto. Le discussioni cominciavano all’ora di cena, appena uno dei due apriva bocca per rivolgere all’altro la parola, allora Corey era costretto a prendere Britney e a portarla in camera. Lei piangeva, sgambettando ed urlando impaurita, ed andava a rifugiarsi tra le braccia del fratello quattordicenne. Una sera Corey le aveva acceso allo stereo una musica dolce, che coprisse in parte la furia che imperversava nella casa e che riuscisse ad addormentarla. Allora lui andava in cima alle scale e si accovacciava sul tappeto, soffocando silenziosamente i singhiozzi.

— Ma guardati! — le gridava Martin. — A volte mi sembri quasi apatica! Ultimamente poi sei più isterica del solito, non so che ti è preso!

— Ah, sì? Io sono isterica? E allora perché mi hai sposato?

— Ero convinto che sotto quella maschera di freddezza ci fosse anche un cuore, ma, certo, nella vita si fanno tanti sbagli. Vuoi che non lo abbia capito? Tu mi hai sposato solo per i soldi!

— Ma chi ti credi di essere, stronzo? Come se prima di incontrarti fossi andata a chiedere l’elemosina in giro! Tu tenti di scaricare tutta la colpa su di me perché sai benissimo che se il nostro matrimonio va allo catafascio è tutta colpa tua! Sì, tua, ché non fai altro che stare da quei tuoi cazzo di malati tutto il giorno e magari te la fai con venti infermiere diverse. Ma a me non me ne frega più niente! Gli auguro di morire tutti a quegli imbecilli!

— Tu sei pazza!

— Certo, sono sempre io la pazza! Ma tu sei normale, che preferisci andare all’Opera o quel che cazzo era con quel ragazzino imbecille, piuttosto che stare con tua moglie?

— Oh, che vipera sei! Quale madre parlerebbe così del proprio figlio? E poi magari ti incazzi perché è malinconico e tormentato, o perché se ne sta in giro per pomeriggi interi! Come fa a non esserlo, con una madre come te? Mai che ti avessi visto, in cinque anni, ad abbracciarlo una sola volta e dirgli ‘Corey, ti voglio bene’. Ma come si fa a vivere con un tale iceberg? E io che non l’ho ascoltato quando tentava di dirmi… ― Martin si bloccò di colpo.

— Cosa? — urlò Alison in preda alla rabbia, con gli occhi venati di rosso. — Cosa ti ha detto quel piccolo serpente? Aspetta che ci indovino!

— Sei una persona orribile, non voglio stare più insieme a te!

E poi continuavano con le solite sfuriate, introducendo ogni più piccola e minuziosa ragione di litigio, ogni minimo errore dell’altro, ogni vizio più banale. Quando non litigavano non proferivano parola ed anche Martin, sebbene fosse sempre gentile ed affettuoso con lui e Britney, era divenuto più taciturno.

Corey soffriva terribilmente quando li sentiva litigare, specie se parlavano di lui. Ogni insulto che sua madre gli lanciava contro era come una coltellata in pieno petto, non faceva che accumulare il suo tacito e disperato odio nei suoi confronti. L’odio veniva dal fatto che nel suo inconscio desiderava con tutto il cuore essere amato da Alison, mentre lei non faceva che negargli il suo amore, ormai questo era chiaro. Ma non riusciva a concepirne un motivo valido. “Che le ho fatto? Che le ho fatto? Che le ho fatto?”, continuava a chiedersi.

La mattina si svegliava con la vana speranza che quel nuovo giorno avesse restituito pace alla sua vita, mentre la notte, con le sue tenebre, non faceva che sprofondare tutto, di nuovo, nel tumultuoso palpitare del caos che da mesi ormai dominava la loro casa. Spesso ritrovava Britney al suo fianco, rifugiatasi nel suo letto per alleviare un po’ la solitudine e quella paura che la spaventavano nell’oscurità. Corey avrebbe preferito mille volte dormire da solo, ma non si sentiva di negarle quel piccolo conforto come aveva fatto sua madre con lui.

Alison e Martin da tempo ormai non dormivano più insieme: lui se ne andava sul divano in soggiorno, lei restava in camera da sola. Si comportava in modo talmente passivo che sembrava le andasse benissimo che le loro litigate continuassero per tutta la vita.

Tuttavia Martin mise presto fine al lento stillicidio, preparando le pratiche di divorzio e scappando il prima possibile da quella dimora degli orrori. Naturalmente Britney restò con loro. Corey lo osservò dalla finestra della sua stanza mentre caricava le valige sull’auto, con un tremendo nodo alla gola. Martin era l’unica persona che Alison gli avesse presentato e cui lui avesse voluto bene, ed ora sua madre stessa l’aveva fatto scappare via in tronco.

— Dove va papà? — gli chiedeva Britney. — Perché parte? Va a fare una vacanza? Ma quando torna?

— No, Brit. Mamma e papà stanno divorziando, il che significa che tuo padre non abiterà più con noi. Ma tu potrai vederlo lo stesso una volta alla settimana. Almeno credo. Nostra madre è insopportabile, Brit, non so se te ne sei accorta. Se potessi, farei anch’io come lui.

Una sera, dopo una cena trascorsa a forza di convenevoli sussurrati, Corey si rivolse cinicamente ad Alison, dicendole: — Spero sarai contenta, adesso che se ne è andata anche l’unica persona che aveva avuto il coraggio di stare accanto ad un’acida isterica come te! Adesso sei sola, sola come un cane, come ti meriti di essere!

Alison alzò lo sguardo, il fuoco che le balenava negli occhi. — Che cos’hai detto? Che cos’hai detto? — sibilò, con una voce talmente stridula e innaturale che quasi gli fece paura. — Ma se è tutta colpa tua! Tua! Tu non hai fatto altro che parlargli male di me, di scagliarlo contro di me! Bene, complimenti, adesso ci sei riuscito! Credevi di poterti divertire con lui e ridere di me alle mie spalle? Povero ingenuo! Adesso come vedi ci ha abbandonato: me, te e Britney. E la colpa è anche tua, carino. Perché avrebbe dovuto andarsene, se ti avesse voluto almeno un po’ di bene?

Corey sentiva le lacrime agli occhi e con voce tremante replicò: — Come puoi anche solo pensare certe cose? È innaturale! E Britney? Ci amava, ci amava tutti, me e lei. Anche te, amava. Ti avrebbe amato, se solo non ti fossi fatta odiare così tanto!

— Tu non capisci, Corey, che da che mondo è mondo quando qualcuno ci ha lascito è stata sempre e solo colpa tua!

Alison aveva scandito le parole in modo che lui ne potesse comprendere bene l’amaro significato. Scoppiò in lacrime come un bambino.

— Vattene in camera tua, — gli gridò allora sua madre. — Non sopporto di vederti un solo istante di più.


“Vorrei saper farti vedere io… cosa sarei capace di fare… per far fuggire volontariamente i tuoi amanti. Ma tu mi odii. E siccome mi odii e non sopporti di vedermi, perché prolungare tanto la tua agonia? Ho deciso di lasciarti io per sempre.”

Questi i pensieri di Corey mentre si affliggeva disteso sul letto. Avrebbe voluto suicidarsi, ma non ne aveva il coraggio. Si alzò, illuminato dall’argentea luce lunare che filtrava dalla finestra, prese alcuni abiti dall’armadio e i suoi libri preferiti dallo scaffale e ficcò tutto alla rinfusa dentro uno zainetto. Controllò i soldi nel portafoglio e ritornò a letto senza riuscire a chiudere occhio, ma continuando a pensare e a rigirarsi tra le coperte. Non sapeva come sarebbe vissuto: non gli importava. Pur di andarsene da quella casa e da quella strega si sarebbe abbassato a tutto, anche a fare la marchetta di qualche vecchio e ricco pervertito. Non voleva vederla mai più, mai più, mai più.

Poi, verso mezzanotte, Alison entrò in camera sua e si fermò, in piedi accanto al letto. — Perché sei ancora sveglio? — chiese con voce più calma e più morbida. — A quest’ora dovresti dormire già da un pezzo. Dai, dormi, che domani devi andare a scuola, ti accompagno io. Avanti, dormi.

Se ne andò così com’era venuta.

Dormi dormi, triste bambino, finché non viene il bel mattino.
Finché non spunta l’alba sul mare, gli occhi tuoi dolci più non destare,
culla nel sonno le cure amare, pene ed ingiurie non ricordare.
Troppo è la notte scura al tuo cuore, dormi e riponi questo dolore:
tu nella strada qui abbandonato, sei di tua madre figlio dannato,
sei dei fratelli grande tormento, tutti i tuoi gridi volano al vento.
Sei la rovina della tua mamma, della sua vita l’aspra condanna.
Dormi, dormi, bel cherubino, finché non v’è grigior dal camino,
finché le stelle giaccion pacate in su del ciel le spiagge fatate:
forse la vita è torbida pena, quando sue forze cupe scatena.
Dormi dormi, triste bambino, finché non viene il bel mattino.

Corey chiuse gli occhi e nel suo pensiero si auto-addormentò con una ninnananna struggente, visto che lei non gliene aveva cantate mai.
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Citazione:
E la filastrocca alla fine... com'è bella.
Ne ho assorbito ogni parola, pensando quasi di trovare che fosse una citazione da un autore famoso...
Ti dispiace se la copio e incollo da qualche parte?
Con i dovuti credits ovviamente



Ninnananna di un angelo della morte ad un bambino abbandonato dai genitori

Dormi dormi, triste bambino,
finché non viene il bel mattino.
Finché non spunta l’alba sul mare,
gli occhi tuoi dolci più non destare.
Culla nel sonno le cure amare,
pene ed ingiurie non ricordare,
segui del cuore il lento respiro,
pensa al gioioso di giostra giro,
scosta la bionde ciocche dal viso,
resta in quest’angolo buio assiso:
qui la morte arretra i suoi occhi,
prima che l’avida freccia scocchi.
Tu nella strada qui abbandonato,
sei di tua madre figlio dannato,
sei dei fratelli grande tormento,
tutti i tuoi gridi volano al vento,
sei la rovina della tua mamma
e di tuo padre l’aspra condanna.*
Lei, congiunte mani la sera,
disse: “Dio, io son la megera
che strappato ha dalla capanna
bimbo che a ritrovarla affanna”.
Dormi, dormi, bel cherubino,
finché non v’è grigior dal camino,
finché le stelle giaccion pacate
in su del ciel le spiagge fatate:
forse la vita è torbida pena,
quando sue forze cupe scatena.
Troppo è la notte scura al tuo cuore,
dormi e riponi questo dolore,
e quando in cielo brillerà luce,
e vivrà intorno ognor nuova voce,
allor ti sarò per man nel chiarore
guida all’eterno tuo gran Creatore.
Dormi dormi, triste bambino,
finché non viene il bel mattino.

* Così è come il verso era in origine, ma poi ho dovuto adattarlo a Corey ed ho evitato la parola “padre”.

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Capitolo undicesimo
Saltness on the skin


Era già trascorso qualche giorno dal pomeriggio in cui si erano visti l’ultima volta.

Una mattina si incontrarono in corridoio, prima delle lezioni, da soli. Corey si sentì sollevato nel vedere che Lena non gli stava appresso come al solito. Damon indossava una camicia nera stretta in vita, allacciata solo sui quattro bottoni centrali, e dei jeans bianchi aderenti fino al ginocchio e leggermente più larghi in fondo, a piccoli quadretti scozzesi azzurro chiaro che Corey trovò irresistibili.

Com’era bello… Avrebbe voluto sussurrarglielo in un orecchio: “Sei bellissimo”. Ma non poteva.

— Come va? ― gli chiese Damon.

— Bene, grazie, — mentì lui. — Oggi è una giornata tranquilla.

— Io invece, — disse prendendo alcuni libri dal proprio armadietto, — ho il compito di trigonometria e non c’è niente al mondo che odii di più.

— Oh, non me ne parlare. Se fosse per me l’abolirei dalla scuola, subito dopo l’Educazione Fisica.

— Sì, a proposito, ho anche gli allenamenti di basket. Che bello! ― esclamò ironico. ― Proprio una giornata ad hoc. — A giudicare dalla faccia, a Damon la cosa non andava molto a genio.

— Perché lo fai, se non ti piace?

— Beh, sai, è mio padre che ci tiene. Lui giocava quando aveva la mia età ed è convinto che abbia la sua stessa passione. Io invece non sono per niente portato per lo sport, tanto meno per il basket.

— Allora diglielo semplicemente.

— Non ne ho il coraggio. Quando ero piccolo quasi trascurava il lavoro per impararmi a centrare il canestro. Ma tanto sicuramente il coach mi farà stare in panchina… o almeno così spero, — concluse con un sospiro. Poi lo guardò con quei suoi grandi occhi che avevano la dolcezza del miele. — Come ti senti? — gli chiese in un sussurro, quasi in tono confidenziale. — Mi sembri triste. C’è qualche problema?

— Non sono triste. Sto benissimo, — rispose Corey sul punto di scoppiare in lacrime, proprio un attimo prima del suono della campana.

— Su con la vita. — Così dicendo, per un attimo Damon gli sfiorò la guancia con la mano. — Ci vediamo dopo, va bene?

Corey si sentì morire.


All’ora di pranzo lo vide arrivare attorniato da Lena, Beverly e altri loro amici.

Corey se ne stava seduto al tavolo con uno yogurt all’amarena ed un libro di poesie, accanto a certi studenti poco popolari che lui non conosceva né che si conoscevano fra loro. Naturalmente appena si accorse di Damon le poesie di Blake persero tutta la loro attrattiva. Lo osservò scambiare due parole con Lena e poi allontanarsi dal gruppo e dirigersi dalla sua parte, allorché col volto in fiamme riabbassò lo sguardo sul libro fingendo totale disinteresse.

— Corey, vieni al tavolo con noi? — La sua voce gli parve la più soave delle melodie: aveva quasi un potere taumaturgico.

— No, grazie, meglio di no.

— Se è per Mandy, oggi non c’è.

— No, te lo dico chiaro: loro non mi piacciono.

— Capisco. — Damon si sedette di fronte a lui con movimenti eleganti.

— Come ti è andato il compito? — domandò Corey, non sapendo cos’altro dire.

— Spero bene. Stai leggendo Blake? Adoro la sua poesia sulla tigre. È la mia…

— Damon, tesoro! — lo richiamò improvvisamente Lena dall’altra parte della mensa, seduta ad un tavolo insieme agli altri. — Che stai facendo lì? Dai, vieni, altrimenti Eddie si mangerà anche il tuo pranzo!

— Per quel che me ne importa… ― replicò Damon.

— Che stavi dicendo?

— Che di Blake è la mia preferita, — rispose lui in un sussurro. — Perché esprime l’incongruenza della bellezza in un mondo selvaggio.

— Ti muovi? Non è carino farci aspettare! — esclamò di nuovo Lena.

Damon si alzò lentamente. — Non vieni proprio con noi?

— No.

— Tesoro, allora? Sei impossibile!

— Dai, vai da lei, — gli disse Corey con un nodo alla gola. “Altrimenti non la smette più di urlare”, aggiunse nella propria testa.

Quando Damon la raggiunse al tavolo, Lena gli chiese: — Siete diventati amici, per caso? Ultimamente vi ho visto spesso insieme. Ma non è un tipo un po’ strano?

— Strano in che senso?

— Beh, da quanto diceva Mandy, — aggiunse Eddie, il fidanzato di Beverly, — sembra che abbia un caratterino difficile: sta sempre sulle sue, come se gli altri fossero troppo meschini per lui, troppo borghesi. Insomma, dovrebbe essere uno che se la tira o sbaglio?

— Non sbagli, — concordò Damon con un sorriso malizioso. — Se la tira splendidamente.

— Sì, è proprio la faccia stessa della gentilezza, — affermò Lena con ironia. — Non ti ricordi come si è comportato quando Mandy ci ha presentato? Se ne è andato senza dire una parola: dimmi se questa è simpatia.

— E non parliamo di quanto è controverso! — soggiunse poi Beverly che non aveva ancora detto la sua.

— Mi sembra un tipaccio, non mi piace che lo frequenti! — gli intimò allora la fidanzata.

— A me invece piace molto, — le rispose Damon. E da tutti quella risposta fu interpretata come una piccola impertinenza nei confronti della sua ragazza.


— D’accordo, Brit. Fai conto che abbiamo una torta. La dividiamo in…

— Abbiamo una torta? Dove?

Corey tentava di spiegare il calcolo frazionale a sua sorella, ma Britney si divertiva più a fare dell’umorismo.

— Sì, lo so che la matematica fa schifo. Lascia stare, vai a giocare… I compiti te li faccio io.

— Ehi, fratellino! Pronto, c’è qualcuno lì dentro? Ti senti bene? — Britney gli appoggiò una mano sopra la fronte. — Non ci posso credere! Davvero saresti tanto pazzo da farlo?

— Sì, tanto avrai tutta la vita per imparare le frazioni, — le disse Corey svolgendo quei piccoli esercizietti allo stesso modo delle parole crociate. — Sono dell’idea che la matematica distrugga l’inventiva e la fantasia. Più tardi ti ci accosti e meglio è.

— Sì, certo, così se domani l’insegnante mi chiama, all’interrogazione ci vai tu.

— Va bene, allora vieni qui ché te le rispiego.

— No, no, ti prego. L’hai detto tu che soffoca l’inventiva! — replicò la ragazzina gesticolando graziosamente. Si risistemò il l’elastico che le raccoglieva i lunghi capelli scuri, dondolando le gambe sulla sedia.

— Ecco, ho finito. Va fatto in questo modo. — Corey le restituì il quaderno.

— Oh, grazie! Sei il fratello migliore del mondo, anche se domani dovessi essere impreparata.

— Avevi solo questo per compito?

Britney sbuffò, con aria annoiata. — No, c’è anche da studiare storia. Stiamo facendo l’epoca Napoleonica.

— Studiala bene, Brit, — le raccomandò per scherzo, per provocarla. ― Non c’è niente di meglio della storia, la letteratura, l’arte e certi filoni della filosofia per capire l’animo umano.

Naturalmente Britney trovava noiosa sia la storia che la letteratura, né riusciva a comprendere perché ci fosse tanto bisogno di ‘capire l’animo umano’, ma quando suo fratello parlava, pendeva letteralmente dalle sue labbra.

— Io salgo un attimo in camera, — disse lui. Tuttavia non fece in tempo a salire il primo gradino, che suonò il campanello. Nonostante la porta d’ingresso si trovasse accanto alla scala, Britney si catapultò ad aprire prima di lui: per i primi tre secondi Corey non riuscì a credere ai propri occhi. Tutto pensava tranne di vedere Damon davanti alla sua porta, in pieno pomeriggio e senza una ragione ben precisa.

Fu quasi una visione divina. Indossava una giacca bianca che gli arrivava al punto di vita e sembrava un vero angelo. — Ciao Corey, — lo salutò. — Spero di non disturbare.

— No! Che dici? Vieni, entra!

Damon salutò anche Britney che già aveva cominciato ad osservarlo con sguardo languido, e Corey gliela presentò. — Non mi avevi detto di avere un amico così carino! — fu lo spigliato commento della bambina. Suo fratello la mandò subito a terminare i compiti minacciandola che quella sera l’avrebbe interrogata. Si tormentava del perché di quella visita, ma chiederglielo direttamente sarebbe stato poco gentile.

— Sei duro con tua sorella, — commentò Damon scherzosamente.

— Sa che non lo faccio sul serio. Ti pare che perderei tempo ad interrogarla?

Come se avesse intuito le sue preoccupazioni, Damon gli disse: — Scusa se sono piombato qui all’improvviso o se magari ho interrotto qualcosa.

— Oh no, guarda, non avevo proprio niente da fare.

— Volevo chiederti se ti andava… non so, di fare due passi, visto che oggi non è molto freddo.

In effetti il cielo era nuvoloso, ma la temperatura abbastanza accettabile. Ad ogni modo, anche ci fossero stati dieci gradi sottozero Corey gli avrebbe ugualmente risposto: — Va bene, è una splendida idea.

— Allora perfetto. Ma la tua sorellina? C’è qualcuno che stia con lei? Se vuole può venire con noi.

— No, è abituata a stare sola in casa da quando aveva sei anni. Starà benissimo.

Corey si sentiva un po’ in colpa, ma sapeva che Britney se la sarebbe cavata anche senza di lui. Più che altro si chiedeva perché mai egli stesso desiderasse farsi del male: ogni momento che trascorreva con Damon era sofferenza e disperazione allo stato puro. Si sentiva come se mille coltelli dalle lame avvelenate gli trafiggessero le vene… Ma in fin dei conti non c’era molta differenza da quando era lontano da lui, a parte che averlo accanto gli provocava una strana ed inspiegabile esaltazione, come l’estasi di una droga, che gli dava tanto compiacimento quanto dolore.


Passeggiavano lungo la spiaggia. Il chiarore avoreo delle nuvole si rifletteva sul mare, sulla sabbia sottile di un ocra quasi perlaceo, e sui decadenti capanni deserti che in estate erano docce e spogliatoi dai colori sbiaditi, ora abbandonati e dimenticati.

Tirava vento, com’è ovvio sulla riva del mare, le onde erano agitate: un’apocalisse leggera e non sconcertante. L’acqua pareva grigio-azzurra, poco più scura degli occhi di Corey che riflettevano le superfici intorno, la luce del sole o la cupezza del cielo. Aveva le ciglia lunghe e i capelli spettinati e accarezzati dalla brezza dell’aria, come se questa volesse passarvi attraverso con le sue mani invisibili, rubare un po’ di quel rosso e donarlo ai fiori per fingere una fredda primavera.

— Oggi Lena aveva da fare?

— No, non che io sappia. Ti interessa?

— È solo che io… non capisco una cosa. Perché non hai chiesto a lei di venire con te? Perché non lo hai chiesto… non so, a qualche tuo amico? Hai sempre tante persone che ti girano intorno.

— Perché volevo stare con te. Sto benissimo insieme a te: hai i miei stessi gusti e mi ascolti se faccio discorsi senza senso.

— Tu non fai discorsi senza senso. — Per la prima volta gli parve che Damon fosse arrossito leggermente, ma forse era solo una sua impressione. Aveva delle labbra stupende, sensualmente innocenti.

Corey sollevò gli occhi al cielo. — Speriamo che non piova.

— Giusto perché dovremmo tornare a casa. Io adoro le nuvole e adoro la pioggia. Ogni scenario decadente.

— Sì, me ne sono accorto.

— Il fatto è che… ― mormorò Damon, — a Lena non piace granché camminare sulla spiaggia in inverno. Preferisce venirci d’estate quando c’è un gran sole e un grande affollamento. Così, dice, le mette tristezza perché non c’è nessuno.

Erano soli. L’unica persona che avevano incontrato era un uomo che faceva footing sulla riva col cane che gli saltellava appresso.

— A me invece piace proprio per questo, — riprese Damon. — Perché si è soli. E sinceramente preferirei un rapporto profondo con una sola persona piuttosto che tanti conoscenti qua e là di cui a malapena ci si ricorda il nome. Per alcuni filosofi in antichità, ‘tre’ era il numero perfetto. Io non ci credo. Qualsiasi numero dispari è sbagliato perché impedisce la coppia, ed in ogni caso c’è sempre qualcuno che rimane solo.

— Ti posso chiedere una cosa? Da quanto tempo tu e Lena state insieme?

— Più o meno quattro anni.

— Eravate giovanissimi, — constatò tristemente, non senza stupore. — Dovete volervi molto bene, per aver avuto tutta questa costanza.

— Praticamente ci conosciamo da sempre. Sì, beh, ci conosciamo… È un’amica d’infanzia. Le nostre famiglie sono molto unite e quindi anche noi… Vedi, mio padre e quello di Lena lavorano nello stesso studio legale e hanno frequentato la stessa scuola, le nostre mamme erano compagne di banco.

“Studio legale?”, pensò Corey. “Allora Alan Marshe è proprio suo padre!”

— Ti sto annoiando? — gli chiese Damon.

— Non chiedermi sempre se mi stai annoiando. Continua.

— Quando ci siamo messi insieme avevamo quattordici anni. Lena era l’unica tra le sue amiche a non avere il ragazzo e si sentiva un po’ esclusa. Era la sera di Capodanno e c’era una grande festa. L’avevo vista triste e quando le ho chiesto che cosa avesse, mi è scoppiata a piangere tra le braccia.

— Non dirmi che vi siete fidanzati solo per questo!

— No. Tanto prima o poi sarebbe successo comunque. Le nostre famiglie tanto vicine, noi che siamo cresciuti insieme. Era una cosa che stava nell’aria come scritta nel cielo: tutti aspettavano semplicemente che lo facessimo. I nostri genitori ne furono felicissimi e non ci hanno mai ostacolato. Solo le stesse parole di rito, sai… Il padre di Lena scherzando mi diceva: ‘Guai a te se fai soffrire la mia bambina!’ ― Damon sospirò quasi impercettibilmente. Aveva lo sguardo malinconico, perso nel vuoto, in un punto imprecisato verso l’orizzonte. — Hai freddo?

— No, — rispose Corey. — E tu?

— No.

Erano le cinque spassate, già cominciava a farsi buio. Le nuvole si stavano diradando, quasi volessero scampare il pericolo che un raggio di sole illuminasse la terra. Continuarono a camminare per qualche metro, l’uno accanto all’altro, accompagnati dal respiro ruggente del mare, dalla sua forza prorompente, dalla sua schiuma bianca. C’era alta marea. Si fermarono accanto a degli scogli e vi si sedettero vicini. In effetti entrambi avevano un po’ freddo, ma nessuno dei due voleva tornare.

Le onde si infrangevano contro la scogliera grigia e levigata. Damon raccolse una conchiglia violacea a forma di spirale. — Ti dispiace, ― mormorò, — se appoggio la testa sulla tua spalla? Se è un problema, dimmelo.

Corey si sentì avvampare. — Perché mai dovrebbe essere un problema? Fai pure.

Damon gli si appoggiò alla spalla proprio come una ragazza avrebbe fatto con un fidanzato. — Forse ti sembro strano, ― gli disse, poco più che in un sussurro. — Non credo ci sia niente di male nell’abbracciarsi. Tra amici i ragazzi non esternano mai espressioni d’affetto più grandi di una stretta di mano perché le convenzioni non glielo permettono. Per me è stupido. È stupido negare un abbraccio perché si ha paura… non so. Forse i miei discorsi ti spaventano.

L’atmosfera era strana, inquietante. Non si guardavano negli occhi perché i loro sguardi erano persi verso l’infinità del mare, la luce scompariva a poco a poco e c’era nell’aria qualcosa di onirico e narcotizzante, che lasciava dire cose che, in normali condizioni di luce e di lucidità, se ne sarebbero restate nei recessi della mente.

Corey sentiva di amarlo più di chiunque altro e dopo quelle parole non trovò fuori luogo neppure confessargli: — Non ho mai conosciuto qualcuno dolce come te.

Sì, indubbiamente c’era qualche droga portata dal vento, una miscela soporifera. Sentire il calore del suo corpo sul braccio destro, la morbidezza dei suoi capelli accanto a lui gli faceva battere il cuore all’impazzata. Le braccia, con le mani appoggiate allo scoglio, gli tremavano curiosamente.

— Lo stesso è per me. Sei molto meglio di… ― Damon lasciò la frase a metà per indicargli qualcosa nel cielo. — Guarda, stanno uscendo le prime stelle. Si è fatto più sereno.

La parte libera di cielo era di un azzurro quasi zaffirino, ornato da una corolla di nuvole più chiare intorno. Era appena il crepuscolo: all’orizzonte il sole si era perso nel viola.

— Raccontami di come ti è venuta la passione per la pittura, — gli chiese Corey.

— Pensi ci sia una storia interessante per questo? Un evento determinante?

— C’è stato?

— Sì. Ma credo di essermi appassionato all’arte anche prima di esso, dacché sono nato. Quando avevo tredici anni mio padre mi portò ad una mostra di arte pittorica rinascimentale. Lui avrebbe preferito una partita di basket, a cui poi assistemmo ugualmente, ma per quella volta fece scegliere me e ne rimasi estasiato. Mi chiesi, davanti alle lunghe ali multicolori degli angeli, se non fossero troppo belle perché guardandole si provasse dolore alcuno per le sofferenze del mondo. Tutto passava in secondo piano davanti a quella perfezione commovente.

«Le Madonne avevano il viso che era un ovale perfetto ed il rosso ed il blu ornato d’oro delle loro vesti era così vivido che pareva quasi impresso sulla tavola da un intelletto non umano. Per poco non mi misi a piangere. Era tutto così bello e così armonico! La bontà e l’amore stavano negli occhi azzurri degli angeli musicanti che suonavano il liuto con le loro lunghe dita rosee, così perfettamente modellate, e nelle vesti sgargianti che ricadevano diafane sulle membra dei loro corpi.

«Lì vidi tutto ciò che c’era di giusto e perfetto nell’animo umano. “Se l’uomo è in grado di creare simili meraviglie”, pensavo, “allora nel suo animo deve per forza esserci qualcosa di buono, che va al di là di tutti i suoi possibili difetti. L’uomo fa la guerra, uccide e compie delle stragi immani e allo stesso tempo è in grado di creare questi miracoli.”

«Attraversavo un periodo di totale pessimismo, ma quel giorno compresi che l’arte… l’arte era l’unica cosa per cui valesse la pena di vivere. I popoli potevano distruggersi tra loro… i regni, andare in rovina. L’importante era che non andassero distrutte le opere del Louvre. Ecco tutto.»

Se avesse potuto agire d’istinto, Corey lo avrebbe abbracciato, stretto fortissimo, e baciato sulle sue splendide labbra. Ma non poteva farlo: lo avrebbe sconvolto, indipendentemente dalle parole che gli aveva detto poc’anzi.

Certo era che Damon non era il tipo di ragazzo che credeva. Aveva delle idee molto particolari, diverse da quelle che ci aspettava di trovare in un ragazzo comune. Rifletteva su cose delle quali non sempre un diciottenne si chiede il senso. E, cosa ancora più strana, cercava la sua compagnia. Fino ad allora chiunque avesse avuto un qualsiasi rapporto con Corey lo aveva fatto per ragioni diverse dall’empatia intellettuale. O perché allettato dal suo aspetto fisico, o semplicemente per il sesso, che era comunque una conseguenza della sua bellezza esteriore, come avevano fatto Mandy e tutti gli amanti che aveva avuto.

D’altronde chi mai avrebbe voluto congiungersi con un’anima disturbata come la sua, che non pensava ad altro che a flagelli, stermini, tormenti e sacrifici? Il corpo, invece, quello sì che piaceva a tutti: attirava come il miele gli insetti, come i fiori le api. Più di una volta era stato definito sfacciatamente fuckeble(1), ma quando si trattava di comprendere i suoi pensieri tutti fuggivano a gambe levate.

Qualcosa in Damon, invece, sembrava dirgli che egli li comprendesse perfettamente, ed era per questo che gli si stava affezionando oltre misura.

Alle sette di sera si trovavano ancora lì sulla spiaggia. Da quando l’aere era rasserenato si erano distesi sulla sabbia a guardare le stelle. In quella parte della città le luci giungevano tenui, perciò se ne potevano ammirare in gran quantità. Si spalancava davanti a loro l’immensa volta celeste ormai interamente calata nelle tenebre, cullata dalle onde e dalla salsedine, fiorita di stelle, fioche e luminose, dalla luce quasi intermittente. Erano quanto di più bello ed eterno potessero ammirare, sebbene neppure quelle, nella loro immensa esistenza, fossero immortali.

Entrambi avevano i capelli leggermente più riccioluti a causa dell’aria salmastra. Corey trovava i capelli ondulati infinitamente più belli di quelli lisci e difficili da rappresentare: qualcosa di più elaborato. Certo i capelli di Lena non si sarebbero smossi di una virgola.

Stavano quasi appiccicati perché l’aria si era raffreddata notevolmente. Corey gli aveva spiegato perché non condivideva la sua teoria sull’amore filiale: era convinto che sua madre non gli volesse bene e non c’era modo di smuoverlo da quell’idea. Quando non gli andò più di parlarne desistettero dall’argomento. Cominciarono a scherzare, a chiacchierare dei loro piccoli vizi e delle fissazioni comuni, delle relazioni che avevano avuto fino a quel momento.

— Sono stato solamente con lei, nella mia vita… te lo dico sinceramente: non ho mai avuto nessun’altra storia, neanche qualche cottarella prima dei quattordici anni.

— Neanche mai un tradimento? Non lo direi a nessuno.

— No, non sono mai stato innamorato.

— Neanche di Lena?

C’era ancora quell’atmosfera narcotica, anzi, si era intensificata. Parlavano piano, quasi sussurrando, senza ricordare di essere già passati attraverso una conversazione simile.

— Dai, non fare domande oziose…

— Non è una domanda oziosa.

— La tua prima volta?

Corey arrossì di colpo, rimanendo quasi di sasso.

— Scusa, ― gli disse subito Damon, alzandosi appoggiato sui gomiti. — Ti ho messo in imbarazzo. Non so che mi è preso, di solito non faccio domande di questo genere. Non devi rispondermi.

Corey si tirò su a sedere a gambe incrociate. — No, te lo dico. Ma prima dimmelo tu.

— Avevo diciassette anni. Con Lena, ovviamente. Nella mia camera, una sera che i nostri genitori festeggiavano… non ricordo, una causa andata bene o qualcosa del genere.

— Io invece a quattordici, nel letto di mia madre, — concluse così, laconicamente, senza dirgli con chi. E Damon, che si era sentito in colpa anche per una domanda tanto semplice, ovviamente non ebbe il coraggio di insistere oltre.


Quando Corey tornò a casa, riaccompagnato in auto dal suo amico, l’orologio segnava quasi le otto di sera. Sua madre stava miracolosamente ai fornelli e Britney guardava uno stupido talk-show alla televisione. Lei l’avrebbe interrogata volentieri, se avesse avuto le conoscenze adatte per farlo.

Alison mescolava qualcosa in una pentola, si muoveva a scatti e nervosamente come al suo solito, con velocità, ed una certa dose di violenza. I capelli, legati alla meglio con una coda bassa, le sbattevano a sbalzi sulla schiena sottile. — Ti sembra questa l’ora di tornare? — lo aggredì appena lo vide. — Ma dove diavolo sei stato? Spero che tu abbia avuto da fare qualcosa di veramente importante, per lasciare sola tua sorella!

— Mamma, ma io sto benissimo da sola.

— ‘Sta zitta! — le intimò Alison. — E tu, — si rivolse a Corey, — quando ti dico che devi stare a casa, devi obbedire! Mi sono spiegata? E non voglio sentire scuse! Devi smetterla di fare sempre di testa tua: è ora di prenderti qualche responsabilità. La vita non è tutta rose e fiori, non c’è sempre tua madre dietro a mettere a posto i tuoi casini!

— Allora, — replicò Corey sarcastico, — se questo dovesse accadere, non me ne accorgerei neanche. Dimmi quando mai ci sei stata!

— Brutto impertinente che non sei altro! E ti permetti pure di rispondermi in questo modo, a me che non faccio che lavorare tutto il giorno per voi due! Non sei altro che uno sfaccendato e fai sempre e solo quello che ti pare. Che avrò fatto di male, per avere un figlio come te? Lui se ne va in giro, invece di studiare! Tanto più che quest’hanno hai anche gli esami di stato!

— Di questo non ti puoi lamentare, mamma, — intervenne Britney. — Lui è bravissimo e sa sempre tutto!

Ormai a Corey non importava neanche più di difendersi, davanti a lei. Si era scordato della cattiveria di sua madre, dopo che Damon era stato così dolce e gentile con lui. Damon era l’unica persona di cui gli importasse al mondo.

Dopo l’affermazione di Britney, Alison era rimasta azzerata. Si riscosse solo quando, un attimo dopo, si accorse che la poltiglia nella pentola era sul punto di bruciarsi.

Durante la cena, mentre sua madre farneticava, Corey progettava di andarsene di casa il prima possibile.

- Continua -

Nota:
1) Fuckeble è un termine non troppo raffinato dello slang inglese, che in italiano potrebbe tradursi, in un’unica parola, “scopabile”. Comunque sta ad indicare qualcuno di sexy, che suscita facilmente degli istinti erotici.
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Da questo capitolo comincia lo yaoi U_U
Questo in particolare è bello per la narrazione,ma quanto a ciò che ne contiene è cinico,crudele e autolesionistico,per tratti fa quasi pietà......ma mi piace





Capitolo dodicesimo
Childish revenge


Quindici anni non ancora compiuti. Corey Jones se ne stava nel giardino di casa in piena estate, autenticamente vestito da marchetta. Un po’ era a causa del caldo, un po’ per il fatto che sentiva di doverlo fare. D’altronde aveva delle gambe splendide, dritte e longilinee, e perfettamente lisce, che quel giorno facevano bella mostra di sé. Indossava dei jeans brutalmente strappati da lui stesso a metà coscia, forse anche più in su, che aveva comprato tre anni prima ed ancora gli stavano bene, aderentissimi da ogni parte. Sopra si era buttato addosso una camicia bianca senza maniche, quasi trasparente e completamente slacciata sul petto. Era volutamente ancora più androgino del solito e spaventosamente perverso, quasi effondesse lascivia pura con la semplice aria che spostava.

Nonostante il caldo, aveva lasciato i capelli scendergli sul viso. I capelli erano un particolare sensuale (per questo la moda maschile li imponeva corti), per questo lui se ne compiaceva. Teneva sulle labbra quel burrocacao alla fragola che sua madre detestava. Tanto a lei non piaceva mai niente di ciò che lo riguardasse, quindi non aveva nulla da perdere in nessuna occasione. Sapeva bene che lassù, alla finestra, c’era qualcuno che lo osservava.

Sua madre si era fidanzata con Steven da qualche settimana. Non erano passati neanche tre mesi da quando Martin se ne era andato.

Steven era un ragazzotto di ventitré anni, alto all’incirca uno e ottanta, bruno, mediamente atletico e di bella presenza. A Corey non piaceva molto. Lo aveva conosciuto un giorno a colazione dopo che aveva passato la notte con sua madre. In quell’occasione Alison se ne stava in camera a vestirsi mentre Corey, indossando solo una lunga T-shirt bianca che a malapena gli copriva le mutande, si era appena alzato per andare in bagno e ci aveva trovato dentro Steven appena uscito dalla doccia. Naturalmente era abituato a sorprendere certi sconosciuti in giro per casa: Alison aveva riacquistato le abitudini di un tempo.

Il ragazzo studiava Ingegneria all’università, ma era rimasto indietro con gli esami e la materia non lo entusiasmava granché. Abitava in un appartamento da solo, mantenuto dai genitori fiduciosi nella sua buona volontà e nei risultati universitari: due cose entrambe pressoché nulle.

Mentre Britney dormiva nella propria stanza, Corey si divertiva ad ascoltare i rumori che provenivano dalla camera dei due amanti: sospiri e gemiti piuttosto squallidi, a dire il vero, ma forse solo perché riflettevano il tipo di rapporto che c’era tra loro, basato unicamente sul sesso. In effetti si vedevano giusto di notte ed era solo in quelle ore che ogni tanto si scambiavano qualche parola, magari per ingannare il tempo che serviva a Steven per ricaricarsi dopo un orgasmo e procedere con quello successivo. Sotto l’effetto dell’alcol (e forse anche di qualche dose di droga leggera), erano in grado di instaurare discorsi del tutto perversi, da adolescenti quali erano ancora le loro menti, confidandosi con voce bassa e roca le loro più spinte fantasie sessuali, le più inconfessabili esperienze.

— Sì… ― mormorava Steven con voce assonnata, spiaccicato prono sulle lenzuola, rispondendo ad una sollecitazione di Alison, — …l’ho fatto qualche volta, quando ero ragazzo… con un mio compagno… gliel’ho fatto godere tutto, a quel frocetto.

Corey ascoltava divertito fuori dalla porta. Di fronte a dichiarazioni del genere sua madre si metteva a ridere, senza immaginare cosa l’aspettasse.

Quando Steven era in casa, Corey se ne andava in giro mezzo svestito. In realtà l’idea non gli era venuta proprio nel momento in cui l’aveva sentito parlare del suo rapporto omosessuale durante l’adolescenza, ma quando effettivamente aveva sentito gli occhi del giovane su di sé, e non era un caso. Che Steven si ritenesse normale o bisex a questo punto non faceva molta differenza, dato il tipo di ragazzo che era Corey. Tanto più era disinibito: non faceva nulla per mascherare gli sguardi di ammirazione che gli lanciava, e talvolta sembrava accorgersene persino Alison, anche se restava zitta, facendo finta di niente.

Quella mattina se ne era andata al lavoro senza svegliare Steven, dopo la loro lunga notte di follie. Lui in realtà avrebbe avuto una lezione alle nove di mattina, ma era da un po’ di giorni che aveva smesso di frequentare l’università, senza ovviamente farlo presente ai genitori che continuavano a sborsargli il loro solito assegno mensile.

Corey se ne stava in giardino fingendo di leggere, ed osservando invece il suo ammiratore alla finestra più sopra. Di scatto richiuse il libro e si precipitò con passo deciso all’interno della casa ed al piano superiore, per comparire infine sulla soglia della stanza dove, ancora in mutande, Steven se ne stava seduto accanto alla finestra.

— Di’ un po’, — si sentì apostrofare, — ti sembra quello il modo di andare vestito?

— È che oggi… fa davvero molto caldo. Che stavi facendo?

— Nulla. Mi sto per vestire, non vedi? — Steven si alzò in piedi. Era circa una spanna più alto di lui. Corey gli si avvicinò lentamente, fino ad arrivare a tre centimetri dal suo viso, guardandolo intensamente negli occhi. Quel ragazzino era sfacciatamente irresistibile da ogni punto di vista. Si alzò sulla punta dei piedi ed accorciò la distanza tra le loro labbra, tentando di baciarlo sulla bocca.

Steven, respirando profondamente, si divincolò da una stretta che era inesistente, allontanandosi di qualche passo. — Che diavolo tenti di fare?

— Oh, su… ― sussurrò Corey, — non dirmi che non ci hai mai pensato.

— Non ti sta bene comportarti così da troietta, carino. Sei così giovane e già così deciso?

Corey compì di nuovo qualche passo verso di lui. — Che male ci sarebbe, se…? Mi trovi poi così orribile?

— Tutt’altro… Ma io vado solo con le donne.

— Oh. E non credi che io sia più bello di una qualunque ragazza tu possa incontrare in giro? Mi sto mettendo totalmente a tua disposizione. Avanti… non mi dire che in questa casa non provi più attrazione per me che per mia madre…

Oh sì, pensava Steven, lui era decisamente più bello di Alison… ma era un ragazzino. Un ragazzino incredibilmente provocante che gli stava vicinissimo, a due centimetri dal viso, ed aveva due labbra che sembravano fatte del petalo di una rosa.
Corey gli appoggiò le lunghe mani affusolate sulle spalle nude, con tocco di piuma. — Sono un ragazzo, è vero. Ma… non ti va di fare un’esperienza nuova? Qualcosa di mai provato?
Steven tentò di far notare il meno possibile i sospiri provocati dal carezzevole massaggio di Corey sulla schiena. Era inconsulto, ma stava quasi per avere un’erezione. — Veramente, ― mormorò, — non sarebbe la prima volta. Ma tu che fai, stai cercando di incastrarmi? Poi lo denunceresti a tua madre come pedofilia o roba del genere… non mi fido.

Intanto Corey aveva fatto scivolare, lentamente, una mano fino al pene di Steven, in basso, e aveva preso ad accarezzarglielo con esasperante delicatezza. Non aveva mai fatto una cosa del genere in vita sua. Il cuore gli batteva all’impazzata, sebbene non provasse il minimo sentimento d’amore. Gli sorrise. — Non ti fidi? Vorrà dire che ti farò un attestato scritto… di consenso. — Detto questo, gli si appiccicò al collo, leccando e succhiando. All’orecchio gli sussurrò: — Non sei ancora stanco di farti desiderare?

Steven gli afferrò la nuca con la mano per accostargli la testa al proprio viso ed appiccicò le labbra alle sue, con foga, infilandogli la lingua in bocca. Con la mano destra gli sollevò la gamba al ginocchio avvolgendosela intorno alla sua, poi la lasciò andare e gli fece scivolare di dosso la camicia, che ricadde a terra. Continuando a baciarlo sul viso e sul collo, lo spinse con decisione sul letto ancora sfatto. Mentre Steven gli slacciava i jeans, Corey gli tolse definitivamente le mutande afferrandogli il membro in tutta la sua erezione.

Nonostante da fuori sembrasse davvero un ragazzino famelico e assetato di sesso, dentro di sé desiderava bloccare tutto e fuggire via; ma l’odio che provava per sua madre era più forte di qualsiasi altro sentimento popolasse il suo cuore, e non gli importava quale fosse il prezzo da pagare per attuare appieno la sua vendetta.
Stavano in trasversale sul letto: Corey aveva la testa appoggiata sopra il cuscino di sua madre, Steven sembrava volerselo mangiare da un momento all’altro, tanto si muoveva lussuriosamente sopra di lui e baciava, succhiava la sua pelle quasi avesse voluto inglobarla nel suo corpo. Gli appoggiò una mano sulla guancia e sul collo: a Corey piaceva quella sensazione, perché la mano era fresca e gli sembrava una benda ghiacciata su una fronte febbricitante. Gli scivolò sul collo, sulla spalla e sul braccio, fin quando si accorse che Steven gli stringeva con le mani entrambi i polsi schiacciandoli contro il lenzuolo. Lo faceva fin troppo forte, quasi da provocargli dolore. — Adesso ti ho in pugno e non mi puoi più sfuggire, — gli disse, a mo’ di provocazione. — Non era questo che volevi?

Oh, come avrebbe voluto… come avrebbe voluto che sua madre fosse entrata proprio in quell’istante, da quella porta semiaperta! Quale sarebbe stata la sua reazione? Ci sarebbe mai stata la più remota possibilità che si indignasse per ciò che stava succedendo a suo figlio piuttosto che preoccuparsi dell’amante infedele? Certo sarebbe andata su tutte le furie per quel ‘tradimento in famiglia’ che le aveva riservato Steven. E ci avrebbe sofferto, eccome se ci avrebbe sofferto! Non è bello vedere il proprio fidanzato che ti tradisce con una persona che odii.

— Bene, ― mormorò Corey. — Allora fammi vedere che altro sai fare!

— Non ti stanchi proprio mai, troietta… ― insinuò allora Steven lasciandogli i polsi e fiondandosi sulle sue cosce, che accarezzò avvolgendosele intorno alla vita. Poi, con le mani sulle sue natiche, gli avvicinò il bacino il più possibile a sé e lo baciò rudemente in bocca. — Vediamo se ti faccio contento.

Corey aveva il respiro affannoso. Si sentì afferrare il pene da Steven come egli stesso aveva fatto prima col suo, ed una miriade di scintille si dilagarono in tutto il suo corpo. Dopo di che, sentì il colpo tremendo del pene di Steven che con una prima e decisa spinta cominciò a penetrarlo, facendosi largo. L’intero corpo di Steven sprigionava veemenza, pareva solido come una roccia, impossibile da sopraffare o scansare. Sulle prime Corey fu colto dal panico e lanciò un piccolo urlo. Con tutta la forza che in quel momento credeva di possedere, fece leva sulle mani contro le braccia dell’altro per tentare del allontanarlo da sé. — Lasciami… lasciami! ― lo supplicò, con una smorfia di dolore sul viso. — Mi stai facendo male… ti prego, vattene!

Steven gli appoggiò una mano sulla bocca, in un gioco erotico che almeno a lui doveva piacere molto. Così rimasero per un attimo nella sua visuale solo quei divini e vitrei occhi azzurri come il cielo di un’alba, impauriti e luccicanti di lacrime. — Ssssshhh…. L’hai voluto tu, ricordi? Non ti preoccupare. Non fare così. È spiacevole solo all’inizio, dopo andrà meglio. Rilassati, non essere teso. — Detto questo, Steven accentuò le carezze sul membro di Corey, togliendo la mano dalla sua bocca e coprendola invece con la propria, in un bacio profondo e carnale che racchiuse ogni gemito e sospiro del ragazzino.

Mentre l’uomo continuava a spingere (ed era come sentirsi autenticamente impalare e spezzare in due) con sempre maggiore potenza, Corey continuò incontrollatamente a gemere e piangere, giacché le lacrime sgorgavano dai suoi occhi come dotate di vita propria, ma si proibì categoricamente di supplicarlo di allontanarsi: aveva già troppo sbagliato a lasciarsi andare la prima volta.

Con spinte sempre più accentuate, Steven si infilò interamente. L’unica cosa che Corey tentava di immaginarsi era quanto potesse essere lungo in erezione, perché oramai gli sembrava di averlo completamente dentro di sé e non riusciva a pensare al punto preciso in cui fosse arrivato. Gli sembrava qualcosa di allucinante ed ineffabilmente oscuro e perverso, e per questo allettante.

Ebbene, anche se gli stava facendo così male, trovava qualcosa di affascinante in quell’atto sessuale che non gli aveva lasciato respiro alcuno: ansimava tanto velocemente che quasi non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile innescare un tipo di respiro tanto diverso senza aver fatto prima neppure una corsa. Era inevitabile il fascino del proibito, prima o poi era ovvio che anch’egli vi fosse caduto, in quelle trappole peccaminose dai sospiri ambigui.

Steven, tenendo in mano il suo pene, lo muoveva con lo stesso ritmo del proprio, che aveva cominciato a far scivolare fuori e dentro di lui, facendolo uscire molto lentamente e reintroducendolo tutto ad un colpo, in una sola spinta. Dapprima il ritmo fu pacato per permettere a Corey di adattarsi alle nuove sensazioni, fino a quando tutta l’eccitazione accumulata non prese il sopravvento sul dolore fisico. Era inebriato dall’avvertire su di sé entrambe le pulsazioni dei due organi: il proprio tra le mani di Steven, e quello del suo amante che si muoveva ininterrottamente poco più sotto.

Il ritmo si intensificò, le spinte divennero più frequenti. Steven pareva in estasi: anche il suo sguardo era cambiato, sembrava quasi vuoto, come rapito in una visione ultraterrena. D’improvviso Corey sentì un fiotto di calore incredibile irradiarsi dentro di sé, lo sperma caldo che usciva a spruzzi intermittenti fino all’ultimo, più intenso e prolungato. Quel fremito incontenibile non impiegò molto per esercitare lo stesso effetto su di lui, che sperimentò poco dopo il più forte orgasmo che avesse mai provato fino ad allora.

Per un attimo l’unione con Steven gli parve assolutamente indissolubile. Per un attimo gli parve quasi di volergli un po’ di bene, anche se solo pochi minuti prima avrebbe voluto picchiarlo a sangue. “Oh, se solo… se solo potessi amarlo almeno un pochino!” Ma era impossibile trovare qualcuno da amare. Perciò, in fin dei conti che differenza faceva sprecare la propria verginità con lui o con qualcun altro?

Subito dopo si ritrovò assolutamente come prima, di nuovo a sé stante, staccato da quella persona né più né meno di come lo era stato prima.

Con la mano bagnata di sperma, Steven ritirò il proprio membro, si sollevò e si allontanò da lui sdraiandosi al suo fianco. Corey restò nella medesima posizione ancora per alcuni secondi, ansimando con le gambe divaricate e le ginocchia piegate. Ora che era tutto finito cominciò a tornargli addosso un certo senso di fastidio, e sentiva alquanto dolorante quella parte che era stata penetrata un attimo prima.

Quando gli prese freddo tirò su di sé il lenzuolo, voltandosi su un fianco dalla parte del muro, e chiuse gli occhi. Si sentiva stanco, anche se erano appena le nove di mattina. Tra il dormiveglia sentì Steven che si alzava dal letto e si rivestiva. Quando ebbe finito si chinò su di lui e sussurrò: — Ora devo andare. Ci vediamo questa sera, troietta. — Quindi, senza che Corey lo degnasse del minimo sguardo o saluto, gli diede un bacio sulla bocca. — Oh, — aggiunse, — naturalmente tua madre non deve sapere niente di questo.

— Non preoccuparti. Io non glielo dirò di certo, — rispose lui.

“Certamente arriverà il giorno in cui sarà semplicemente il suo intuito a rivelarglielo”.

- Continua -

Corey vestito da marchetta è troppo sbav

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Loveless
view post Posted on 17/3/2008, 14:40






Capitolo tredicesimo
Trip to the mountain


Una sera, quando Damon tornò a casa di pomeriggio tardi, trovò suo padre che lo aspettava in camera.

Come dire? Erano alquanto fuori luogo tutti quei variopinti quadri mitologici, all’insegna della carnalità, accanto a quell’uomo alto e dritto, in perfetto completo grigio ed inamidato di giacca e cravatta, senza neppure una piega. Teneva le mani congiunte dietro la schiena ed era voltato di profilo rispetto alla porta d’ingresso, lo sguardo rivolto verso la scrivania. Quel suo profilo netto dal naso affilato e la linea severa delle labbra a prima vista potevano suscitare un certo timore, tanto che molto spesso gli avevano favorito il successo durante i processi, quando si trattava di spingere i testimoni a confessare qualcosa di particolarmente scabroso. Ma suo figlio desiderava convincersi che in fondo fuori dal lavoro, dietro al celeste pallido dei suoi occhi, sapesse anche essere affettuoso.

Non era il caso di quella giornata. Damon lo capì subito dal primo gelido sguardo. Fu molto stupito di vederlo, perché sapeva che a quell’ora di solito si attardava in ufficio, tanto meno si sarebbe aspettato di sorprenderlo nella propria stanza. E lui oltretutto si trovava vestito in un modo che suo padre non avrebbe dovuto vedere.

— Papà, — biascicò con un sorriso incerto, — sei già tornato? Che ci fai qui?

— Sono uscito prima. Vuoi sapere che ci faccio in camera tua? Ecco, mi serviva una penna rossa. E siccome so che tu hai questa grande passione per tutto ciò che imbratta la carta… Beh, e non solo.

Damon se ne restò immobile davanti alla porta, come agghiacciato, senza riuscire a parlare. Sapeva che suo padre covava qualcosa in mente. Non era buon segno quando cominciava a fare dell’ironia sottile come in quel momento.

— Adesso vorrei sapere cosa ci fa questo in camera tua. — Dicendo così gli presentò davanti il burrocacao alla fragola che nascondeva tra le mani chiuse. Nel vederlo Damon sobbalzò leggermente e si leccò via quello che aveva sulle labbra in quello stesso momento, nella speranza che suo padre non se ne accorgesse. — Stava in un cassetto del comodino, — gli spiegò Alan, sempre con una punta di cinismo nella voce. — Ben nascosto, naturalmente, ma c’era.

— Beh, sì, — mormorò Damon. — È di Lena. Lo ha dimenticato qui l’altra sera e mi sono scordato di restituirglielo.

— Ah, capisco. E per paura che lo rubassero lo hai nascosto molto bene dentro al cassetto. Giustamente negli ultimi tempi questi oggettini cosmetici sono molto richiesti anche dai ragazzi, come mi pare di vedere in questo momento.

— Che vuoi dire, scusa? È di Lena, chiediglielo.

— Non può essere suo. Lei usa solo rossetti, lo dice continuamente. Ma tu forse non l’ascolti molto mentre parla: forse tu hai altri interessi. — Lo guardò dall’alto in basso con occhi carichi di disprezzo. — Ma guardati, vai in giro come una puttanella. Non solo come una ragazza, ma come una puttana!

Quello che aveva osato insinuare non era vero, non era assolutamente vero. Con che coraggio… con che coraggio si permetteva di dirgli certe cose? Neanche si fosse presentato in minigonna e reggiseno imbottito, come un travestito… Aveva degli abiti normalissimi e pantaloni lunghi. Forse troppo stretti, probabilmente era quello che voleva dire suo padre. Forse disapprovava quel tipo di scarpe, forse i capelli lunghi. Forse tutto, l’intera sua vita.

— Io sono stato anche troppo paziente, con te. Ti ho lasciato perdere tempo con queste stronzate pittoriche, ci hai tappezzato la tua camera, ti sei trastullato nelle mollezze mentre tutti quelli della tua età se ne stavano in giro ad allenarsi in uno sport, ad applicarsi in qualche attività concreta, a temprarsi le ossa, a rimorchiare qualche ragazza. Sai che vuol dire ‘rimorchiare’? Tu te ne stavi qui a fare questi stupidi disegnini che non ti serviranno a niente nella vita, perché la vita vera sta lì fuori e se ne fotte dei tuoi disegnini. Tu fino ad ora non hai fatto niente, te ne rendi conto? La vita sociale, il mondo… sono spietati. Bisogna essere qualcuno, farsi una posizione solida, per riuscire. Essere concreti, pratici, sapersi destreggiare nelle pratiche della vita, perché questo mondo non ammette cogitazioni metafisiche. Se continui così diventerai un emarginato, e io non voglio che questo succeda.

Alan prese il figlio per il braccio sinistro e con l’altra mano frugò nelle tasche della sua giacca. Damon lo guardava col viso contratto, prossimo alle lacrime. “Con che coraggio… con che coraggio provi a perquisirmi?”

In una delle tasche c’era un altro lucida-labbra rosa scuro. Era la fine completa degli alibi. — Allora, ascoltami bene. Un ragazzo che si trucca mi fa schifo. Sei una grande delusione, per me, lo capisci, non è vero? E io che ho cercato di darti sempre il meglio… Ti ho fatto frequentare le scuole migliori, ho soddisfatto ogni tuo capriccio, ti ho lasciato portare i capelli lunghi sebbene fossero completamente fuori luogo… Quando eri piccolo ti ho scarrozzato per tutta Europa, ti ho portato nei musei che volevi visitare mentre tutti gli altri genitori portavano i figli a Eurodisneyland. Ti ho sempre facilitato le cose in tutto. E non è questo che avrei voluto divenisse mio figlio! Certo, forse la colpa è mia. Quando eri piccolo ho sempre cercato di starti il più vicino possibile, ma forse non l’ho fatto abbastanza. Certamente è così. Ma sappi che non mi darò per vinto tanto facilmente. Ti farò cambiare, eccome se lo farò! Sono ancora in tempo.

— Papà, ascolta, io… ― provò a dire Damon con gli occhi lucidi e la voce spezzata.

— Che fai, adesso, piangi? — infierì suo padre, alzando di colpo la voce. — Ah, sei solo una femminuccia. Che diavolo ci trovi a comportarti così? Ti avverto, Damon: Lena è una ragazza meravigliosa, non si merita tutto questo. Mi sono spiegato? Se vuoi continuare ad essere degno di lei, almeno non andare in giro conciato in questo modo! Dai scandalo. Ci pensi che direbbero di voi? E poi le chiacchiere, lo sai, passano di bocca in bocca e colpiscono tutta la famiglia. Se dovesse succedere a me di perdere credibilità nell’ambito del mio lavoro, sta’ pur certo che non la passeresti liscia.

Alan avanzò qualche passo verso di lui sovrastandolo, nei suoi dodici centimetri in più di altezza. Ormai Damon aveva rinunciato a pronunciare anche una sola parola. — È ora di crescere, — gli disse suo padre con aria quasi tragica, — di diventare un uomo. L’epoca di Peter Pan è finita, è ora di assumersi le proprie responsabilità, di togliere i disegnini dalle pareti e tagliare i capelli. Una sola cosa ti dico: fa che non sparisca completamente quello che io credevo fosse mio figlio, perché non tollero nessun altro oltre a lui in casa mia. ― Dette queste ultime parole gli passò accanto ed uscì dalla stanza, richiudendo piano la porta e portando con sé i due lucida-labbra.

Per quasi un minuto Damon rimase agghiacciato senza neanche la forza di muoversi, con lo sguardo basso, vitreo. Poi si lasciò cadere sul pavimento seduto contro la porta, con ancora addosso la giacca dalle tasche assassine. Da una di esse prese una sigaretta e se la accese. Ah, suo padre non aveva detto niente di quella, non l’aveva neanche tirata fuori! E, un po’ per il fumo, un po’ per tutto il resto, dai suoi occhi scesero due lacrime che gli bagnarono il volto, latenti, forse da molto prima.


Era venerdì sera. Sdraiato sul divano della sala da pranzo, totalmente al buio, Corey osservava le lugubri ombre proiettate sugli oggetti dall’inquietante pallore lunare che dipingeva volti, ombre e mostri col suo fragile guanto di velluto. Il buio gli piaceva, ma ancor più il buio pesto, quando non si distinguevano i confini degli oggetti, quando tutto il mondo pareva caduto in un buco nero e nulla più esisteva. Non sospiri, non ricordi, non rimpianti. E lui si sentiva leggero come il vuoto totale: nessuno poteva fargli male perché più nessuno esisteva.

Improvvisamente squillò il telefono. “Bella e beata normalità, perché distogli la mia attenzione proprio quando sto per raggiungere la pazzia?” Rispose solo perché poteva essere sua madre e lei si infuriava se non lo faceva, ma avrebbe preferito mille volte una sua scenata piuttosto che sentire di nuovo quella vocetta fastidiosa. Perché non lo lasciava in pace?

— Hai proprio deciso di non parlarmi più, Corey? — gli chiese Mandy col suo solito tono smielato.

— Vuoi qualcosa?

— Non ti posso chiamare semplicemente perché mi va di sentirti? È da tanto che non ti fai vedere… come te la passi?

— Come sempre. Mandy, che te ne importa? Perché continui a starmi dietro? Vedo che stai benissimo col tuo vecchio principe azzurro che sembrava disprezzassi tanto!

— Ah, allora lo vedi che sei geloso?

— Questo è ciò che ti piacerebbe. Vedi l’incoerenza del tuo carattere?

— Che diavolo vuol dire? Oh, è colpa mia che perdo tempo a ragionare con te. E pensare che volevo ‘fare pace’, anche se non capisco per che cosa abbiamo litigato.

— Aspetta un momento, noi non siamo mai…

— Ti volevo solo dire che domani con un gruppetto di amici andiamo a fare una giterella in montagna. I genitori di Beverly hanno una casa lì, non so di preciso dove. Sarebbe carino se venissi anche tu.

— Io? In montagna con voi, a fare che? ― Quasi gli scappava da ridere a considerare l’assurdità di tale proposta. ― Tanto valeva allora mandarmi un biglietto per l’inferno… senza offesa.

— Perché no? Stiamo tutti insieme, ci divertiamo.

— Senti, Mandy, io non mi diverto con il tuo gruppetto di amiche cretine. Scusa se te l’ho detto. E poi non so sciare.

— Ma mica andiamo a sciare, scemo! Dove diavolo la troviamo, la neve, in questo periodo dell’anno? Ad ogni modo, non dire subito che sono sceme, scusa. Neanche le conosci!

― Per quanto mi riguarda vi conosco anche troppo: non ci vuole tanto per capire come siete fatte.

— Perché includi anche me? Sei solo un’imbecille!

— Allora lasciami in pace. Perché perdi tempo dietro a me?

— Perché sono una cogliona. E poi, va bene, te lo dico: tutte si portano dietro il fidanzato, e siccome Andrew non può venire io sono l’unica che resta senza ragazzo. Quindi se non trovo qualcuno entro domani, non posso andarci.

— Perché, scusa? Vacci lo stesso.

— Ma che dici? Che ci vado a fare, per reggergli il lume?

— Beh, io non ti accompagno di certo. Non ho intenzione di fare coppia con te.

— Corey, ma perché ti comporti in modo così cattivo con me?

— Perché tu hai messo in giro la chiacchiera che stavamo insieme quando non era vero!

— Ma io credevo che…

Corey si sentiva malissimo. Nella sua mente c’era qualche altra colpa di cui Mandy si era macchiata, ma neppure lui sapeva bene di che si trattasse. Forse l’averlo semplicemente immischiato in quel mondo che lui disprezzava, l’aver avuto… come dire? La pretesa di volerlo per sé a tutti i costi.

— Ascolta, — le disse quindi, per apportarle una causa più valida, — se Andrew venisse a saperlo farebbe scoppiare il finimondo.

— Sì, lo so. Ma tu sei troppo vile per affrontarlo, vero?

— Già, — la assecondò lui.

— Peccato. Poteva essere carino. Saremmo potuti stare per tutto il weekend da soli, a fare quello che ci pareva. Saremmo stati solo io, tu, e Beverly e Lena con i loro fidanzati.

— Con i loro fidanzati?

— Sì. Eddie e Damon. Te l’ho detto, che c’è di strano, scusa?

— E tu dici che sei sola? Pensi proprio di non riuscire a trovare nessun altro?

— Ma sì, qualcun altro troverò. Che c’entra? Io l’avevo chiesto a te.

— Va be’, capisco di essere stato un po’ scortese, con te. D’altronde, anche se perdo due giorni con voi, non morirò mica, dico bene?

— Direi di no! — assentì subito Mandy con voce più allegra, ormai convinta di averla avuta vinta.

— E poi, per una volta, l’aria di montagna mi farà bene.

— Allora vieni? Che bello, non vedo l’ora. Vedrai che Andrew non ne saprà niente. Loro che vengono con noi non faranno di certo la spia.

Corey pensò che tenere la cosa nascosta al capitano di football sarebbe stato praticamente impossibile, ma a quel punto poco gliene importava. Certamente non era per Mandy che accettava l’invito, né l’avrebbe gratificata di un solo bacio.

— Allora dimmi, — le chiese, — ci diamo appuntamento da qualche parte?

— Sì. Avevamo pensato di portare solo due auto. Tanto bastano, no?

— Sì, certo. Noi andiamo con Damon e Lena?

— Non lo so, decidiamo domani mattina. Allora siamo d’accordo. Ci vediamo tutti e sei davanti a casa mia, alle nove.


Corey arrivò in ritardo di un quarto d’ora. Nel giardinetto davanti a casa di Mandy c’erano lei, Damon e Lena seduti al tavolo a bere caffè. Non appena lo videro, Mandy e Damon gli andarono incontro. La ragazza gli si buttò con le braccia al collo in modo terribilmente espansivo, mentre lui rimase poco più indietro salutandolo gentilmente. Corey era deliziato nel vederlo, tuttavia notò subito come sembrasse molto più malinconico del normale. Anche gli abiti non erano esuberanti come al solito, e ai piedi portava delle normalissime scarpe da ginnastica, un po’ più sobrie, ma che gli stavano comunque bene.

Si diressero verso il tavolo da giardino dove Lena era ancora seduta in tutta calma a bere caffè. Intanto uscì dalla casa la cameriera, per versare dell’altro tè o latte.

— Eddie e Bev non sono ancora arrivati, — lo informò Mandy che per l’occasione si era vestita sportiva, con jeans e giubbotto firmati, senza naturalmente rinunciare al chilo di fondotinta con cui si era mascherata la faccia. — Hanno chiamato poco fa dicendo che noi intanto possiamo partire: loro ci raggiungeranno poi. Hanno avuto un contrattempo con l’auto, non ho capito bene. Non si tratta di una cosa grave.

— Avranno forse bisogno di aiuto? — provò ad insinuare Lena, comodamente adagiata sulla sua sedia bianca con le gambe accavallate, i tacchi altissimi ed i capelli allisciati come manici di scopa. Corey arrivò persino a pensare che la ragazza avvertisse nella mente quali fossero i sentimenti che provava nei confronti del suo fidanzato, e per questo d’istinto lo odiasse.

Ma in fin dei conti sapeva benissimo che quello di Lena non era che volgare disprezzo.

— Oh, certamente non passeremo la giornata ad accomodare l’auto in panne di quelli lì, — sentenziò Mandy. — Io direi di partire. Guardate, è già tardi. Tre orette ci vogliono, per andare su. Altrimenti ci perdiamo tutta la giornata. Al limite, se loro proprio ritardano, possiamo fermarci in quella bella zona del lago, ti ricordi, Damon? — Lui annuì vagamente. — Sta a metà strada, — continuò lei. — È carino per fare una sosta.

Lena sospirò. Avrebbe voluto stare sola con Damon, in auto, e invece… Tuttavia non disse niente per rispetto di Mandy, la quale era capace di rinfacciarglielo per tutto il resto della giornata.

— Allora siamo d’accordo? — chiese la Ceer-Leader. — Andiamo. Chi guida di voi due, ragazzi? — aggiunse, come fosse ovvio che per forza doveva stare al volante uno di loro invece che le donzelle.

— Per me è indifferente, — affermò Corey.

— Allora, se non è un problema, guida tu, — gli disse Damon.

— Va benissimo.

— Ma Damon, che ti prende? — ribatté subito Lena con voce leggermente stridula. — Io credevo che…

— Ti prego, stamattina proprio non mi sento…

— Che sciocchezze, con tutto il caffè che hai bevuto!

— Non ti senti bene? — gli chiese Corey.

— Ma no! — rispose la sua ragazza per lui. In verità era molto infastidita perché in quel caso avrebbe dovuto occupare il sedile posteriore, che lei detestava. — È solo un po’ assonnato. Sapete, ieri notte abbiamo fatto le ore piccole, io e lui.

Un nume, certamente, impedì a Corey di fiondarsi sul collo di Lena e strozzarla con le sue stesse mani.


Mandy parlò per quasi tutto il viaggio, lei sola, raccontando vita, morte e miracoli di se stessa. Non che avesse cominciato dalla propria infanzia narrando tutte le fasi della sua vita, ovviamente, ma traeva spunto da piccoli particolari. Ad un certo punto, ad esempio, intravidero un cervo ai margini della strada e lei prese a raccontare della volta in cui suo padre da piccola l’aveva portata a caccia, nonché di tutte le sue disavventure quando era andata per i boschi a fare un pic-nic con le amiche in quinta elementare, etc etc… Tutte chiacchiere che come minimo Damon e Lena avevano ascoltato diecimila volte.

Dopo neppure un’ora, Corey aveva l’orecchio destro in fiamme.

Damon parlò giusto due volte: una per chiedere se l’aria del finestrino dava fastidio, l’altra per sapere dalla sua ragazza cosa dovesse comprarle da mangiare quando si fermarono alla stazione di servizio. Lei rispose: — Crackers integrali e diet-coke.

Fino ad allora il viaggio era stato di una noia mortale.

Intorno alle dieci Mandy telefonò alla coppia dispersa sul cellulare di Eddie, risolvendosi nell’accordo di incontrarsi tra un’ora sulla zona del fantomatico laghetto, cui loro giunsero in meno di pochi minuti.

Era un luogo ombreggiato, con degli alti pini che in estate conferivano la giusta frescura di una siesta. Ma erano i primi di ottobre: anche lì la temperatura piuttosto rigida non permetteva di uscire senza una giacca addosso. Il cielo, che fino ad allora si era mantenuto sereno, offuscato solo da qualche sporadico spruzzo di nubi, diveniva di volta in volta sempre più scuro.

I quattro scesero dall’auto e stesero sul prato un grande asciugamano sopra il quale sedettero tutti assieme, vicini per forza di cose.

— Come si vede che l’estate se ne è andata completamente, — mormorò Damon. — Si è fatto parecchio freddo e i giorni sono sempre più corti.

— Oh, perché devi ricordarci queste brutte cose? — ribatté Lena. — Sì, ché tanto non avrei voglia di starmene al mare in costume da bagno, senza scuola.

Corey pensò che l’inverno era una stagione arcana, in cui tutto muore per rinascere come l’Araba Fenice, lasciando compiere ancora una volta l’inesorabile ciclicità delle stagioni. La terra e la natura erano cicliche, compresa la luna, che tanto col suo crescere e calare aveva affascinato le popolazioni antiche. “Se solo la vita umana potesse essere allo stesso modo”, pensò, “se noi potessimo addormentarci per un periodo di tempo e rinascere di nuovo, purificati da ogni peccato, ed ottenere una nuova possibilità senza mai morire, senza mai invecchiare… Se solo potessimo…”

Il piccolo lago emanava lievi riflessi dorati, attraverso il verde torbido delle sue acque ferme. Non fosse stato tanto melmoso sarebbe stato perfetto per un bagno nella calda stagione. Quello invece era il periodo in cui cadevano le foglie, in cui i giardini divenivano variopinti profondendo la gloriosa, struggente inquietudine di qualcosa che stava per divenire ed era ancora nel suo trapasso.

Mandy era lì lì per raccontare il suo primo appuntamento, all’età di tredici anni, quando Lena le sfilò la molletta che le raccoglieva i capelli sciogliendoglieli sulle spalle. — Perché diavolo l’hai fatto? — protestò lei. — Lo sai che è una cosa che detesto. Avanti, ridammela!

— No! — Quando Mandy fece per afferrarla, Lena gliela allontanò, alzandosi in piedi di scatto. — Vieni a prenderla, se ci riesci! — Dicendo così prese a correre seguendo la riva del lago, e Mandy dietro ad inseguirla. — Ehi, ferma, dove credi di andare?

Damon era rimasto con lo sguardo fisso verso la superficie d’acqua. Tirava una leggera brezza che gli scompigliava le splendide onde dei capelli. Intanto Mandy era riuscita ad afferrare Lena e cercava di estorcerle il prezioso bottino dal pugno chiuso della mano. Nonostante fossero giunte a molti metri da loro, potevano sentirne le acute risate e gli schiamazzi.

Corey era seduto poco più dietro di lui, tuttavia, pur non guardandolo completamente in volto, si accorse di non averlo mai visto così triste. Ad un certo punto afferrò una piccola pietra da terra e la scagliò con forza nell’acqua. Questa sobbalzò leggermente, affondando con stoico eroismo. Corey trovò il coraggio di sfiorargli le spalle con le mani, in un tocco dolce, confortevole. — Come ti senti? — chiese.

Damon si irrigidì sotto le sue mani. — Va tutto bene, Corey.

— C’è qualche problema?

— No. Va bene, te lo assicuro, — gli rispose con voce controllata e vagamente tremante. Lasciò passare qualche secondo.

Le ragazze intanto erano di ritorno passeggiando con calma, vicine, con la molletta tornata alla legittima proprietaria.

— Scusa se te lo chiedo, — mormorò ancora Damon. — So che è egoista da parte mia, ma…

— Dimmi pure.

— Cosa intendevi dicendo che secondo te tua madre non ti vuole bene? Da che lo capisci?

— Vedi, lei non mi…

— Eccoci qua! — annunciò Mandy come se nessuno se ne fosse già accorto, sedendosi di nuovo accanto a loro.

— Continuiamo un’altra volta, — gli sussurrò Damon.

— Amore! — esclamò allora Lena con voce concitata. — Oh, amore, andiamo a fare una passeggiata attorno al laghetto. A forza di stare seduta per terra, con quell’umidiccio, mi si bagnerà il vestito! — E lo trascinò con sé prima che lui potesse ribattere.

Corey rimase malissimo. Continuò a guardarli mentre si allontanavano insieme, mano nella mano. Gli venne il nodo alla gola e una voglia incredibile di piangere, di correre da lui, spintonare via Lena ed abbracciarlo. Ecco che si compiva il suo destino: quello di rimanere solo e senza amore. Sua madre, che era la persona che più avrebbe dovuto amarlo e proteggerlo, non aveva mai fatto nulla di tutto ciò, gli aveva dato solo odio e gratuitamente. Ora quella Mandy gli si aggrappava con le braccia e lo baciava sul collo, sperando forse di poterlo cambiare, ma non capiva che era una sfida già persa in partenza! Anzi, averla accanto lo faceva sentire ancora più solo.

E l’unica persona che amava e per cui avesse mai provato quel sentimento… non poteva negarlo a se stesso: aveva un’altra vita, altre persone care, altri problemi. Aveva detto, certo, di stare bene con lui, ma che significava? Non sarebbero mai diventati grandi amici. Alla fine, a Damon cosa importava di essere suo amico? “Non si diventa più amici tra ragazzi, a quest’età. Si va solo dietro alle donne. Io resterò per sempre solo”.

— E dai, Corey, ― mormorò Mandy, intenta a fargli un succhiotto sul collo. — Siamo soli. Mica muori, se ti sciogli un po’.

Corey, che aveva continuato a fissare Damon e Lena, li vide mentre si baciavano sulla bocca dall’altra sponda del lago. Si sentì spezzare il cuore. E in un attimo il nodo che aveva alla gola si ruppe in lacrime disperate. Ma non lo volle far vedere a Mandy. Si alzò in piedi di colpo, affermando: — Devo andare in macchina a prendere una cosa. Torno subito.

Fece una corsa fino all’auto e si chiuse dentro, piangendo disperatamente sul sedile posteriore, lo stesso dove si era seduto Damon poco prima. Si sdraiò con la testa proprio lì, distrutto dai singhiozzi, quasi senza riuscire a respirare, invano sperando che egli aprisse lo sportello e lo abbracciasse dolcemente. Invece restava lì con Lena, lontano, abbracciando lei. “E io… io affondo nella sabbia, senza che tu neanche te ne accorga!”

— Corey! ― lo richiamò Mandy. ― Ma quanto ti ci vuole?

Si asciugò il viso col dorso della mano, aprì lo sportello e le disse: — È troppo freddo per me, lì.

— Ma che troppo freddo! Se continui così quest’inverno morirai assiderato!

Grazie al cielo videro in quel momento parcheggiare lì vicino un’auto sportiva blu scuro: quella dei due ritardatari. Beverly ed Eddie ne uscirono contemporaneamente: lei indossava un vestito grigio lungo fino al ginocchio con sopra una giacca nera (pareva uscita da una sfilata di moda), mentre l’altro, in giacca, pantaloni neri e camicia sportiva sul fisico robusto, da perfetto Ken quale era, portava gli occhiali scuri all’ultimo grido sebbene non vi fosse alcun sole da cui ripararsi.

Tutti corsero loro incontro salutandoli con baci e abbracci. Corey si presentò davanti ai due coi capelli spettinati e gli occhi arrossati dal pianto, ma loro finsero di non notare nulla di strano e gli strinsero cordialmente la mano nei loro serafici sorrisi di circostanza. Lui in compenso li ripagò con lo sguardo più cupo che avessero mai visto in vita loro. Ma anche questo finsero di non notarlo.

L’estenuante viaggio proseguì. Dal momento che quella di Eddie era una Spider con solo due posti, furono costretti a mantenere le loro sistemazioni originarie, con la differenza che questa volta fu Corey a chiedere a Damon di prendere il posto di guida. Lui ovviamente non rifiutò, e Lena ebbe il suo bel posticino anteriore accanto al suo amatissimo promesso sposo.

Corey aveva l’aria di uno che era appena stato picchiato a sangue, pallidissimo. Non sapeva come avrebbe fatto a superare il resto del weekend. Si sentiva morire, aveva ancora voglia di piangere. E pensare che quella mattina quando si era svegliato, all’idea di vedere Damon si era sentito quasi euforico: cosa per lui pressoché impossibile. Certo non aveva calcolato che lo avrebbe visto con Lena e con lei soltanto.


Quando arrivarono a destinazione erano quasi le una del pomeriggio. Si trattava di un caratteristico paesello di montagna dal quale la casa di Beverly, grandissima ed arredata in stile moderno, era ubicata leggermente al di fuori. Corey si sentì addirittura curioso di sapere perché mai quei ragazzi avessero avuto l’ardire di crearsi intorno quella tortura. Perché effettivamente di tortura si trattava: loro sei, per due giorni immersi fuori dal mondo.

Sapeva perché Mandy aveva tanto insistito che venisse, e lui c’era caduto appena aveva sentito il nome di Damon senza contare che egli se la sarebbe trascorsa insieme a Lena, quella vacanza, e lui insieme a Mandy senza possibilità di scelta.

In quel frangente la coppia esisteva solo tra maschio e femmina come i due pezzi combacianti di un puzzle: non valeva più nemmeno la pena di socializzare tra persone dello stesso sesso, tanto come sempre lo scopo umano era quello della riproduzione, come negli animali. Guai a chi faceva combaciare i due pezzi forzandoli un po’!

Come aveva immaginato c’erano tre stanze matrimoniali, una delle quali, pensò, lui avrebbe sicuramente dovuto dividerla con Mandy. Ma non era questo che lo turbava. Lei non era un problema: se proprio doveva ci avrebbe dormito, ed anche se la sciacquetta avesse voluto fare sesso, beh… non poteva di certo violentarlo.

Dopo essersi sistemati nelle camere e fatti una doccia ciascuno, uscirono a pranzo per l’immancabile passeggiatina in paese. L’umore si mantenne tragicamente scherzoso, specie quando Eddie raccontò a raffica una serie di barzellette per lo più porno e volgari, che, sebbene Corey non vi trovasse nulla di divertente, fecero morire dalle risate le tre ragazze. Damon non si smosse di un millimetro, sorridendo solo talvolta per pura cortesia quando qualcuno dei commensali incontrava il suo sguardo.

Mentre compivano quel rituale giro per i piccoli negozietti locali, gremiti di souvenir e prodotti tipici, li sorprese la pioggia che si era addensata nelle oscure nuvole preparatesi durante il mattino, costringendoli a tornare a casa in fretta e furia.

Dalla stanza assegnatagli, tenendo la porta socchiusa Corey sentiva distintamente i piagnucolii di Lena che si disperava perché i suoi capelli avevano perso la messa in piega e Damon che cercava inutilmente di consolarla.

— Sono orribili! — singhiozzava lei, — i miei capelli sono uno schifo! E pensare che ci avevo messo tanto per pettinarli… mentre adesso, in un attimo, basta un goccio di pioggia perché si rovinino. La mia via è una merda!

— Non è vero, non ti si sono rovinati per niente. Adesso ti fanno quest’effetto perché sono ancora bagnati, ma vedrai che da asciutti saranno esattamente come prima. Non vale la pena piangere per così poco.

― E tu che diavolo ne sai? Tu non capisci che per me questo è importante!

― Senti, ora se vuoi mi faccio prestare un phon da Beverly e te li asciugo io.

— Tu? Ma sei matto? Non lo sai fare, è un lavoro da donne. Al massimo lo fa Mandy. O Bev.

— Ma Lena, asciugo da solo sempre i miei e come vedi non stanno messi poi così male. Lo so fare.

— Beh, è una cosa che non dovresti fare, — ribatté lei con tono più deciso e severo, rispetto a quello lamentoso di prima. — Un ragazzo non dovrebbe perdere tempo con spazzole e phon, quella è roba per donne. Tu a proposito dovresti tagliarli, quei capelli. Non ti pare che stiano diventando troppo lunghi? Sia ben chiaro: non voglio che qualche pervertito ci fermi per strada e ci dica: ‘Ehi pupe, avete bisogno di cazzi?’, o qualcosa del genere.

— Scusami. A me piacciono così.

— Sì, ma devi piacere anche alla tua ragazza.


Mandy stava alla finestra scostando le tende con una mano. — Non smetterà proprio mai? Che iella abbiamo avuto. Dove sono Bev e Eddie? — chiese a Corey, seduto sulla sponda del letto.

— Non so, — le disse vagamente.

Sulla soglia della porta apparve Damon con passo leggerissimo, simile a quello di un fantasma. — Mandy, ti vuole Lena. Vorrebbe che le aggiustassi i capelli.

Mandy sbuffò. — Che palle, ma non può farlo Bev? — Ma poiché Bev non si trovava, dovette andare lei in aiuto della sua amica in pericolo di vita.

Finalmente rimasero soli. Corey si sentiva piuttosto triste e ciò traspariva limpidamente dai suoi occhi. Immaginava se stesso nell’atto di abbracciarlo, di stringerlo a sé, di dirgli che gli voleva bene… ma giusto un sogno rimaneva.

Damon gli sedette accanto.

La pioggia batteva fitta sui vetri col suo rumore ritmico e incessante, rassicurante, nella penombra della stanza. Corey alzò lo sguardo verso di lui incontrando i suoi occhi di un verde chiarissimo, incantevole. I loro visi erano molto più vicini di quanto si fosse reso conto.

— Continua quello che mi stavi dicendo.

— Sì, riguardo a mia madre… lei, vedi, non è mai stata affettuosa con me. Non mi ha mai dato un bacio o un abbraccio, non le importava che avessi una vita felice. Conduceva la sua senza il minimo criterio: come avrebbe potuto guidare bene la mia? Lei non c’era mai. Non hai idea delle notti che ho passato da solo sperando che tornasse presto, che mi desse un bacio al mio risveglio, perché, sapevo, di solito era quello che facevano le mamme. Invece lei no. Non le è mai importato molto di quello che mi passasse per la testa: ricordo solo una volta che mi fece una scenata perché non avevo gli interessi degli altri bambini.

— Cosa ti disse?

— Era arrabbiata perché plagiavo le giovani menti dei miei compagni di catechismo. Era come… se si fosse vergognata di me, come se per certe mie azioni fosse caduta la sua reputazione di fronte alla comunità. E credimi, lei non era una santarellina: per un periodo andò a letto con uno diverso ogni sera come un’autentica puttana, non me ne vergogno a dirlo. Ma scaricava tutta la colpa su di me. Mi trattava con cinismo senza motivo, come un antico amante dopo un rapporto logoro e consumato che ha lasciato soltanto astio, o come un amante che l’avesse tradita e su cui volesse scaricare la propria sarcastica vendetta: non mi ha mai trattato veramente come un figlio. Tutt’oggi non facciamo altro che litigare, e non è un litigio normale. È odio. Vedi, impossibilità di sopportarsi. Ha sempre agito al contrario dei miei desideri quasi volesse farmi un torto. Io non la perdonerò. Non la perdonerò mai…

— Per cosa? — mormorò Damon.

— Come per cosa? Per tutto. Per avermi defraudato del suo amore! — Corey aveva gli occhi lucidi di lacrime.

— E tu dai una spiegazione a tutto questo, che va irreparabilmente contro natura? — gli chiese con voce fervente, quasi concitata da un’inquietante disperazione.

— Sì. Il fatto che, involontariamente, le ho rovinato la vita.

— Che vuol dire?

— Rimanendo incinta di me a sedici anni non ha potuto concludere nulla, realizzarsi negli studi, costruirsi la vita come l’aveva sognata… è stata disprezzata dai genitori, buttata fuori di casa. Chi non odierebbe la causa di tutto ciò? Capisco quanto si sia sentita frustrata. E per questo è successo. Con Britney, oh, con Britney dovresti vederla, è tutta un’altra persona. Quando non sta in giro da qualche parte, ovviamente. Non sembra neanche più lei.

— Ma non può essere così, Corey, è innaturale.

— Ci sono tante cose innaturali a questo mondo. — “Come il mio amore per te”, pensò. — Ma dimmi, perché hai voluto che ti dicessi questo?

— Scusa, sono stato privo di tatto.

— No, non mi dispiace parlarne. Volevo solo sapere da cosa era nata la richiesta. È da questa mattina che ti vedo così triste, e mi dispiace. Vorrei…

— Non sono triste, davvero. Forse è solo una tua impressione. Sto bene.

Corey scosse leggermente la testa, cercando le parole adatte da dire. Ma improvvisamente comparvero Eddie e Beverly di fronte alla porta, ponendo fine alla loro conversazione. — Le altre?

— In camera nostra, — rispose Damon.

La porta della stanza si aprì e ne uscirono Mandy e Lena, la quale aveva di nuovo i suoi capelli inamidati e inchiodati con un litro di lacca. — Dove eravate finiti? — chiese alla coppietta.

— Ci stavamo coccolando un po’, — rispose Beverly facendosi passare il braccio del suo ragazzo attorno alle spalle. Naturalmente significava che avevano fatto ben più che delle semplici coccole.

— Le previsioni del tempo hanno detto che per questa sera smette di piovere, — li informò Eddie. — Dove volete andare? Facciamo qualche programma.

— Non è che le alternative siano molte, — disse Lena sedendosi accanto a Damon e abbracciandolo stretto.

— Non è vero, — ribatté Eddie. — Dovrebbe esserci una discoteca, da queste parti. A qualche chilometro dal paese. Ne ho sentito parlare.

— Beh, se volevate andare in discoteca non c’era bisogno di venire qui, — insinuò Corey.

— Che altro vuoi fare? Ci ha sorpreso la pioggia! — replicò Beverly.

— Ora, non so se è proprio una discoteca vera e propria o un pub, o qualcosa del genere, — continuò Eddie. — Ad ogni modo, credo di aver capito la strada. Non è difficile. Vi sta bene?

Tutte le ragazze concordarono con euforia e, contente loro, contenti tutti. Corey era annoiato da morire. Se c’era qualcosa che detestava erano i locali notturni. Ma, come si suol dire, ci sono volte in cui… non si ha scampo dall’omologazione.


In realtà, nonostante per il luogo in cui si trovavano fosse molto più di quanto osassero sperare, il locale non era affatto una discoteca. Era un piccolo disco-pub dalla musica allegra e assordante, l’atmosfera rarefatta, le luci psichedeliche che si muovevano in vorticosa velocità, coloratissime. Non si capiva precisamente quanto fosse grande poiché constava di più sale, tuttavia tutte piuttosto anguste e ricavate da una parte esigua di spazio. Dava l’impressione, su per giù, di qualcosa di estremamente rimediato. Dovettero pagare due dollari a persona per l’ingresso.

Tutte le ragazze si erano portate un abito da sera: indossarono minigonna vertiginosa, tacchi a spillo, capelli sciolti e volti truccati. Eddie, Damon e Corey si erano vestiti in maniera più normale. Per Corey non faceva differenza, tanto lui non indossava mai abiti sportivi, neppure se avesse dovuto scalare l’Everest. Damon invece aveva un nuovo paio di stivaletti, di nero lucido, spregiudicatissimi.

Al centro della sala principale svettava il banco delle bibite con due giovani camerieri, un ragazzo e una ragazza dai movimenti sciolti, impegnati a shakerare cocktail e a conversare coi clienti che non erano molto ubriachi. Ai lati del muro erano disposti piccoli e graziosi tavolini rotondi con poltroncine e divanetti, dove sedeva chi non aveva voglia di ballare. Il resto era adibito a pista da ballo, ed un numero moderato di giovinastri si dava alla pazza gioia sgambettando e saltellando allegramente. La musica (la quale, simile a rumore martellante e indistinto, non era degna di tale nome) sembrava quanto di più obbrobrioso Corey avesse mai sentito dopo le urla di sua madre.

Prima, con molta calma, si sedettero ad uno dei tavoli per ordinare, e lo fecero urlando, qualcosa da bere di non troppo forte. Quando Corey chiese un succo di frutta all’arancia, giacché detestava qualsiasi tipo di alcolico, le ragazze scoppiarono a ridere e Mandy gli appoggiò una mano sulla spalla gridandogli, tra i singhiozzi di divertimento: — E rilassati, un po’, Corey! Che vuoi che ti succeda?

Fu la prima a volersi gettare nella mischia e naturalmente se lo portò dietro, nonostante egli fosse recalcitrante, perché, diceva lei, non c’era nessuno lì dentro che ballasse da solo. Lui tentava di tenere d’occhio il tavolo dove erano seduti gli altri, ma la sua accompagnatrice non faceva che spingersi sempre più lontano da loro e presto lo perse di vista. — Oh, sei rigido come una statua! — lo rimproverò Mandy.

— È che io odio ballare! — le gridò.

— Cosa? Ah-ah! Allora vieni, andiamoci a prendere da bere, magari ti sciogli un po’. Siamo qui per divertirci!

Mentre Mandy lo trascinava al bancone per ordinare due bicchieri di vodka, Corey lanciò uno sguardo sfuggente al loro tavolo dove non c’era più nessuno. Erano rimaste solo le giacche e le borsette delle ragazze. Mandy gli fece cenno di sedersi sullo sgabello accanto a lei ma non bevve una sola goccia di quello che gli aveva ordinato, così la ragazza, già un bel po’ brilla, con gli zigomi arrossati, gli disse: — Lo sai che sei proprio un guastafeste? Mi chiedo perché perdo tempo con te.

“Ecco l’interrogativo esistenziale di Mandy”, pensò lui impegnato a setacciare la ciurma danzante per intercettare, anche solo per un attimo, il volto di Damon. Probabilmente se ne stava da qualche parte solo con Lena. Che rabbia gli faceva anche solo pensarci!

— Non mi sento bene! — disse ad un tratto Mandy.

— Indigestione da alcol etilico, cara. La cirrosi che avanza.

― Sì, divertente! ― ribatté ironica. ― Ho mal di testa. Portami in un posto dove possa prendere aria, dove non ci sia tanto rumore.

Attraversarono di nuovo la pista da ballo e si infilarono in un piccolo corridoio dove la musica arrivava attenuata e che probabilmente portava alle toilette, le quali stavano disposte l’una di fronte all’altra: sinistra per le ragazze, destra per i ragazzi. — Se vai in bagno magari ti passa, — ipotizzò Corey riuscendo quasi ad essere gentile.

— No-no, lì c’è troppo affollamento. Sai, tutte a rifarsi il trucco. Mi basta stare qui. Con te. — Gli appoggiò la testa su una spalla accarezzandolo sul viso, e lo baciò appassionatamente sulla bocca, tanto veloce che egli neppure ebbe il tempo di sottrarsene. Lo portò con le spalle al muro, tanto era ardita e veemente.

Sulle prime Corey si sentì travolto da una collera incredibile: quella serpe aveva architettato la balla del malore per arrivare a quello! Fu sul punto di scostarla da sé con uno spintone, ma poi rifletté. A che scopo allontanarla? Certamente Damon stava facendo lo stesso con quella smorfiosa di Lena. A che scopo respingere Mandy? Avere lei od altri quel punto non faceva differenza, tanto non gli importava di nessuno. Perché non lasciare che almeno lei si divertisse, che facesse di lui quello che voleva? Forse nutriva qualche speranza di portarselo a letto, di farsi regalare un anello di fidanzamento, forse di sposarlo. Era tutto possibile. Cosa avrebbe dovuto importargli, ormai?

Lui teneva gli occhi socchiusi, senza prestare attenzione a contraccambiare il bacio. Dopo qualche secondo vide una figuretta familiare uscire dal bagno dei ragazzi, che era Damon, senza dubbio, ormai Corey lo avrebbe riconosciuto fra mille. Quella sera era vestito completamente di nero, camicia, scarpe e pantaloni, e se avesse avuto neri anche i capelli sarebbe sembrato un bellissimo vampiro.

Con un gesto inconsulto Corey provò a scostarsi di dosso Mandy, rendendosi conto solo in un secondo momento di non avere alcun motivo per cui giustificarsi. Damon gli lanciò un’occhiata veloce, inespressiva, senza neppure rivolgerli la parola, e tornò nella saletta da ballo dove probabilmente lo aspettava Lena. In quella fugace visione Corey notò una cosa strana sul suo volto, qualcosa di simile ad un trucco pesante sugli occhi. Non poteva essersi sbagliato: quello era senza dubbio un bello strato di matita nera, molto glam. E forse aveva messo anche un filo di rossetto. Corey se ne compiacque deliziosamente. “Che coraggio”, pensò. “Chissà quante gliene dirà Lena.”

— Torniamo là? — chiese subito a Mandy. Nonostante la ragazza se ne volesse restare dov’era, magari sperando che egli le desse un altro po’ di quello che prima le aveva concesso, Corey la convinse a tornare nella saletta. Lei si fiondò subito al banco dei liquori: era già alla sua terza vodka. — Che succede lì? — esclamò poi indicandogli col dito un punto della pista. Si era creata una specie di rissa: pareva che due ragazzi si fossero presi a pugni. — Andiamo a vedere che è successo!

Un piccolo tavolino rotondo era stato capovolto, le bevande versate a terra, i bicchieri in frantumi. La folla aveva creato attorno a loro un piccolo cerchio, ed al centro un ragazzo bruno, Eddie aveva appena sferrato un forte destro ad uno dei presenti. La vittima se ne stava riversa a terra col naso sanguinante ed il braccio graffiato dai vetri rotti. — Tu la mia ragazza non la tocchi, è chiaro? Altrimenti ti ammazzo! — urlava Eddie, come inferocito, al suo rivale. Poi alzò lo sguardo verso Beverly, che lo guardava annebbiata e impaurita, la camicetta mezza slacciata. — Quanto a te, puttana…

— Eddie, non è come pensi…

— Sta zitta, troia! A casa facciamo i conti.

Mentre qualcuno aiutava ad alzarsi il ragazzo malmenato, arrivò Lena in tutta fretta, con l’espressione alquanto preoccupata, avvicinandosi a Mandy e Corey. — Avete visto Damon, per caso? — gli chiese. — Non riesco più a trovarlo. È da un sacco che non lo vedo.

— Vado io a cercarlo, — le disse Corey lasciandole lì da sole. Mandy naturalmente si mise a protestare.

Attraversò tutta la sala, guardò dappertutto, ma di Damon nemmeno l’ombra. Non era neppure in bagno. Certo Corey non arrivava a pensare che potesse essergli successo qualcosa di male, ma sperava trovarlo il prima possibile. Così finalmente se ne sarebbero andati da lì. Era strano: prima lo aveva visto col viso truccato da autentica marchetta, poi veniva a sapere che con la sua ragazza non c’era stato quasi mai, quella sera.

Alla fine lo trovò in una stanzetta secondaria, leggermente più piccola di quella dove erano stati loro, dove suonava un deprimente complessetto rock da discoteca a volume martellante. Damon era disteso su un divanetto e pareva addormentato, inquietantemente, come Psiche dopo aver respirato la boccetta di Persefone. I suoi capelli erano bellissimi e fluenti, così mollemente abbandonati sulla stoffa bianca. Sugli occhi aveva uno strato pesante di eyeliner nero che ricordava il trucco degli antichi egizi, e un rossetto color sangue sulle labbra di cui, secondo Corey, non avrebbe affatto avuto bisogno.

Gli si sedette accanto e lo sfiorò sul viso, delicatamente. Sapeva che, se anche avesse tentato di chiamarlo, non l’avrebbe sentito. — Damon, svegliati.

Il ragazzo si mosse un poco aprendo lentamente gli occhi. Era completamente stralunato e si vedeva bene che aveva bevuto troppo e non c’era abituato. — Oh, Corey, sei tu! — Gli sorrise subito, uno di quei sorrisi da ubriaco che si rivolgerebbero anche al peggior nemico. — Lasciami dormire, ho tanto sonno.

— Adesso torniamo a casa, dormirai lì.

— No, non ci voglio andare, a casa. Proprio non ci voglio andare. Andiamo via io e te.

— Vieni su, ti aiuto.

— Mi gira la testa. Non riesco a muovermi.

Corey lo fece alzare, sorreggendolo con un braccio dietro la schiena. Damon quasi non si reggeva con le sue gambe, lo abbracciò per il punto di vita, appoggiò la testa sulla sua spalla e le sue labbra gli sfiorarono il collo. Corey provò un brivido per tutto il corpo.

Mentre lo accompagnava al loro tavolo, Damon, quasi impercettibilmente, mormorò: — Mio Dio, vorrei morire.

Ad aspettarli era rimasta solo Mandy, la quale rimase alquanto stupita nel vedere Damon così avvinghiato a Corey. — Certo che sta proprio messo male, — commentò. — Gli altri sono già usciti. È arrivato il buttafuori e ha cacciato via Eddie.

Li raggiunsero nel parcheggio del locale. Lena era crollata dal sonno nell’auto a due posti di Eddie, il quale era impegnato con la fidanzata in un ferocissimo litigio che prometteva, oltre che urla esagerate, forse anche qualche alzata di mano. — Brutto stronzo! — gridava Beverly. — Quel poveretto non aveva fatto niente di male!

— Certo, tu adesso dici così, puttana, ma prima ti piaceva, ci godevi, gliel’avresti data tutta!

— Sei un porco, sei solo un porco, non ci voglio più stare, con te!

— No, sono un uomo, io, e se qualcuno mi fa un oltraggio, io difendo la mia dignità. E quello che mi appartiene di diritto!

— Ti credi che io sia merce al tuo servizio?

— Guarda, carina, che io sto con te solo per farti un piacere. Lo sai quante ne posso trovare, meglio di te?

Beverly rimase senza parole, annientata, con le lacrime agli occhi. — Sia ben chiaro, io non ci sto più con te! — Dicendo così corse verso Mandy e si buttò a piangere tra le sue braccia.

Corey aprì lo sportello della sua auto e fece sedere Damon davanti, accanto al posto di guida. Le altre due si sistemarono dietro: Beverly piangente, Mandy consolante.

— Vai con loro? Benissimo! — replicò Eddie, salendo nella propria auto e mettendola in moto senza neppure darsi la pena di svegliare Lena, visto che tanto a Damon non passava lontanamente per la testa di richiamarla.

— Oh, ma tesoro… ― non fece altro che dire Mandy per tutto il viaggio, — se ha reagito così è positivo. Vuol dire che è geloso e ti ama!

— Sì, ma ha ragione lui… io non sono che una nullità, in confronto a lui…

— Questo non è affatto vero. Te l’ho detto, non si sarebbe comportato in questo modo, se non tenesse veramente a te. Quelle brutte cose te le ha dette solo per rabbia.

— Ne sei sicura? Non pensi si sia arrabbiato così tanto solo per principio, e non veramente perché mi ama?

— Ma sciocchina, che vai a pensare? Come si può ragionare in modo così contorto? È ovvio che si è arrabbiato perché era ingelosito, ed era ingelosito perché ti ama. Vedi che è tutto a posto?

— Non è questo l’amore, — sussurrò Damon, troppo piano perché le ragazze lo sentissero. Sembrava indescrivibilmente triste, quasi in un decadente stato di post-ubriachezza, guardando fisso qualcosa di insignificante davanti a sé, i propri pantaloni, forse, o le mani che teneva appoggiate sulle ginocchia.


A casa arrivarono prima di Eddie e Lena. Mentre Mandy ancora parlava con l’amica tentando di convincerla che il suo ragazzo l’amasse sinceramente, Corey accompagnò Damon in camera sua, facendolo sdraiare sul letto.

La serata si era rasserenata. Dal tardo pomeriggio aveva smesso di piovere e le nuvole si erano diradate, lasciando fiorire quella fredda nottata autunnale puntellata da stelle la cui luce filtrava attraverso le tende bianche della stanza. Tutto era spettrale, argenteo come i languidi occhi della luna che coi propri raggi lattiginosi sottraevano le loro forme originarie agli oggetti privandoli di contorni ben definiti.

Così, a qualche centimetro dal suo, il viso di Damon era illuminato da quella luna: avrebbe potuto essere quello di un angelo della morte, o di un bambino che non ritrova la strada di casa. La luce si soffermava sui suoi zigomi perfetti, sulla linea sensuale della sua bocca, sui suoi occhi chiari come due stelle.

Prima che Corey trovasse il coraggio di andarsene gli si aggrappò al braccio dicendo: — Corey… mi vuoi un po’ di bene almeno tu?

“Oh, che domanda mi fai! Se solo sapessi… Ma perché mi chiedi questo? Vuol dire che ci pensi? E se ci pensi, perché ne dubiti? Perché ti senti così disperatamente solo?”

Col cuore impazzito per quella richiesta così spontanea, così repentina, Corey pensò che il suo amico non si rendesse più conto di quello che diceva. Aveva la mente completamente offuscata dall’alcol, e di sicuro in condizioni normali si sarebbe trattenuto dal porla. Una volta sveglio non avrebbe ricordato nulla di tutto ciò.

— Oh, sì, certo che te ne voglio, — gli sussurrò. — Molto più di quanto tu possa immaginare. — Ma in quello stesso momento si rese conto del vero senso della domanda, che stava tutto in quell’“almeno tu.” Corey sorrise tristemente. — E non solo io. Tutti te ne vogliono. Chi potrebbe non volertene?

Damon chiuse gli occhi e qualcosa brillò sopra le sue ciglia. — Non andare via. Resta qui accanto a me. — Lo abbracciò tanto forte da farlo sdraiare vicino a lui. Corey gli si ritrovò tra le braccia col volto affondato nei suoi capelli, che avevano un profumo dolce e zuccheroso, e stavano corpo a corpo, l’uno di fianco all’altro, tra le lenzuola bianche del letto. Sentì all’improvviso un calore tremendo sul viso. Tutto si sarebbe aspettato, tranne quello. Gli sembrava l’avverarsi di un sogno, essere lì accanto a lui, poterlo stringere a sé…

Eppure giusto di un sogno si trattava. Occasioni del genere difficilmente si sarebbero ripetute. In condizioni di sobrietà Damon non avrebbe mai fatto qualcosa del genere. Sarebbe arrossito al solo sentirne il racconto, ne era sicuro.

“Ma se io provassi… se glielo dicessi… che male ci sarebbe? Lui non mi capirebbe? E se dopo cominciasse ad odiarmi? Ma come può lui odiare, con quei suoi occhi di smeraldo? Sì, forse mi capirebbe… altrimenti non potrei… E se non capisse?”

— Il futuro… ― sussurrò Damon quasi impercettibilmente, — mi fa tanta paura. A te non succede mai?

— Cosa ti fa paura?

— Tutta la mia vita distesa davanti a me come le pagine già scritte di un libro che io non riuscirò a scrivere, come vedere tutte fallite certe aspettative. Mi sembra tutto come in una tragedia, ogni sicurezza si trasforma nella più grande incertezza, e tutto ciò mi fa tanta paura da togliermi il respiro. Intendo quello che succederà poi, dopo che avrò terminato il liceo, preso questo diploma… vedi, io non muoio proprio dalla voglia di buttarmi nella vita. In una vita adulta, intendo. Vorrei non crescere mai, non dovermi prendere certe responsabilità, perché io, vedi, non ne sono all’altezza. Non so se riuscirei a sopportarlo.

Corey si scostò leggermente per guardarlo in volto. Il suo amico era forse troppo inquieto per riuscire ad addormentarsi. Aveva le lacrime che gli bagnavano le guance ed aveva parlato con voce bassa ma dal tono concitato, quasi bisbigliante. — Che intendi? Gli anni dell’università? Un matrimonio, dei figli, una vita normale?

— Non pensi che sarebbe bello… essere immortali e non morire mai? — gli chiese Damon senza rispondere alle sue domande. — Oppure, non so, morire, ma non invecchiare mai. Vivere una vita senza avere degli obblighi, senza… Perché, sai, si nasce sempre con qualche debito già dalla prima infanzia. Si è purificati dal peccato originale, ma il debito resta finché non lo si è pagato. C’è sempre un fio da pagare per venire al mondo.

Quasi parlava nel sonno, come in un delirio, e Corey volentieri lo avrebbe baciato sulla fronte o magari sulle labbra, ma non si azzardò neppure a pensare di farlo. Rimase accanto a lui, ad accarezzargli i capelli mentre era addormentato. Aveva i capelli più belli che avesse mai toccato, così morbidi, così serici e sottili da sembrare di seta.

Al risveglio sicuramente avrebbe scordato tutto.


Furono entrambi svegliati intorno alle sette di mattina dalla stridula voce di Lena che urlava: — Che diavolo ci fate, qui abbracciati come due frocetti?

Per loro fortuna, quella notte, quando era tornata in auto con Eddie, aveva attraversato la casa praticamente dormendo e si era lasciata cadere sul letto di Mandy, lo stesso dove, tra lacrime e pianti, si era addormentata anche Beverly. Tutte e tre erano talmente distrutte che crollarono distese trasversalmente sul materasso, senza neppure infilarsi sotto le coperte. Eddie dormì da solo in camera sua.

Così trascorse quella grande nottata durante la quale sarebbero dovute succedere molte cose interessanti, a partire dal fatto che Eddie pensava di spassarsela fino all’alba con Beverly (e magari anche con qualcun’altra) e Mandy aveva progettato di convincere Corey ad andare a letto con lei.

Dopo l’urlo di Lena, Corey si riaddormentò per circa un’ora. Fu risvegliato dal rumore che proveniva dalla stanza di Eddie, dove il ragazzo dormiva russando clamorosamente. Si ritrovò solo nel letto.

Quando scese al piano disotto trovò Beverly e Mandy sedute in cucina: una beveva stancamente del caffè, l’altra dormiva con la testa sopra il tavolo. Damon stava in piedi appoggiato ad un mobiletto, girando il cucchiaino in una tazza da tè. Aveva ancora il trucco sugli occhi. Poco dopo scese Lena, che evidentemente non lo aveva ancora notato, lo guardò esterrefatta esclamando: — Damon, ma come diavolo ti sei conciato? Che ti è preso? Sei impazzito? Sembri una puttana, in quel modo, o peggio un travestito! Perché mai ti sei imbrattato il viso così?

— L’ho fatto solo per scherzo. Non ti arrabbiare.

— No, io non mi arrabbio, però potevi anche evitare di sparire in quel modo, ieri sera!

— Scusa. È che sono andato un attimo in bagno e poi non ti ho più trovato.

— Beh, io sono rimasta sempre nello stesso posto.

— Vuoi qualcosa per colazione? — le chiese allora gentilmente, come per farsi perdonare.

— No! E non me lo chiedere, non spetta a te preparare la colazione. I fornelli stanno alle donne. Tu vai a toglierti quella roba dalla faccia.

Damon fece qualche passo verso le scale con l’aria leggermente annoiata. — Ho un mal di testa pazzesco, — commentò fra sé.

Intanto Corey si sedette e prese una tazza di caffè. Appena scese Eddie si avvertì subito lo stato di tensione che aleggiava, pesante, nell’aria. Beverly non riusciva ad alzare gli occhi, lui rifiutava di sederle accanto nonostante fosse l’unico posto libero. Alla fine Mandy, già ridestatasi alle urla di Lena, proruppe: — Su, avanti, fate pace. Non potete continuare così per sempre.

Beverly, sul punto di scoppiare di nuovo in lacrime, gettò il tovagliolo sul tavolo e corse al piano di sopra. L’amica la seguì a ruota. — Non mi vuoi affrontare perché tanto sai di avere torto, puttana! — le urlò dietro Eddie.

Il tempo di prepararsi e scapparono di corsa da quel weekend degli orrori, col risultato che Beverly andò in auto con loro mentre il suo ex-ragazzo se ne tornò da solo nella sua bellissima Spider blu. Per Corey ci fu di positivo che, con Beverly piagnucolante, Mandy e Lena restarono dietro con lei e Damon si sedette nel posto accanto a lui proprio come la notte prima. Ma nessuno dei due ebbe il coraggio di pronunciare una sola parola a riguardo, ed il resto del viaggio trascorse nella calma più piatta.

- Continua -
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Loveless
view post Posted on 19/3/2008, 19:11




NUOVO CAPITOLI XD

Capitolo quattordicesimo
Embarassing confessions


Damon stava seduto alla scrivania della propria camera, la fronte appoggiata al ciglio del tavolo ed una mano sotto di essa, fissando il pavimento. Aveva completamente abbandonato quel libro di Storia che da ore provava a studiare invano. I capelli gli scendevano boccolosi ai lati del viso, velando l’armonico definirsi del suo profilo sottile contro l’orizzonte variopinto dei quadri ad olio. Quasi sussultò nel momento in cui la porta si aprì all’improvviso. Era di nuovo l’avvocato Marshe, il quale, dopo essere entrato, richiuse lentamente la porta dietro di sé appoggiandosi contro di essa a braccia conserte. — Ti ho interrotto mentre stavi studiando?

— No.

— Allora vuol dire che non studiavi?

— No. Cioè, sì… ma la tua visita non mi disturba.

Alan rise bonariamente. — Devi imparare a parlare, ragazzo mio. Altrimenti tutto quello che dirai potrà essere usato contro di te. Ma non ti preoccupare: avrai molto tempo per farlo. — Avanzò qualche passo verso di lui per sbirciare sui suoi libri aperti. — Che stavi studiando di bello? Ah! Storia magistra vitae, diceva Cicerone. Conoscere gli errori passati per evitarli nel presente, giusto?

Damon sorrise forzatamente.

— Come procede il nuovo anno scolastico?

— Bene.

— Davvero? Non ci sono problemi da nessuna parte?

— No, per adesso ho dei buoni voti. Non ho preso alcuna insufficienza.

— Mi raccomando, dacci dentro. Quest’anno ci saranno gli esami: io so che ti meriti il massimo dei voti e che ce la puoi fare. Pensa che io fui promosso con cento e lode. Io alla tua età ero il migliore della mia classe, ma sono convinto tu possa fare persino di meglio. Non è, d’altronde, la maggiore aspirazione di un genitore, che il figlio divenga migliore di lui? Tu sai cosa intendo. Per qualsiasi problema, io sono a tua disposizione. Ci siamo capiti?

— Sì.

— Dovrai smetterla di esprimerti per monosillabi, Damon, come fai da un po’ di tempo a questa parte, altrimenti non ti capirà nessuno. Imparare l’arte della parola è una delle prime prerogative per riuscire nella vita. Tutti i più grandi lo dicevano. Non hai mai letto l’Antidosi di Isocrate? È uno splendido discorso. Non a caso fu in Grecia che fiorì per la prima volta la parola, la quale riscatta l’uomo dal suo stato di ferinità e lo rende simile agli dei. Senza un corretto uso di essa non potrai argomentare le tue ragioni, né farle valere, ed avrai sempre torto nella vita. Perché, vedi, devi capire che non è importante quale sia la verità. L’importante è che, nella mente di chi ti ascolta, risulti vero ciò che tu vuoi che sia vero, indipendentemente da quello che è in realtà. Solo così hai la possibilità di ottenere risultati ed avere un posto di rilievo nella società. Ma per imparare questo servono sforzi ed abnegazione. Cos’hai da dire riguardo a ciò?

— Hai… perfettamente ragione. Concordo in tutto quello che hai detto.

— Vedi? Non hai capito niente. Non puoi dare ragione in questo modo. Devi far valere le tue, di ragioni.

— Scusa… mi dispiace.

— Ah, questo vuol dire forse che non la pensi come me? Che tutto quello che ti ho detto finora per te è spazzatura?

— No. Assolutamente no. Ecco, perdonami, io volevo solo dire che…

— Smettila di scusarti sempre. Se qualcuno si scusa è perché sa di essere in torto. Ti senti forse colpevole di qualcosa, nel tuo animo?

— No. Ma… perché ti stai rivolgendo a me come se fossi uno dei tuoi imputati? — Damon si pentì subito di averlo detto. Vide l’espressione sul volto di suo padre mutare completamente.

— Mio caro, — gli rispose calmo Alan. — Lungi da me dal trattarti come un imputato. Io voglio solo farti aprire gli occhi a quella che sarà un giorno la vita. Perché la lotta per la selezione è spietata: il pesce grosso mangia il pesce piccolo, e tu sei restato fin troppo sotto una campana di vetro. Forse ancora la situazione è prematura, ma un giorno tu stesso sentirai il bisogno di liberarti dei trastulli infantili e di tutte le belle cose astratte di cui ti sei occupato finora. — Così dicendo si guardò intorno nella stanza, comprendendone almeno tre pareti nella panoramica. Poi, a bruciapelo, gli chiese: — Quand’è che giochi la prossima partita?

— Il prossimo venerdì.

— Già. Per quel pomeriggio io ho un impegno a Washington, ma non ho alcun problema nel ritardarlo di qualche ora. Non mancherei a fare il tifo per niente al mondo. Provo pena per quei padri che si dimenticano gli eventi sportivi dei figli. A che ora giocate?

— Dalle quattro alle cinque.

— Benissimo, rimanderò di un’oretta il mio incontro con la signora Finckestein: verrò a vederti vincere e prenderò l’aereo subito dopo. Perché sono sicuro che vincerai, ragazzo mio. Non ne ho alcun dubbio. Quando avevo la tua età, io ero l’asso della squadra e segnavo da dodici metri di distanza. La nostra scuola arrivò prima al torneo e vinse persino una coppa, che naturalmente fecero tenere a me nonostante non fossi il capitano della squadra. Quello, sai, diventò capitano solo perché era un raccomandato. Non aveva talento o doti personali. Così, vedi dove si può finire con le spinte giuste. Credo di avertela già fatta vedere, la coppa, no? Quella fu una grande vittoria. Un giorno che non scorderò per il resto della mia vita. Ma sono scuro che tu saprai fare di gran lunga meglio di me. Io ci conto molto: so che non mi deluderai.


Dal foglio dove stava disegnando uno dei suoi tanti schizzi, Damon alzò lo sguardo verso Corey, che gli stava di fronte. Si trovavano in spiaggia, seduti sulla sabbia a qualche metro dalla riva, con un fastidioso vento che gli spettinava i capelli. Già da qualche minuto si era accorto che sul volto del suo amico c’era qualcosa di strano, un’espressione contratta e indescrivibilmente triste.

— Corey, che ti succede? Cos’hai, non ti senti bene?

Il ragazzo abbassò lo sguardo, quei suoi bellissimi occhi del colore del cielo. — Non è niente. ― Si portò delicatamente una mano sullo zigomo. Oh, era inutile… non riusciva ad arrestare le lacrime: parevano dotate di vita propria e scendevano amare subito raggelate dal vento autunnale. Cercò di asciugarle col dorso della mano sperando di non darlo a vedere, ma era impossibile. Impossibile impedire quei singhiozzi, sorti spontanei e senza motivo, e quell’autentico pianto che non aveva avuto in quel frangente fattori scatenanti, impossibile bloccare la disperazione che quel mare risuonante e quel cielo cupo, il trovarsi lì con lui in quel preciso istante, quell’averlo vicino, a un attimo da sé e non potergli parlare, non poterlo toccare come avrebbe voluto, quel loro essere così divisi da una barriera invisibile provocava indissolubilmente nel suo cuore sanguinante.

Damon appoggiò sulla sabbia la matita e l’album da disegno. — Che ti succede? — gli chiese ancora con voce che a Corey parve dolcissima, come l’ambrosia degli dei, carezzandogli il braccio con la mano. — Ti fa male qualcosa?

— No… sto bene… davvero… non ti preoccupare.

— Se hai qualche problema, me ne vuoi parlare? Corey, non piangere…

— Ti prego, non badare a me… non farci caso… a volte mi succede… È solo un po’… di malinconia… solo un po’ di malinconia… adesso passerà tutto.

Fu allora che, inaspettatamente, Damon lo abbracciò con tutta la dolcezza che Corey avesse mai osato sperare da qualcuno. Sentì dentro di sé una sensazione di calore e di immensa beatitudine, nonostante fosse immerso in quella passione angosciosa, come tra le braccia di un angelo o di una creatura soprannaturale.

― Corey, ― si sentì sussurrare, — tu sei mio amico, ti voglio bene e non posso vederti così. Dimmi cosa ti succede.

Oh, com’era trovarsi lì, davanti a lui, a due centimetri dal suo viso!

— Deve esserci un motivo per piangere in questo modo, così all’improvviso, quando un minuto fa scherzavamo. Perché questo cambio di umore così repentino? Che ti è passato per la testa? Qualunque cosa sia, se anche solo minimamente pensi che io possa aiutarti, parlamene!

Corey non riuscì a reggere il suo sguardo: abbassò gli occhi con un nodo alla gola ed un senso di frustrazione opprimente. Scosse lievemente la testa.

— Perché no? — gli chiese ancora Damon, facendo per accarezzarlo sul viso con una mano.

Corey retrocedette di scatto. — No, non toccarmi! — replicò tra le lacrime. — È meglio che me ne vada… — Si alzò in piedi e scappò via disperatamente.

— No, aspetta! — Damon gli corse dietro, riuscendo infine ad afferrarlo per il braccio. Lo strinse di nuovo a sé, finché non ricaddero sul bagnasciuga. — Perché fuggi in questo modo?

— Io… se te lo dicessi forse rischierei di perderti, e questo non lo voglio… no… preferirei morire.

— Non mi perderai. Qualunque cosa sia.

— Non è vero. Tu ora dici così, ma poi… Damon, sono settimane, ormai, che non faccio che tormentarmi. È che la mia è una mente incline al tormento. Non sono in grado di superare i problemi con serenità, compresi i miei rapporti con le persone, e non troverò mai requie alcuna. Se ora ti apro il mio cuore, perché non posso più vivere in questo modo, tu probabilmente fuggiresti via per sempre da me e non lo sopporterei. Perciò ora ti dico: se tu lo facessi ne capirei le ragioni, pur non condividendole. Ma ti dico anche che non mi aspetto niente da te: niente di più di quanto io abbia già avuto finora. Non hai alcun obbligo nei miei confronti, è una cosa soltanto mia, e forse non dovrei neanche parlartene.

Corey parlava con voce tremante, sconvolta.

— Vedi, — continuò, — è proprio dalla prima volta che ti ho visto, dacché ricordo di avere incontrato il tuo sguardo, che ho pensato che tu fossi meraviglioso. In ogni senso. E, mano a mano che ti conoscevo, mi piacevi di più. Perché sei anche dolce, sei… — gli sorrise dolcemente, — …la creatura più bella che io abbia mai incontrato. Hai qualcosa di speciale, quasi di celestiale. E io, Damon, mi sono innamorato di te. Sì, lo so che non va bene. So che è innaturale, che è orribile e tutto quello che si dice in giro, e tu forse ora mi odii, sono pronto anche a questo, ma non posso negarlo, almeno a me stesso non posso.

Appena smise di parlare, Corey si accorse di essere di nuovo caduto nell’imbarazzo. Le sue ultime parole erano state annegate ed infervorate da nuove lacrime, inarrestabili, sul suo volto.

Damon gli sorrise. — Non ti preoccupare, è tutto a posto, — gli disse abbracciandolo. — Va tutto bene, non piangere. Non è cambiato niente tra noi. Ti voglio bene esattamente come te ne volevo prima. — Gli asciugò il viso delicatamente con le dita. — Calmati, — gli diede un bacio sulla guancia. — Va tutto bene.

Ora che glielo aveva confessato, Corey si sentiva in uno stato ancora peggiore. Fino a poco prima non credeva neppure di averne il coraggio, ora si trovava a pensare che sarebbe stato meglio non averlo fatto. Aveva forse sperato di sentirsi rispondere: “Ti amo anch’io e da sempre”?

Non aveva fatto altro che confondere ulteriormente le loro due menti, già abbastanza malandate, poiché aveva capito che nell’anima di Damon, nonostante quella bella casa, la famiglia ricca e la vita perfetta, c’era del dolore segreto. Tuttavia si era comportato in modo affettuoso nei suoi confronti: non solo non lo aveva respinto come tutta la società gli avrebbe dato il diritto di fare, ma gli aveva detto: “Siamo amici, non è cambiato niente.”

— Avanti, torniamo a casa, — gli disse Damon con gentilezza, alzandosi in piedi e porgendogli la mano. — È inutile restare qui a prendere freddo.

E cosa avrebbe dovuto fare lui? Stringere di nuovo quella mano adorata che gli porgeva aiuto e sentire ancora il contatto della sua pelle fresca e delicata sotto la propria, mentre avrebbe voluto sentirsela sopra in ogni momento della propria vita e non solo per quegli attimi sfuggenti?

Si rialzò da solo quasi scostandosi da lui inconsciamente, senza bisogno di prendergli la mano, che Damon ritirò lentamente subito dopo. — Forse è meglio… ― sussurrò Corey, sforzandosi con poco successo di mantenere fermo il tono della propria voce, — che io torni a casa da solo. Davvero, ho già fatto tardi.

— Perché fai così? — gli chiese invece il suo amico, mostrando la preoccupazione degli occhi anche nella sfumatura profonda della voce. Ah, era talmente bello! La sua immagine sottile, i capelli spettinati dalla brezza marina e i suoi occhi chiari come il mare all’orizzonte avevano quasi il potere di intenerire l’espressione tipicamente gelida sul volto di Corey. Ma sulle sue labbra ugualmente non si dipinse la parvenza di un sorriso.

“Perché… Tu vuoi sapere perché. Ma non capisci che è una sofferenza anche solo guardarti negli occhi dopo quel torrente di parole con cui ti ho sommerso?” Abbassò lo sguardo, frustrato e sull’orlo delle lacrime, senza riuscire a dargli una spiegazione. “Ormai per me sei divenuto un pensiero fisso, anche se mi fossi lontano non riuscirei a non pensarti.”

— Perdonami, io… ― mormorò Corey senza osare incontrare nuovamente i suoi occhi del colore del mare. — Non avrei dovuto parlarti in quel modo. — No… non doveva guardarlo mentendogli così spudoratamente. Per settimane si era chiesto quale sarebbe stata la reazione di Damon, temendo il suo rifiuto. Ma lui non lo aveva rifiutato, anzi, aveva continuato ad offrirgli tutto il suo affetto. Allora perché si sentiva così male? Forse perché si era fatto troppe fantasie su quel loro amore che non sarebbe mai nato, pur sapendo perfettamente che tali sarebbero rimaste.

Poi tutto aveva preso un’altra piega: glielo aveva confessato di punto in bianco, ma quella mattina certo con si era svegliato con lo scopo di farlo. Non era pentito, si sentiva più leggero, era solo incredibilmente amareggiato. Si sentì tremare. Il freddo della sera si insinuava nelle sue vene come coltelli di ghiaccio, o forse era la sua mente a vagare smarrita in cerca di una certezza. “Ma al mondo non esistono certezze. È il Dioniso di Nietzsche”.

Damon avanzò lentamente qualche passo verso di lui, ma quando fu sul punto di appoggiargli le mani sulle braccia, anche solo per un contatto che lo riscaldasse, Corey si sottrasse al suo gesto quasi ne fosse scottato. Dunque sorrise in modo talmente forzato che più che un sorriso appariva una smorfia disperata, ed alzò il volto verso di lui, ma senza guardarlo negli occhi. — È meglio che vada, — ripeté flebilmente.

Damon contraccambiò la sua smorfia sollevando solo lievemente le estremità della bocca, in un accenno di sorriso, tanto gentile quanto doloroso. — Se è così che preferisci, d’accordo. Spero di vederti… domani. — Le sue parole si affievolirono come una candela che si spegne. Prima ancora che avesse terminato di parlare Corey era corso via, svanendo definitivamente dalla sua visuale.


Stava rannicchiato sul posto di guida, nella sua auto avvolta dal buio delle tenebre ogni giorno più precoci. Avrebbe avuto molte alternative, lì, fermo davanti ad un passaggio a livello sbarrato, senza cintura di sicurezza, in una posizione che avrebbe fatto rabbrividire qualunque istruttore di guida. L’auto era spenta, e le sue ginocchia piegate sul sedile impedivano ai piedi di toccare terra: fosse dovuto ripartire in fretta non ce l’avrebbe fatta. I suoi occhi vedevano tutto sfuocato, tanto erano offuscati dalle lacrime. Con quella confessione aveva ormai rovinato tutto!

“Non hai mai voluto capire che tu non conti nulla per lui? Non conta niente che ti abbia cercato qualche volta per uscire insieme o che abbia voluto rappresentare il tuo volto in uno dei suoi ritratti, o appoggiato la testa alla tua spalla, dormito una notte abbracciato a te… Non ha nessuna importanza questa intesa perfetta che c’è tra voi e che non potresti condividere con nessun altro, od il fatto che lui per te sia l’unica persona con cui riesci a parlare di qualcosa di intelligente e che rispecchi il tuo gusto artistico oltre che estetico… non conta niente.

“Perché non vuoi capire che ha un’altra vita dove tu non conti? A conti fatti non vi conoscete neppure. Vorresti forse competere con una che gli sta dietro da tutta la vita? Pensi forse di poterlo conoscere o capire meglio di quella svampita il cui problema più grave è che non le si increspino i capelli?

“E poi sei un ragazzo. Lui potrebbe benissimo disprezzarti, se lo volesse, ma non lo fa perché è una persona dolce e gentile, ed è anche per questo che lo ami tanto. Cosa vorresti? Che vada contro natura per compiacere te? Tu non puoi essere neppure suo amico, neppure se ti ha detto che sta meglio con te che con quegli altri del gruppo. Anche se ti dice così, i suoi amici resteranno loro.”

Corey sentì il petto spezzarglisi in singhiozzi. Non era giusto… non era giusto! In altre circostanze, forse… avrebbero potuto essere insieme, lo sapeva, lo sentiva. E poterlo avere vicino lo faceva soffrire indicibilmente. Avrebbe potuto benissimo riaccendere l’auto, pigiare il più forte possibile sull’acceleratore, spezzare la barriera metallica e schiantarsi addosso al treno. Ne sentiva il rumore in quello stesso momento, stava arrivando. Tra le lacrime rise ironicamente.

Aveva tre alternative: schiantarsi contro quel maledetto treno; fare dietro front verso quella spiaggia malinconica e tornare da lui, gettarglisi tra le braccia e trovarsi di nuovo a contatto con il suo corpo, col suo profumo (lui non lo avrebbe allontanato, ne era certo); oppure, come ultima possibilità, semplicemente aspettare che il treno scorresse via fluidamente sui binari e che le sbarre si sollevassero, per ripartire e finalmente tornare a casa, nella sua orribile e noiosa casa deserta.

“Non lo farai!” ordinò dentro di sé, avendo ormai da tempo imparato a fronteggiare i suoi sempre più frequenti propositi suicidi. “Non ti permetterò di ucciderti finché sei ancora giovane e bello, e Damon non ha mai detto che ti disprezza. Se lui ti dicesse che ti disprezza ti permetterei di ucciderti, non prima.”

E, visto che la seconda delle ipotesi era pressoché irrealizzabile, aspettò pazientemente che il treno compisse il suo corso sulla rotaia, ascoltando come una tumultuosa canzone il suo rumore sordo prorompere nell’aria circostante. La velocità futurista del mezzo lasciò una desolazione statica al suo passaggio, rotta essenzialmente dalla barra che a poco a poco si rialzava stagliandosi contro il cielo plumbeo.

Corey si accomodò i capelli passandovi in mezzo le dita e cercò di asciugarsi gli occhi come meglio poteva, sebbene sempre nuove lacrime scendessero ad annebbiarli, e non per sua volontà. Quelle erano le condizioni meno indicate per guidare, tuttavia rigirò la chiavetta e ripartì in pochi secondi.

Ma perché non poteva essere una di quelle persone che bastano a loro stesse?

- Continua -
 
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Loveless
view post Posted on 14/11/2008, 02:40






Capitolo trentaquattresimo
Breaking off

La mattina seguente il pullman li ricondusse all’aeroporto dal quale erano sbarcati, per tornare in America. Corey si sentiva stressato e nervoso, ed era grato a qualsiasi entità superiore per essere finalmente giunto al termine di quello stillicidio senza riuscire ancora ad ammettere di avervi trascorso momenti indimenticabili.
La sua valigia pareva buffamente il doppio più pesante di quando era partito, e per richiuderla era stato costretto ad accettare l’aiuto degli aitanti compagni di stanza che non avevano esitato a pressarla con tutti i loro modici ottanta chili ciascuno. Non fosse stata provvista di ruotine, difficilmente se la sarebbe trascinata dietro.
Scott era stato affettuoso come sempre, ed a colazione era andato tranquillo a salutarlo sedendogli accanto, così discreto da non accennare con una parola alla sera precedente, benché ciò che provava fosse percepibile in ogni suo sguardo, in ogni modulazione di voce. Corey si sentiva vagamente in colpa per essere stato un po’ brusco, visto che quella notte non aveva fatto che rigirarsi nel letto dormendo sì e no una mezzora. Proprio quando era riuscito ad assopirsi, John e Marc gli erano piombati in camera come due uragani lamentandosi a gran voce dei loro tentativi andati in bianco con le pupette ed affogando i dispiaceri nei mignon alcolici del minibar. Da quel momento neanche un orso in letargo avrebbe più preso sonno.
Con lo stesso tenore si svolse anche il lungo viaggio in aereo. Corey ebbe un lieve scombussolamento di stomaco, più dovuto alla tensione nervosa che al mezzo di trasporto, e trascorse tutto il tempo a guardare attraverso il finestrino con fare stizzito, senza dar modo a Scott di capire cosa frullasse nella sua testa. L’amico aveva provato più di una volta ad introdurre un qualche discorso, anche banale, a parlargli con quella sua gentilezza, ma Corey aveva sempre eluso ogni tentativo ed egli aveva finito per arrendersi, deducendo che forse la sua presenza gli era davvero venuta a noia.
Ed ora eccoli lì, finalmente sull’autobus verso casa, a sera inoltrata. La vista di quelle luci ed immagini così familiari, il mare, le piccole abitazioni ai lati delle strade come dimore di bambole avevano un aspetto rassicurante.
Si salutò con Scott in modo un po’ asettico. A vederlo si sarebbe detto stesse tentando di evitarlo, e forse era proprio così, anche se non riusciva a comprenderne la ragione. Era convinto che rivedendo Damon tutto sarebbe tornato a posto. Ma ‘a posto’ per cosa, poi? Per continuare a recitare la parte dell’amante in una relazione già destinata a finire? Era giunto ad un tale livello di esasperazione mentale che avrebbe voluto mettersi ad urlare!
Non appena fu a casa sua sorella gli corse incontro sul vialetto e gli saltò addosso giubilante, pretendendo di essere sollevata. Corey provò ad accontentarla, ma le braccia gli cedettero completamente. ― Sei diventata troppo pesante, per me, Brit, ― concluse rassegnato.
― Villano, ― sibilò lei tra i denti. ― Sei tu che perdi le forze.
Sua madre come al solito non era in casa, ma egli non se ne rammaricava minimamente, e comunque era convinto che non avrebbe mostrato alcun segno di entusiasmo nel rivederlo. Al contrario forse sperava che il suo aereo si fosse schiantato: per lei doveva essere certo una grande liberazione.
― Ah, c’è un messaggio per te nella segreteria telefonica, ― gli fece sapere Britney con aria maliziosa, prima di barricarsi in camera senza aggiungere una parola.
Col cuore in gola Corey si fiondò a premere il pulsante sul telefono, ed ecco subito, come sperava, la sua voce… riascoltarla gli sortiva un effetto strano, quasi… di irrealtà. Il cuore si sciolse, il battito aumentò e tutto il corpo fu scosso da un fremito. Quello era un tipo di amore misto all’ossessione! Si poteva vivere così?
― Ciao, Corey, bentornato, spero tu abbia trascorso il viaggio piacevolmente! ― Voce incrinata, parole esposte con difficoltà… perché? ― Anch’io sono tornato stasera, ma a parte questo… ti chiamo per sapere se possiamo vederci… il prima possibile. Ho bisogno parlarti, quindi… potresti richiamarmi al tuo ritorno? Mio padre non è in casa, telefona pure… anche se è molto tardi, tanto non vado a dormire. E perdonami per il disturbo.
Quel discorso lo lasciò raggelato. Così distaccato… Sapeva che nella segreteria non poteva sbilanciarsi, però… c’era qualcosa che non andava, ed a quel pensiero sentì crescere in sé una vera preoccupazione. Solo ad immaginare che Lena fosse rimasta incinta o che l’avvocato avesse scoperto il loro ‘piccolo segreto’ si sentì defluire il sangue dal volto.
Quindi, al culmine dell’apprensione, digitò il numero senza pensarci due volte ed al terzo squillo rispose il suo amante in persona, precedendo persino la governante.
― Corey?
― Oddio, finalmente… credevo di morire!
― Ciao… sembra una vita che non ci sentiamo più. Sei tornato da poco? ― Dal tono pareva tranquillo, anche se malinconico.
― Da appena cinque minuti. Ma dai, racconta: come te la sei passata, in questi giorni?
― È stato un viaggio senza nulla di speciale. Divertente, sì, ma neanche poi tanto. Ora però…
― Hai detto se ci incontriamo… per me va benissimo: vieni qui da me, la casa è libera, mia sorella è andata a letto.
― No, Corey, questa volta preferisco un altro posto… il ‘nostro’ posto: quel vecchio faro dove ci siamo salutati, e dove tu mi parlasti molto dolcemente, un giorno. È troppo scomodo?
― No! E poi a Praga ho fatto i conti con climi freddi a tal punto che qui da noi mi sembra di morire di caldo. A che ora ci vediamo?
― Dieci minuti ti bastano?
― Anche cinque, arrivo subito. Ti amo.

Nonostante la notte limpida, come la prima in cui si erano dati appuntamento in quello stesso luogo, tirava una brezza fresca e profumata di salsedine. Damon lo attendeva di spalle, rivolto verso il mare fluttuante e un po’ agitato, coperto da una leggera giacca scura nell’immensa distesa di sabbia argentea, rilucente ai lattiginosi raggi della luna. La sua figura sottile era inconfondibile, immersa nel blu tutt’intorno. Mentre Corey si avvicinava, poco lontano il loro vecchio faro li guardava dall’alto come saggio e muto spettatore del loro incontro.
Quando solo pochi passi li dividevano, Damon si voltò verso di lui: il suo volto investito dal barlume cereo pareva quello di una statua neoclassica, triste e bellissimo. Corey colmò in un secondo la distanza e corse ad abbracciarlo strettamente a sé, affondando il volto nel suo collo, inebriandosi finalmente dei suoi capelli.
― Che bello rivederti, ― mormorò con un sorriso e gli occhi luccicanti. Si chinò per baciarlo ma il suo amante pareva strano, in tensione, e dapprima sembrò quasi sottrarsi. Poi lo lasciò fare, ma rispose blandamente, in un bacio a stampo che durò appena un attimo.
Corey lo guardò con un’ombra di irrazionale paura, temendo di sapere cosa lo stesse aspettando.
Ma perché? Proprio adesso…? Che cosa… che cosa aveva fatto di sbagliato, che cosa…?
― Hai detto che dovevi parlarmi? ― chiese con voce tremante.
Damon si sciolse da lui, tornò a fissare il mare di fronte a sé e nella sua espressione fu chiaramente leggibile una nota di dolore. Senza osare guardarlo, cominciò a spiegare: ― Sai, durante questi giorni in cui siamo stati lontani ho cercato di riflettere, perché io non sono più in grado di sostenere questa situazione. Sento di stare prendendo in giro te, Lena, e soprattutto me stesso, e non sto molto bene dentro. Prima di partire pensavo di dover assolutamente compiere una scelta tra te e lei, o meglio… il mio cuore ha scelto fin dall’inizio, ma io non posso seguirlo. E per questo ti chiedo di perdonarmi.
Corey chinò lo sguardo, amareggiato e con le lacrime agli occhi, tentando di parlare nel modo più saldo possibile. ― Ho capito, ma non devi scusarti, in fondo lo ho sempre saputo, solo che… sono impreparato. Non credevo che il momento di separarci fosse giunto così presto… ma probabilmente sarebbe stato lo stesso anche se fosse venuto tra molto più tempo, dico bene? ― Sorrise con tristezza, senza riuscire a frenare le lacrime che gli solcavano il volto spontanee. ― Qualunque cosa tu decida a me sta bene, purché ti renda felice. Tu… sei proprio sicuro di voler troncare ogni rapporto con me? Non sentirti in colpa per questa storia del triangolo, perché io ti capisco, e sarei disposto a continuare in questo modo, anche perché preferisco comunque dividerti con lei che non averti affatto.
― Ma per me no, Corey. Non riesco a convivere con un comportamento così meschino, e credo che in fondo sia meglio per entrambi che finisca adesso, prima che ci riabituiamo l’uno all’altro, ora che abbiamo avuto l’occasione di stare lontani. Prima che il legame diventi ancora più saldo, perché potrebbe essere peggio. Però lasciami spiegare una cosa…
Damon trovò finalmente il coraggio di incontrare il suo sguardo, anche se con occhi pieni di lacrime. ― Io sono un debole, moralmente. Un vile, se preferisci, un vigliacco che non ha il coraggio di sostenere quello in cui crede se ciò significa ribellarsi alla propria famiglia. Prima di partire mi sono figurato come sarebbe stata la mia vita se avessi trovato la forza di far capire a Lena che avrei voluto finisse una volta per tutte, tra noi. È stato come un sogno… pensavo quasi di farlo davvero! Poi, però, quando me la sono trovata davanti, è stato impossibile. Neppure lontanamente ipotizzabile. Ho immaginato la sua reazione isterica, le lacrime, le grida… ma non è lei che mi ha spaventato, è ciò che sapevo ne sarebbe seguito. Sarebbe andata a piangere da suo padre, come fa sempre, ed in breve sarebbe divenuta una questione familiare, e non più privata. Un problema comune, cui sarebbero scaturite ore ed ore di discussioni, riunioni, domande, terzi gradi e trattative… col risultato che alla fine ci avrebbero rimessi insieme irremovibilmente, con o senza la mia volontà, e non avrei che indispettito ancor più mio padre, che già non mi ama per quello che sono, figurati a tirargli uno scherzo del genere. Senza contare che non impiegherebbe un’ora per scoprirmi con te. Io, invece, cerca di capirmi… ho sempre desiderato piacergli almeno un po’, ― concluse, la voce incrinata in un lieve singhiozzo.
― Non ci riesco, io non ho mai avuto un padre. Posso solo immaginarlo.
― Non c’è scampo dalla mia vita, nell’etica in cui la mia ragione mi sta vincolando. L’unico modo sarebbe tagliare i ponti con tutto, crearmi una nuova vita, ‘diseredarmi’ spontaneamente da mio padre… e non ci riesco.
“Certo”, si disse Corey con una certa autoironia, “è ovvio che preferisca scegliere la sua famiglia piuttosto che me. In fondo quella è sicura e non lo lascerà mai, per quanto io possa avere delle riserve su questo punto, mentre non può sapere come si evolverebbe la storia tra noi, e forse non crede che valga la pena di farsi ripudiare dalla propria famiglia per gettarsi in qualcosa che non sa neppure se avrà un seguito, dico giusto? È un ragionamento razionale, intelligente.”
Si sentiva crudele, ma non poteva fare a meno di essere in collera con lui. Era la prima volta che provava quel sentimento nei suoi confronti, ed era disarmante, inaspettato… lo lacerava dentro. Sapeva che prima o poi sarebbe arrivato quel giorno, però nell’animo aveva forse sperato di indurlo a cambiare idea, a farlo innamorare di sé per sempre, a convincerlo a fuggire insieme e tante altre irrealizzabili congetture.
Quella decisione, invece, era la prova tangibile che Damon non solo non era mai stato sicuro di amarlo, ma soprattutto che aveva sempre dubitato di essere lui stesso amato da Corey. E questo, in un certo senso, lo offendeva.
― È chiaro, sì, ― ribatté con voce fredda. ― Però vorrei solo che tu valuti oggettivamente se valga la pena di riporre fiducia e rimanere fedeli chi ti costringe a prendere certe decisioni e si comporta in maniera dittatoriale per quanto concerne ogni ambito della tua vita. Capisco quanto sia forte la crudeltà del sangue, ma anche ad essa si pongono dei limiti, ed in questo momento… non hai idea di quanto io stia odiando tuo padre e tutto il mondo in cui sei impelagato, a dispetto del fatto che ti ha permesso di divenire quello che sei.
― Mi dispiace, ― si sentì dire, senza ricevere una reale risposta, ― per averti illuso e fatto soffrire. Ho trascorso momenti bellissimi, insieme a te, che non dimenticherò mai. Tu sei l’unica persona che io abbia mai veramente amato, però credo che in fondo questo rapporto sia stato anche distruttivo.
― È vero, però io rivivrei tutto, dall’inizio alla fine.
― Tu ti saresti risparmiato molti sospiri, ed io avrei continuato a vivere nella mia beata ignoranza.
Trascorsero alcuni minuti di pesante silenzio, in cui ognuno dei due rimase a fissare il mare, immerso nei propri pensieri.
― Ad ogni modo, sappi che se prima o poi tu dovessi cambiare idea, o tornare a cercarmi… io per te ci sarò sempre, ― gli disse poi Corey, riacquistando un tono più morbido. ― Possiamo comunque rimanere amici, no? Magari… riprendere come prima… come prima di quel pomeriggio.
― Io, Corey… io non credo che ci riuscirei più.
― Ma eri stato tu stesso a dire che non era cambiato niente, che c’era sempre stata quell’attrazione tra noi…
― Appunto! ― esclamò quasi in un grido, gli occhi lucidi e penetranti.
Corey rimase ammutolito. Avrebbe desiderato che tra loro fosse sopravvissuta l’attrazione intellettuale che per prima li aveva legati, ma si rese conto che sarebbe stata inscindibile dai sintomi amorosi che provava alla sua presenza. Forse era meglio davvero tagliare i ponti con tutto, però… ― Io non so se ce la posso fare, ― gli disse sinceramente.
― Mi dispiace.
― Tu sei proprio sicuro di farcela? ― gli venne da chiedergli per ripicca. ― A conti fatti non mi hai mai amato quanto ti amavo io, vero?
― Forse no, ― replicò lui impassibile, atarattico, ma coi muscoli del volto un po’ tesi, nella speranza di rendere per Corey meno doloroso il distacco mostrandosi odioso. Gli avrebbe serbato del rancore, forse, ma l’amore sarebbe sbiadito e forse tramutato in disprezzo, lasciando solo la passione, prima o poi destinata a svanire.
― È finita, dunque, ― sussurrò Corey con voce un po’ soffocata, incredulo delle proprie stesse parole. ― Quel pomeriggio, quando abbiamo fatto l’amore qui… non avrei mai pensato che fosse l’ultima volta. Non potremmo… non potremmo salutarci facendolo ancora una volta?
Damon scosse la testa, serrando le palpebre, come per cancellare in un attimo tutti i mesi che avevano trascorso insieme. ― No, sarebbe molto peggio. Anzi, ora è meglio che me ne vada.
Corey fu colto dal panico e d’istinto lo afferrò per il polso. ― Ti prego, aspetta ancora un attimo! È presto, abbiamo tutta la notte…
― No, ― ripeté lui con distacco, come se tutte le giornate trascorse insieme nella confidenza più assoluta fossero sfumate come la nebbia ai raggi del sole. ― Scusami, devo andare.
L’altro tentò di baciarlo di nuovo, ma Damon gli sgusciò via in un secondo e corse lungo la riva, lasciandolo con un grande vuoto dentro.
Ancora incredulo, Corey lo rincorse per qualche metro per poi lasciarsi cadere in ginocchio sulla sabbia umida, singhiozzando, guardando con gli occhi sfuocati la sua figura allontanarsi nell’orizzonte, sempre più lontana.

“È meglio così, in fondo”, si ripeteva Damon mentre correva più velocemente possibile, col vento che gli sferzava il volto agghiacciando le lacrime che lo rigavano. Non poteva continuare ad illuderlo come aveva fatto finora, gli aveva già rovinato la vita abbastanza. Ma allora perché quei singhiozzi? Perché quella sofferenza inconsulta… per aver rinunciato all’unica persona che lo avesse mai reso felice?
Perché comunque sapeva ciò che lo aspettava. Non c’era modo per lui di vivere se non seguendo ciò che suo padre gli imponeva, e Corey era stato una grande e bellissima ribellione… la sua ultima. Sebbene sentisse una parte di sé sgretolarsi dolorosamente, quella parte che racchiudeva tutta la sua indole onirica, infantile ed artistica, allo stesso tempo provava anche un senso di leggerezza. Un palliativo, forse, ma in grado di rassicurarlo, di confermargli che quella era la scelta giusta. Poiché era con il cervello di suo padre che avrebbe ragionato da allora in avanti. Poteva ambire a delle scelte personali solo avendo il coraggio di stabilire da solo la propria strada, ed era troppo smidollato per riuscirci.
Perciò ora soccombeva, rimettendosi alle decisioni altrui: in fondo era la giusta punizione. Si sentiva quasi sgravato dall’enorme macigno del senso di colpa, mentre ultimava gli ultimi lenti passi verso la villa di suo padre, l’impero… la prigione.
Sì, in fondo era meglio così anche per Corey, che meritava di stare con qualcuno che lo amasse in totale completezza, qualcuno molto più sano di mente rispetto a lui. Era sicurissimo che ce l’avrebbe fatta perché conosceva il suo amore: lui era puro diamante, inscalfibile, incorruttibile. Avrebbe superato quel brutto momento, nonostante tutte le sue filosofie contorte, lui lo sapeva.
Quanto a se stesso, decise che d’ora in avanti avrebbe vissuto in maniera del tutto apatica, ancor più di prima. Sarebbe caduto nella depressione, probabilmente, come sua madre. O forse ne era già affetto senza rendersene conto, ma di quello non si stupiva: era il loro destino.
Sorrise tristemente, sollevando lo sguardo verso il balcone della propria stanza, le tende che sventolavano alla brezza leggera dalla finestra lasciata socchiusa. Forse bastava solamente attendere una vita futura per trovare la forza, per tentare di scegliere la propria strada… che magari non sarebbe stata quella più giusta, ma pur sempre soltanto sua. In quella attuale ogni occasione era persa in partenza, anche la più grande che aveva avuto. Era come fosse già terminata e forse lo era, in un certo senso. Già tutta prestabilita.
Damon varcò la soglia di casa senza porvi troppa importanza, lanciando un’ultima occhiata al frangiflutti sotto la sua finestra. Ormai persino le lacrime erano svanite, non era rimasto più nulla.
Sì, quella era veramente una notte limpida.

-continua-

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Capitolo trentacinquesimo
You’re not alone

Il buio prolungato l’aveva reso un vampiro, dopo giorni di reclusione volontaria nella cripta. Quella mattina sua madre era riuscita ad entrare e per poco non aveva dato di matto, calciando le cianfrusaglie e cartacce spagliate sul pavimento per crearsi un varco e raggiungere la finestra. Dopo esservi riuscita spalancò vetri e persiane lasciando entrare la fresca aria di aprile e la luce splendente del sole, che subito gli ferì gli occhi ormai disabituati.
Alison acconciò una fugace sistemata al suo letto, sprangò di nuovo la finestra e tolse il disturbo come se egli non si fosse mai trovato all’interno della stanza addossato ad un angolo contro il gelido pavimento, con indosso una camicia sgualcita ed i capelli scompigliati, simile ad un vecchio cencio abbandonato.
Il sole non era suo amico, gli illuminava il carnato pallido rendendolo ancor più spettrale, il volto scavato dalle lunghe ore di sonno perduto, gli occhi consunti dalle notti trascorse a distruggersi tra i singhiozzi che parevano inestinguibili, tanto da non riprendere fiato. Probabilmente aveva addirittura perso qualche chilo, ammesso che ciò fosse ancora possibile, poiché aveva smesso di mangiare, dormire, andare a scuola. Anche semplicemente uscire dalla sua camera diveniva un’impresa insormontabile, senza contare che ultimamente neppure le gambe gli reggevano più per alzarsi in piedi.
Più ci pensava e più elaborava, più la sua mente ipotizzava finali diversi, parole non dette, articolando ogni possibile discorso per indurlo a cambiare idea, ma poi… poi la realtà tornava a sbattergli in faccia quanto fossero sempre stati divisi da una barriera invisibile, per quanto simili in alcuni aspetti dell’animo, ed aveva sempre saputo che non poteva verificarsi un epilogo differente per quel loro amore assurdo e sbagliato, che oramai era nato come un figlio deforme ma ugualmente desiderato.
Era rassegnato, in fin dei conti, solo che non faceva a meno di soffrire al pensiero che dovessero prendere strade differenti, di non poter più trascorrere assieme a Damon quel tempo ritagliato ma che per lui era d’importanza vitale. Ancor peggio era non potergli parlare, sapere che le chiacchierate filosofiche non avrebbero avuto seguito… non poterlo più accarezzare.
Era durata cinque mesi, la loro relazione, ed un tempo simile non si cancella nel giro di giorni. “Prima o poi starai meglio, ti passerà”, gli ripeteva la vocetta buona nella sua testa. “La cicatrice resterà sempre, ma smetterà di bruciare”. Però poi si chiedeva cosa avrebbe fatto quando sarebbe tornato a scuola, ammesso ne avesse avuto la forza: come si sarebbe sentito intercettandolo anche solo con la coda dell’occhio, magari captando la sua voce di sfuggita, sentendo qualcuno parlare di lui?
No, non poteva vivere in quell’inferno. Ed ecco che l’altra vocetta, quella cattiva, lo blandiva suadente indicandogli il coltello come la più facile liberazione da tutti i mali. Ma, sebbene il dolore fosse grande, qualcosa dentro gli ripeteva che non ne valeva la pena. Non si erano mai lasciati per odio, anzi, casomai per il contrario. Quindi anche solo per il ricordo di ciò che era stato valeva la pena continuare a vivere, benché fosse così difficile.
Quel pomeriggio il suo pianto si era finalmente placato. Non le lacrime, che ancora scendevano spontanee dagli occhi stanchi e arrossati, ma il respiro era tornato più regolare ed anche i singhiozzi, quasi del tutto estinti. L’aveva pervaso una sensazione di languore, mentre stringeva tra le mani il ritratto che Damon gli aveva regalato a Natale e le foto scattate insieme. Provava una nostalgia infinta di quei momenti, ma allo stesso tempo ne assaporava ora il dolcissimo ricordo ed era sicuro che, anche se ora soffriva per come il suo ex-amante aveva voluto finisse, negli anni a venire quell’esperienza gli avrebbe lasciato solo conforto nel cuore.
Due tocchi discreti alla porta lo distolsero dai suoi pensieri.
― Corey, sono Scott, ― si sentì rivolgere da una voce bassa e vellutata. ― Posso entrare?
Sollevò gli occhi verso la direzione da cui proveniva, valutando confusamente l’ipotesi per alcuni secondi.
Era stupefacente la costanza di quel ragazzo che si era presentato davanti alla sua porta ogni giorno, dacché non l’aveva più visto a scuola, ma Corey non si era mai alzato ad aprirgli. Al contrario era rimasto ammutolito (probabilmente persino la voce gli avrebbe scemato), senza ribattere una sola parola alle tante che invece riversava il suo amico al di là della stanza nel tentativo di confortarlo, e forse anche di riempire quel silenzio così opprimente per entrambi.

Scott non demordeva: aveva compreso fin da subito ciò che era accaduto, pur non osando farne parola con Damon poiché, sapeva, se ci avesse provato l’irritazione avrebbe raggiunto livelli tali da non permettergli di tenere a posto le mani, e non era il caso di picchiare un ragazzo così gracilino.
Ma avvertiva nell’aria che qualcosa era mutato, a partire dall’assenza di Corey il lunedì subito dopo la gita. Quel pomeriggio era passato a casa sua per informarsi se stesse bene e gli aveva aperto la sua sorellina visibilmente preoccupata.
― Non riesco a capire cosa gli sia preso, ― gli aveva confidato Britney dondolando le gambette sulla sedia, con un visino mogio che poco le si confaceva. ― È da quando è tornato a casa stanotte che sta chiuso in camera a piangere, e proprio non lo sopporto. Quasi fa stare male anche me.
― Al ritorno da Praga? ― aveva indagato lui.
― No, lì per lì sembrava tranquillo. Poi però è uscito di nuovo, ecco… dopo aver parlato al telefono con quel suo amico, Damon. Mi sembra si fossero dati appuntamento, quindi… ho dedotto che debbano aver litigato. Sai, quando va storto qualcosa con Damon, Corey diventa intrattabile. Praticamente un’altra persona. E adesso è ancora disopra e non fa altro che piangere, te l’ho detto.
A quel punto Scott era salito, aveva bussato e provato ad entrare, ma la porta era chiusa a chiave. Dall’interno non proveniva alcun rumore se non qualche sporadico, struggente singulto.
― Corey, ti prego… qualunque cosa sia accaduta non devi disperarti così. Ti prego, lasciami entrare… anche solo per permettermi di confortarti, ― gli aveva proposto parlandogli in modo dolcissimo, ma l’altro mai aveva manifestato reazione alcuna.
Da lì erano cominciati i suoi lunghi monologhi. Si sedeva a gambe incrociate davanti alla porta, vi appoggiava la fronte, a volte persino piangeva insieme a lui. Altre tentava di fargli forza, si offriva persino di aiutarlo a sistemare quella situazione e parlare egli stesso con Damon per convincerlo che non potesse finire in quella maniera, andando irrazionalmente contro i propri interessi.
Come aveva sempre ripetuto a se stesso, non era tanto di avere per sé Corey che gli importava, quanto di saperlo felice ed accanto a chi amava. Ma poi un’altra parte di lui ribatteva: “Dannazione, come potrà mai essere felice così?”
Corey non aveva risposto, al massimo si era limitato a caccialo, ma egli rimaneva ogni giorno fino a sera, almeno fin quando non rincasava la madre. Non sapeva quanto la sua presenza fosse tollerabile per l’altro: certo era che Scott non poteva fare a meno di stargli vicino. In caso contrario sarebbe impazzito!

― Corey, ti prego… ― provò a chiamarlo di nuovo anche quel pomeriggio, e la sua voce gli parve tale ad un’eco lontana, giunta appena in tempo dal mondo dei vivi a recuperare un’anima sprofondante nell’Ade.
Si rese conto di avere bisogno di quella voce, un bisogno strenuo ed assoluto, anche solo per non cadere nel baratro, e fu per questo che trovò la forza di sollevarsi da terra, benché le gambe gli tremassero e le ginocchia fossero sul punto di cedere. Appoggiandosi all’armadio ed al muro infine riuscì ad arrivare alla maniglia e girare la chiave: non appena la porta si schiuse ricadde simile ad una bambola senza equilibrio tra le braccia di Scott, il quale fu lesto a sorreggerlo mormorando sbigottito il suo nome.
Come gli sembrava fragile… tanto da spezzargli il cuore. Gli aveva sempre sortito quell’effetto, sì, ma in quel momento in modo ancora più accentuato. Le sue braccia filiformi aggrappategli al collo ed il suo corpo sottile acuivano in lui il desiderio di proteggerlo, di regalargli tutto l’amore che possedeva da anni e non aveva avuto occasione di esternare.
Ma come prima fase doveva riportarlo alla luce, farlo risalire dalle tenebre che si era intorno create, perciò lo strinse in un abbraccio forte e sicuro, in grado di sostenerlo ed infondergli calore. ― Corey, Corey… ― mormorò piano, come la più dolce delle litanie, alla bambola che immobile gli affondava il volto sulla spalla senza emettere suono, senza movimento: unico segno di vita il respiro leggero e tiepido che Scott avvertiva attraverso la camicia.
Lentamente lo trascinò verso il letto e ve lo adagiò sopra, e se stesso con lui, poiché pareva non sopportasse l’idea di farsi scorgere in volto o tanto meno d’incontrare il suo sguardo.
― Corey, ― lo chiamò ancora scostandolo gentilmente quel tanto che bastava per guardarlo, ma l’altro seguitava a chinare il capo di nuovo sull’orlo di una crisi, come se quell’abbraccio davvero possedesse il potere di sciogliere l’ultimo nodo nella sua gola.
― Guarda in che stato sei, ― sussurrò Scott con dolcezza, simile ad una madre premurosa. ― Di questo passo finirai per ammalarti, ed io non voglio che questo succeda, mi hai capito? So che è dura… so che stai male… ma devi reagire! Corey, mi senti? Per prima cosa hai bisogno di rimetterti in forze, poi…
Il ragazzo emise un singhiozzo schiacciandosi di nuovo contro il suo petto e lentamente riprese il pianto, ogni momento più disperato. Scott non riuscì a fare altro che accarezzargli con la mano i capelli in modo rilassante, deponendogli un lieve e delicato bacio sulla nuca e pazientando fin quando non fu più calmo. Poco dopo si rese conto che, tra un singulto e l’altro, Corey tentava di dirgli qualcosa: ― Scott, perdonami. ― Quella voce pareva estranea persino al suo legittimo proprietario, tante erano le ore, i giorni in cui era stata segregata, bloccata da un groppo di disperazione.
― E di cosa? Puoi piangere per tutto il tempo di cui hai bisogno, se questo ti farà stare meglio, sfoga ciò che senti. Io ti resterò vicino.
― È che non credevo… non credevo sarebbe stato così brutto, anche se sapevo che era inevitabile… Per qualche istante mi ero quasi illuso… che avrebbe potuto abbandonare tutto il resto per me. Ma era impossibile, io non sono mai stato importate per nessuno.
― Non è vero… non è vero, per me sei importante! Forse per te non ha alcun valore, o almeno non ne ha come se lo dicesse lui, ma non devi pensare una cosa del genere. Perché tu sei indispensabile come l’aria stessa.
A quelle parole Corey trovò il coraggio di alzare lo sguardo, cercando di accennare un sorriso che sul suo volto disfatto non risultò più di una lieve smorfia. Scott lo trovò ugualmente incantevole.
― Lui come sta? ― chiese il ragazzo dai capelli rossi in un sussurro appena.
L’altro si sentì interdetto, covando nell’animo un muto rancore al pensiero che, nonostante lo avesse ridotto in tale stato e fatto soffrire per mesi, i suoi pensieri andassero ancora comunque a Damon piuttosto che rivolgersi a chi stava facendo di tutto per aiutarlo, a chi lo consolava in quello stesso istante.
― Bene, credo, ― rispose tuttavia impassibile, cercando di non far trapelare il contrasto di emozioni che dentro lo infestava. ― A vederlo sembra non sia accaduto nulla, si comporta come sempre. Però, ad un occhio attento… o forse per me che conosco quale storia c’è dietro… beh, si potrebbe dire che in questi ultimi giorni il suo sguardo sia più triste del solito. Ma non è a me che dovresti chiedere, io non sono neppure fra i suoi amici, lo vedo solo di sfuggita in mensa.
― Capisco. ― Abbassò lo sguardo, rassegnato. ― Sai cos’è che mi fa più male di tutto? Sono i motivi… solo i motivi per cui ha sempre voluto che finisse così. Per suo padre che è una persona infima e manipolatrice e non merita neanche la millesima parte dell’affetto che Damon gli riserva e della fiducia che ripone in lui, al punto da sacrificare ogni inclinazione, sogno od aspirazione della sua vita per andargli bene, per compiacerlo. È un edipico fortissimo, il suo. ― Corey si staccò un poco da lui parlando con voce spezzata e piena di rabbia, stringendo le mani a pugno. ― Io lo ho sperimentato a sei anni con mia madre, ma poi ho lasciato perdere, dando sfogo a competizioni e ripicche. Il suo invece durerà sempre. Odio tutta quella situazione contingente: la sua famiglia, la vita perbenista e piena di false apparenze che gli ha ricamato intorno, e più di tutto odio quell’uomo che lo ha portato via da me!
Scott si stupì nel constatare come Corey parlasse del padre del suo ex-amante come di un proprio rivale. Forse gli era venuto naturale senza neppure rifletterci, ed in effetti a pensarci bene non era poi così assurdo.
― Che razza di animo si deve avere per rinunciare a realizzare se stessi al fine invece di divenire ciò che i nostri genitori volevano che fossimo? ― continuò il suo amico in un febbrile monologo, mentre egli al contrario ravvisava solo incoerenza nel comportamento di Damon, codardia, debolezza, mancanza di spina dorsale… chiedendosi al tempo stesso per quale delle due scelte occorresse più forza.
― Non ho mai capito se fosse amore nei confronti della sua famiglia o semplicemente paura di allontanarsene, di non sapersela cavare da solo nella vita. Forse un po’ l’uno e un po’ l’altro. Ma solo ora ho capito che, per quanto ci conoscessimo bene ed avessimo parlato tanto durante quelle misere frattaglie di tempo in cui siamo stati insieme, c’erano lati del suo carattere che sono sempre rimasti oscuri per me. ― D’improvviso rise sottilmente: una risatina inquietante ed ironica. ― Pensa che non ho mai neppure capito se mi amasse davvero o fosse soltanto convinto di amarmi… l’unica cosa che so è che era sincero, o almeno credeva di esserlo, tutte le volte che me lo ha confessato. Perché lui non poteva mentire, non coscientemente… non con quegli occhi.
Corey sbatté le palpebre e le sue ciglia si impregnarono di nuovo.
Autolacerandosi, con voce dolce ma tremante, Scott domandò: ― Desideri che provi a parlargli io? Cercherei di mettere una buona parola, di fargli capire come ti senti, di…
― Non finché possiedo una bocca ancora mia. ― Per un attimo nel tono di Corey balenò uno schizzo della sua tipica mordacità di un tempo. ― Credi forse che non gli abbia ripetuto tutto questo già molte volte e non possa farlo l’ennesima, se solo volessi? Sarebbe tutto fiato sprecato. E tu non osare avvicinarti a lui!
― Va bene, ― assentì conciliante. ― In fondo io non ho mai saputo nulla di voi, né del rapporto che vi legava. Non saprei neppure quali parole usare.
Corey sorrise mestamente, lo sguardo fisso sul punto del pavimento ove era poggiato il piccolo dipinto che lo ritraeva attorniato da una cornice di viole. In un certo senso Scott comprese cosa l’avesse tanto attratto di Damon per condurlo ad una passione così frenetica: solo osservando quel semplice particolare, una tale arte capace di trasmettere così tante emozioni ad un unico sguardo, dava quasi l’impressione di poterne carpire l’essenza ed i segreti più intimi congiungendosi con la persona che l’aveva creata.
Quel quadro era magnifico in primo luogo perché ritraeva Corey, ma lo era in tutto e per tutto, doveva ammetterlo.
― Posso raccontartelo? ― si sentì chiedere timidamente Scott. ― O ti fa soffrire?
Non sapeva perché, ma al contrario a tale prospettiva si sentì sgravare da un enorme peso. Forse perché quegli eventi appartenevano ormai al passato, od almeno così sperava; perché se erano finalmente degni di essere narrati, erano già divenuti storia.
― No, mi farebbe piacere, ― rispose con voce di velluto.
― Ci eravamo già incontrati in altre occasioni, ma la prima volta che abbiamo parlato davvero era un pomeriggio di ottobre e stava piovendo…
Finalmente riuscì a confidare quello che era accaduto tra loro: non la sera in cui Damon lo aveva abbandonato, ma prima… tutti i bei sentimenti provati, il batticuore, le lunghe chiacchierate, la sensazione di benessere mista a compiaciuto struggimento. E mano a mano che ogni emozione veniva catalizzata acquisiva magnificamente un senso, si trasformava in pagina scritta e pareva meno logorante. Assumeva la connotazione di passato, ma non era un passato triste, era solo esperienza, crescita… vita.
Si rese conto, parlandone, di sentirsi lentamente un po’ più sereno. Le lacrime si esaurivano, rimaneva solo uno sconfinato spossamento e desiderio di dormire, pur sapendo che la mattina seguente la situazione non sarebbe stata diversa, né egli si sarebbe sentito di nuovo felice, ma almeno con la speranza di guardare le cose in un’altra prospettiva.
Scott lo fece addormentare sopra la propria spalla, continuandogli il lieve massaggio dalla nuca alla schiena e cullandolo, di tanto in tanto, fin quando non si fu del tutto calmato.
Ora che avvertiva il respiro di Corey essersi fatto più lento e che le sue membra, a lui addossate, cominciavano a rilassarsi, inconsapevolmente si trovò per un istante di troppo a soffermare lo sguardo su quel corpo che tanto amava e desiderava. I suoi occhi sostarono sulla sua chioma rossa e scompigliata che gli disegnava deliziosi riccioli sulla spalla, da cui la camicia era scivolata lasciando nuda la pelle morbida e candida che velava sensualmente la fragile forma dell’omero ed i muscoli sottili. Le clavicole ed il collo su cui avrebbe tanto voluto depositare baci, imprimere segni, leccare, succhiare…
I tre bottoni slacciati dell’indumento permettevano di scorgere la vita sottile, e più sotto, oltre il leggero tessuto degli slip, la tenue rotondità dei glutei e la linea scavata, incantevole, delle sue cosce, il delicato disegno della muscolatura e le gambe slanciate. Perfette, erano assolutamente perfette, quelle gambe! Non aveva mai visto prima bellezza più assoluta, nulla mai lo aveva incantato a tal punto.
Distolse lo sguardo con un’ombra di colpevolezza. Che meschino che era: il suo amico si trovava in quello stato e lui non sapeva fare altro che soddisfare la propria lussuria visiva. Cercò dunque di relegare in un anfratto della propria mente le sensazioni che gli suscitava quel corpo seminudo appoggiatogli contro e lo distese piano tra le lenzuola, il capo sopra il cuscino. Corey assestò un poco la propria posizione senza tuttavia destarsi: i nervi a fior di pelle non gli avevano permesso di dormire da giorni, ed ora tutto il peso della stanchezza accumulata lo aveva fatto crollare.
Riposare gli avrebbe giovato anche alle emozioni, ne era sicuro. E per quel giorno, si disse, il suo compito era terminato. Inutile indugiare ancora ad ammirare le sue labbra umide e rosee, identiche a quelle di un angelo dannato, che invitavano ad assaggiarne l’assoluta morbidezza.
“Basta!” si disse sentendosi un verme, costringendosi ad alzarsi e voltarsi senza lanciare un’ultima occhiata. Si avviò verso la porta lasciandola socchiusa ed al piano inferiore raccomandò a Britney di assicurarsi che, una volta sveglio, Corey riuscisse a mandar giù almeno un po’ del cibo che la madre aveva lasciato loro per cena.

Scott fece ritorno direttamente a casa, dove come ogni giorno fu accolto da immensi ambienti dal design al limite del modernismo e talmente vuoti che ponendo bene l’orecchio poteva udire l’eco dei propri passi. Tirò dritto al piano disopra con la speranza di smorzare l’insopportabile tensione accumulata nelle ultime ore.
Il vano della doccia del suo bagno personale era spartano ma enorme, riparato da vetri opachi color fumo: perfetto per starci in due, abbracciarsi e provare posizioni… perfetto insomma per praticarvi del sesso, peccato che egli non avesse nessuno col quale sperimentare l’esperienza, giacché l’unica persona di cui gli importava aveva pensieri completamente differenti per la testa. Corey era lontano anni luce dal pensare a lui anche solo come qualcuno con cui sarebbe potuto nascere del tenero prima o poi, mentre lui, al contrario…
Lui impazziva!
Impazziva letteralmente!
Strinse i denti fin quasi a provare anche dolore fisico, mentre entrava nudo nella cabina, il corpo slanciato ed asciutto, la muscolatura ben proporzionata: non eccessiva ma comunque evidente e disposta in maniera armonica. Non avrebbe faticato ad esercitare il proprio fascino su buona parte del resto del mondo, ma non era quello che gli interessava.
Aperto il rubinetto dell’acqua calda, un potente getto gli si schiaffò addosso rimbalzando mille goccioline dalle pareti attorno: regolato come sempre al massimo dell’intensità da lui stesso. Dovette attendere solo pochi secondi prima che l’ambiente si colmasse di una nuvola di vapore latteo. Dio, come sarebbe stato bello, in quello stesso momento, avere Corey stretto lì tra le sue braccia! Serrò per un attimo gli occhi senza neppure rendersi conto di stare abbracciando aria di fronte a sé. Ah, avere tra le mani la sua vita sottile, il suo corpo bagnato e accaldato per l’eccitazione… far scorrere le proprie carezze ancora più giù, fino alla soda e levigata pelle dei suoi glutei e poter finalmente toccare le sue cosce.
Scott boccheggiò, cadendo – non seppe come – in ginocchio, abbassando d’istinto sul serio la mano, ma sopra il suo membro già insopportabilmente duro ed eretto al semplice pensiero. Gli sembrava di soffocare, ansimando per prendere aria, col vapore sempre più fitto e l’acqua quasi bollente che gli scrosciava sulle spalle arrossandole, colando lungo il resto del corpo.
― Ah, Corey! ― gli uscì persino un grido.
Si impugnò il pene a mo’ di coltello cercando di coprirne quanta più superficie possibile, e passò il pollice sopra il glande scoprendolo dalla pelle sottile, muovendosi con frenesia, con lo scopo di liberarsi il prima possibile. Prese a masturbarsi pompando sempre più forte su e giù, ritmicamente, fin quasi a farsi male.
E intanto immaginava il suo corpo sotto di sé, anzi, aggrappato a lui, immerso nel godimento ed intento a chiedergli di più. La testa gli girava e tremava tutto, tanto che neppure il braccio lo resse e stramazzò a terra, contro la parete infuocata dall’acqua che vi batteva. Pervaso dal furore ed in preda all’eccitazione non fece che dimenarsi peggio di un animale in calore, carezzandosi febbrilmente con l’altra mano lungo petto e torace immaginando che fosse Corey a farlo, vedendosi violare quella sua bocca divina, urlando e gridando il suo nome, il volto contratto dalla sofferenza, la gola che non smetteva di singhiozzare e gli occhi di piangere.
Quando venne, in un doloroso e violento fiotto biancastro contro le piastrelle, aveva i capelli di Corey nella mente. Tutto era finito, solo l’immensa spossatezza rimaneva, impedendogli di sollevare anche un solo muscolo, solamente i suoi occhi non smisero di lacrimare.
“Non sono che un miserabile porco!” si accusò avvilito, vergognandosi enormemente di dover perdere il controllo in tal modo. Ogni giorno mantenersi saldo di fronte a Corey era più difficile: cosa avrebbe fatto se prima o poi non fosse riuscito a tenere a freno i propri istinti? Pregava di non doverlo sapere, chiedendosi perché mai Iddio o chi per lui avesse messo sulla terra una simile creatura.
“In fondo non sono migliore di tutti gli altri”.

― Su, coraggio! ― Scott gli strinse la mano nella propria, nascoste tra i loro due corpi, mentre i due ragazzi si trovavano fianco a fianco davanti al liceo con gli zaini in spalla.
― Non c’è bisogno che mi prendi per mano: so attraversare la strada da solo, ― ribatté così fintamente sprezzante, senza tuttavia sfilarla da quella del suo amico.
Quella mattina Scott gli aveva telefonato chiedendogli se avesse voglia di andare a scuola insieme a lui e, dopo aver ricevuto una specie di grugnito come risposta affermativa, era passato a prenderlo in auto come era già avvenuto la sera di Capodanno. Nonostante fosse un particolare non degno d’importanza, a Scott aveva dato un immenso piacere poterlo accompagnare, tanto che per un attimo si era davvero sentito come se Corey fosse stato il suo ragazzo.
Ma ora tutto stava nel fargli trovare la forza di entrare, anche con il rischio – desiderio? – di rivedere Damon, poiché certamente, sebbene egli facesse del proprio meglio per non darlo a vedere, in quel momento si trovava in uno stato emotivo di grande agitazione, pallido e nervoso, ed il cinismo che si accentuava in lui in quelle specifiche occasioni ne era l’ennesima conferma.
― Avanti, muoviti, altrimenti arriveremo in ritardo! ― gli intimò brusco Corey come se il problema non lo riguardasse personalmente, strappandogli un lieve sorriso. ― Sono già indietro con i compiti, non voglio anche un richiamo per non aver rispettato l’orario.
Entrarono con disinvoltura ed avanzarono verso la classe di Corey ancora tenendosi inconsciamente per mano, senza neppure accorgersi di alcune occhiate bieche che gli giunsero dai gruppi omofobici o quelle compiaciute delle ragazzine. Di Damon non scorsero neppure l’ombra, ma di questo Scott non si stupì, poiché ultimamente lo si vedeva sempre di meno in giro per i corridoi.
Entrò insieme a lui anche quando arrivarono nella sua classe, della quale tra l’altro aveva già conosciuto gran parte dei ragazzi durante la gita scolastica. Corey neppure riuscì a raggiungere il proprio banco che subito i suoi compagni gli si fecero attorno gravidi di saluti ed esclamazioni di giubilo.
― Finalmente sei tornato!
― Abbiamo saputo che sei stato poco bene…
― E adesso come ti senti? ― gli chiese Marc quasi premuroso, creandosi un varco tra gli altri a spintoni. ― Credi di essere un po’ guarito?
Corey arrossì all’apparenza senza un motivo, riuscendo solo ad annuire con poca convinzione. ― Ad ogni modo non sono contagioso.
― Vedrai che con il tempo ti rimetterai completamente, ― aggiunse quindi anche John.
― Va bene, grazie per l’interessamento, ora vi dispiace lasciarmi andare a sedere?
Scott alzò gli occhi al cielo in un sospiro sollevato, sperando di poter considerare quella scontrosità un ritorno al suo comportamento di sempre: afflitto da qualsivoglia tormento, ma allo stesso tempo superiore a tutto.
Il ragazzo intanto si fece strada verso il proprio banco dove si accomodò a cercare nello zaino il solito libro di poesie dalle pagine ormai consunte, tante erano le volte che lo aveva sfogliato, ignorando altamente la piccola folla addensataglisi attorno.
― Ecco, noi… ― si azzardò a dirgli Kevin porgendogli un mazzetto di fogli e quaderni, ― ti avremmo messo da parte tutti i compiti ed il programma svolto in questi ultimi giorni. Se c’è qualcosa che manca o di cui hai bisogno, chiedici pure.
― Oh… beh, vi ringrazio molto. ― Corey prese in mano il materiale sinceramente stupito da una tale sollecitudine da parte loro.
― Figurati. Tu ci hai aiutato così tante volte che questo era il minimo.
― Ed ecco, noi avremmo anche questo, ― seguitò poi una sua compagna a nome del gruppo di amiche, appoggiando sul banco una confezione a forma di cuore di biscotti alle mandorle, adornata da un fiocco viola chiaro. ― Un piccolo regalo di bentornato.
― Co-come? ― A quel punto non sapeva più se sentirsi commosso o sospettoso. ― Ma sono stato assente solo una settimana.
― Beh, a noi però è parsa un anno intero! Ci sei mancato tanto. Venire a scuola non era più la stessa cosa senza di te.
― Smettetela di prendermi in giro, okay? ― replicò Corey sprezzante.
― Bentornato! ― gli augurò ancora sorridente Marc, appoggiandogli amichevolmente la mano sulla spalla prima di raggiungere la propria postazione assieme agli altri.
Corey alzò uno sguardo disorientato verso Scott come in cerca di una spiegazione, ma il ragazzo non seppe che scrollare le spalle sorridendo enigmatico.
― Così chi non muore si rivede, Jones, ― richiamò nuovamente la sua attenzione il tono gracchiante e un po’ ironico di Paul, dal banco alla sua destra. ― Dopo mesi.
― Adesso basta con le esagerazioni! ― sbottò lui.
― Con il corpo c’eri, ma con la mente… credo avrebbero dato chissà cosa per sapere su quali lidi stavi vagando… e soprattutto con chi.
In un impeto che gli fece gelare il sangue, Corey si rese conto che tutta la sua classe (e forse non solo) aveva sempre saputo perfettamente di quale natura fosse quel male che lo aveva ridotto in stato larvale durante quei giorni e gli avesse tolto il sonno e la calma per tanto tempo, pur ignorando l’identità della controparte.
― Sai, negli ultimi due numeri non abbiamo venduto neppure la metà delle copie, ― riprese Paul ripulendosi con un fazzoletto di stoffa il naso arrossato dalle allergie primaverili. ― Sarà colpa della nuova copertina: l’avevo detto da subito che non era accattivante, ma hanno preferito ignorarmi. Per quanto mi sia difficile ammetterlo e per quanto ti detesti e ti invidi, Jones, magari… se tu fossi stato presente avresti convinto tutti a mantenere quella precedente.
― Dove vorresti arrivare col tuo contorto discorso, mi stai per caso rinvitando in redazione? Che senso avrebbe, ora che manca meno di un mese al termine della scuola ed un solo numero al Giornale?
― Sì, ma il più importante! ― si infervorò l’altro, a discapito della congiuntivite che gli fece ancor più lacrimare gli occhi. ― Usciranno gli annuari, ci sarà da recensire il ballo…
― Sai bene che non prenderò mai parte a quella ridicola parata dandy!
― Daresti almeno alla scuola la possibilità di leggere il tuo commento sul viaggio a Praga?
― E cosa c’è da dire che già non si sappia sulle guide turistiche? ― Vagamente infastidito, Corey scostò lo sguardo da lui. ― Sentimenti, emozioni, sensazioni…? Dovrei forse parlare di sassolini che invece di esaudire desideri li mandano in frantumi? Di chi avrei voluto ci fosse ed invece non c’era?
― Potresti invece, ― si inserì una terza voce la cui presenza era ormai data per scontata, ― parlare di chi c’era.
Alzò di nuovo gli occhi verso Scott, un po’ avviliti e un po’ lucidi.
― Sai, Corey… in fondo non credo tu sia proprio solo come hai sempre creduto. ― Ed accompagnò le parole con un sorriso pieno di calore.

-continua-

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Epilogo
Dreams of yesterday

Ottobre 1998
Era pomeriggio inoltrato, ormai: gli ultimi bagliori del crepuscolo lasciavano spazio alla fuliggine notturna dei caminetti sbuffanti su un cielo bruno ma limpido, tinteggiato di stelle. Si accendevano le luci ambrate dei lampioni lungo i viali del centro, ed i colori nelle vetrine dei negozi divenivano più vividi.
Quasi traspariva un’atmosfera d’altri tempi dall’entrata ad arco acuto della piccola libreria che esponeva in vetrina saggistica nuova di zecca ed i best-sellers del momento, ma che racchiudeva, riposti negli anfratti degli scaffali, anche vecchie edizioni di classici dalla copertina consunta e tomi antichi di secoli.
A meno di mezzora dalla chiusura, la clientela si era ormai diradata: rimanevano solo pochi avventori abituali, topi di biblioteca che curiosavano tra gli esotismi non ancora contemplati. L’ambiente trasmetteva un’aria intima e familiare, ed era di dimensioni tanto ridotte che Corey poteva abbracciarlo tutto in un unico sguardo rimanendo seduto su quella sorta di sgabello traballante che gli era stato rifilato come sedia. Certo, con quello che raggiungevano le entrate, il suo datore di lavoro non poteva permettersi di farlo stare più comodo; e comunque preferiva detraesse il meno possibile dal suo stipendio, considerando che l’uomo era stato tanto fortunato da trovare qualcuno disposto a farsi pagare una miseria per trascorrere intere giornate a governare quella catapecchia.
Catapecchia, sì, ma Corey la adorava. Adorava la consistenza della carta impolverata e ingiallita, il profumo delle copertine di pelle, il calore che trasmetteva il legno degli scaffali ed i piccoli, meravigliosi affreschi del soffitto. Quel luogo era in grado di conferirgli tranquillità come pochi altri, anche perché nei giorni in cui non c’era affollamento poteva trascorrere tutto il tempo nella sua attività preferita: leggere.
Era proprio tramite questa che arrotondava lo stipendio, scrivendo mensilmente recensioni sui libri in uscita per una rivista letteraria. I suoi giudizi non erano mai del tutto negativi senza tuttavia risultare neppure smaccatamente lusinghieri: mordaci sì, ma non offensivi, e pregni di qualsiasi rimando in grado di captare l’attenzione dei lettori di medio-alta cultura. Anche per questo continuava ad ottenere un discreto successo, e di ciò non poteva che sentirsi nel proprio intimo soddisfatto.
― Insomma, l’università proprio no, eh? ― chiese Dominique sedutogli accanto su un altro di quegli scomodi sgabelli, intento nel frattempo ad accendersi una sigaretta.
― Sei pazzo, dico!? ― lo fulminò Corey strappandogliela di bocca. ― Qui è vietatissimo fumare: c’è anche il cartello, non lo vedi?
Il suo amico francese sbuffò senza tuttavia prendersela più di tanto, nella sua perenne e serafica condiscendenza. ― Pensavo che la nicotina avrebbe messo la ciliegina sulla torta a quest’atmosfera bohemien, mon ami. Mancherebbe poco per sentirsi nella Sorbonne di fine ottocento.
Corey sorrise compiaciuto, a malapena intristito da alcuni flash di ricordi che quella gag della sigaretta gli aveva riportato alla memoria.
― Chiedevo se veramente hai intenzione di non proseguire gli studi, con la mente che ti ritrovi.
― Proprio no, per ora, ― gli rispose convinto. ― A parte che non ho i soldi.
― Quello non è un problema, lo sai.
― Ti ripeto che non voglio assolutamente dipendere da nessuno. E poi al momento non è nei miei interessi. Non mi piace che qualcuno tenti di guidare la mia cultura, lo sento come una forma di plagio. Preferisco scegliere io a cosa interessarmi, punto e basta.
Presero una sorsata di caffè dalle confezioni da asporto che tenevano in mano, guardandosi svogliatamente intorno. La calma e la serenità di un simile momento erano quasi commoventi.
― Sei stato bravissimo ieri sera, ― gli disse poi Corey con affetto. ― E incantevole. Se ci ripenso mi vengono ancora i brividi.
― È merito di un talento naturale, mon cher, e magari anche di dodici anni di lezioni di violino.
Avevano assistito ad un suo concerto in teatro proprio la sera prima. A dire il vero, nonostante avesse trascorso gran parte dell’estate assieme a Scott e alla sua comitiva, Corey era venuto a sapere solo in quell’occasione che Dominique era un violinista, ed anche di un certo livello, a quanto pareva.
Le sue predisposizioni nei confronti di quel ragazzo non erano mutate rispetto all’impatto della festa di Capodanno, ed in quel tempo aveva stretto amicizia con lui piuttosto che con gli altri (Scott a parte, naturalmente), forse perché si somigliavano, perché gli piaceva quel modo di fare sfrontato ma dolce al tempo stesso, quello spiccare impeccabilmente dal resto della folla. Forse per il fatto che un po’ nell’aspetto somigliasse a Damon, nonostante il sorriso più malizioso: lo stesso corpicino minuto e grazioso.
Gli era sempre piaciuto, quel francesino, e pure molto. Non come amante magari, anche se non ne dubitava le indiscusse virtù, ma più che altro come amico. Erano in sintonia perfetta e trovavano piacevolissima la reciproca conversazione.
― Ho notato una lacrima rigarti il viso quando ho suonato Swan Lake, ― mormorò Dominique. ― Era per qualche ragione in particolare?
Corey scosse il capo, mentendo velatamente. ― Ammetterai che è una melodia che fa piangere in sé per sé. Tu invece, ― cercò poi di sviare l’argomento, ― quest’oggi sembri molto felice.
― È perché ieri sera, alla fine del concerto, dopo che siete passati a trovarmi in camerino, ho ricevuto la visita di una persona che non vedevo da quando avevo sedici anni: un mio compagno al collegio che frequentavo in Alvernia prima che ci trasferissimo qui. Non ero mai stato con nessuno prima di lui. ― Nel confidargli tali parole arrossì come una verginella che immagina la sua prima volta. ― E forse, si può dire… che non abbia più avuto storie importanti come quella che c’era tra noi. ― Prese un altro piccolo sorso di caffè con aria trasognata, lo sguardo perso in un punto imprecisato dell’alto soffitto a volta. ― Mi ha fatto così piacere incontrarlo di nuovo…
Corey sorrise impercettibilmente, ricordando per un attimo le fantasie che Dominique gli aveva confidato la sera in cui avevano ballato insieme.
― Credo che alcuni rapporti, anche se poi si evolvono e maturano, com’è naturale per tutto, in un certo senso siano destinati a restare per sempre. Per alcuni periodi si allontanano, poi ritornano. Tornano sempre, anche se con forme diverse. ― Il francesino sgravò la profondità del proprio pensiero con una risatina leggera. ― Ecco, damnation, adesso sì che avrei proprio bisogno di una sigaretta!
In quel momento il pesante portone a vetri si schiuse timidamente attirando la loro attenzione: cosa assai insolita per quell’ora di sera. Prima della persona stessa spuntò all’interno un mazzo di cinque rose rosse avvolte da una carta increspata dello stesso colore, e solamente dopo si fece avanti il giovane alto che le portava: aveva addosso vestiti semplici, jeans e maglietta con una giacca chiara da mezza stagione. I capelli lisci e neri, piuttosto lunghi, gli lambivano il collo.
Se loro due non erano cambiati affatto da un anno a quella parte – Corey se possibile ancora più attraente nei suoi riccioli ramati e Dominique sempre con quel suo taglio a metà tra l’artista pop-art ed il finto bravo ragazzo – Scott aveva acquisito nel volto tutta la dolcezza che fino ad allora era stata latente.
Senza badare agli sguardi indifferenti o straniti dei pochi clienti rimasti, con un sorriso baldanzoso si fece avanti verso il bancone. ― Salve ragazzi, ― li salutò entrambi. ― Ciao, amore! ― si rivolse poi a Corey in modo ancor più affettuoso, porgendogli i fiori. ― Questi sono per te.
― Ma ti pare questo il momento ed il luogo!? ― lo rimproverò sottovoce mentre assumeva in volto lo stesso colore della sua chioma, provando tuttavia un’inspiegabile gratificazione.
Accettò comunque ben volentieri le rose, di fronte al persistente sorriso del proprio compagno. ― Perché mai, dunque, tanta sollecitudine? ― volle però informarsi.
― Beh, intanto perché esisti. E poi manca appena una settimana al tuo compleanno.
― E quindi cominci fin da ora. Logico, ― lo punzecchiò Dominique.
Scott gli propinò una linguaccia. ― Non sperare che venga ad ingaggiarti per una serenata al chiaro di luna, troverei musicisti di gran lunga più preparati!
― Buon per me: io la notte al chiaro di luna faccio cose molto più divertenti che venire a suonare sotto la sua finestra!
― E finìtela, una volta tanto, siete banali.

Era già calata la notte quando Corey parcheggiò sotto il grazioso palazzo in stile liberty non lontano da dove lavorava. Scese dall’auto richiudendo la portiera con un colpo secco, i capelli e la giacca rosso scuro leggermente sventolanti alla fredda brezza. Scott, seduto dal lato del passeggero, lo seguì poco dopo.
All’ex-giocatore di football metteva una certa inquietudine entrare di nuovo in quel vecchio ascensore dallo stampo ‘anni venti’, malandato per quanto pittoresco, tutto incassato in una cancellata arricciata in ferro battuto. Quando era in movimento erompeva sempre in strani cigolii e stridori poco rassicuranti, ma visto che al suo amico non era mai passato il disgusto per l’attività fisica (non che ne avesse bisogno, si intende: non aveva aumentato neanche di un grammo i suoi quarantasette chili), a Scott non restava che adattarsi. Ogni volta si sentiva ribattere: ― Fosse davvero pericoloso non lo darebbero per funzionante. Tu comunque vai per le scale, se preferisci. Ci vediamo sul pianerottolo.
Ma lui non lo ascoltava: gli piaceva troppo ogni momento che trascorrevano insieme, tanto che, anche qualora la struttura fosse crollata, giudicava valesse la pena rischiare.
Giunti fortunatamente indenni al terzo piano anche per quella sera, Corey sfoderò il suo portachiavi a forma di serpente e dischiuse il portoncino bianco di fronte a loro. L’appartamento era di dimensioni modeste: camera da letto, bagno ed un salottino con l’angolo cucina, il tutto arredato in modo graziosissimo e volutamente un po’ retrò. Di gran parte delle suppellettili era impossibile trovare cloni tanto erano ‘personalizzate’, come ad esempio la credenza color lilla con gli sportelli che riportavano disegni di frutti autunnali, ove erano ammassati quaderni assieme a scatole di cereali e marmellate di amarene, la bella libreria dalle forme armoniose in legno scuro accanto al morbido divanetto cobalto, od il tappeto con su riprodotta la Colazione sull’erba di Manet.
Tutta la stanza principale era adornata con lunghe lampade dalla forma di fiori di vetro colorato, dagli steli in ferro dipinto avvolti di foglie e tralci di rose. Di sera conferivano all’ambiente effetti cromatici contrastanti molto suggestivi.
Spostandosi nella camera, col letto a due piazze incastonato in una spalliera verde-azzurra, si notava il sinuoso armadietto color panna dalle decorazioni verdi simili a fili d’edera, i tanti comodini, più o meno alti, dai colori chiari e pieni di disegni a tema: animaletti, stagioni, luoghi… minuziose porte verso altri mondi, tutti straripanti di libri. C’era anche una scrivania dalle maniglie metalliche che reggeva perennemente il portatile, con accanto una seconda libreria alta fino al soffitto ed un piccolo comò dotato di specchiera, adibito più o meno alla stessa funzione.
In effetti tutto era invaso dai libri, in quella casa, o comunque da carte, manoscritti e pezzi di quaderni strappati che riportavano appunti comprensibili solo a colui che li aveva concepiti. Regnava sempre un beato disordine, almeno per quanto riguardava tale materiale, tanto che Scott spesso lo prendeva in giro insinuando che prima o poi sarebbe affogato in quel mare di carta. Ma era così che a lui piaceva, quindi se per assurdo fosse accaduto, era solito rispondere, sarebbe stato un buon modo di morire.
― Vado un attimo a mettermi comodo e poi arrivo subito, ― gli disse Corey avviandosi nella stanza adiacente e lasciando socchiusa la porta mentre cominciava a slacciarsi la camicia.
― Posso intanto iniziare ad apparecchiare la tavola?
―Fa’ pure.
Scott gli lanciò uno sguardo furtivo e compiaciuto con la coda dell’occhio. Anche se all’apparenza pareva sempre lo stesso, in realtà sapeva bene che nell’animo Corey era molto cambiato, pur senza aver perso quella pungente sagacia che tanto amava in lui: aveva smesso di essere in collera con il mondo e si era attenuata quella forte misantropia che spesso gli aveva messo i bastoni fra le ruote. Forse per merito della lontananza di sua madre, forse perché finalmente i torbidi anni del liceo erano rimasti alle loro spalle come inghiottiti da un buco nero. In qualche modo era cresciuto, e Scott era convinto, o almeno sperava, che fosse anche più sereno.
A volte mentre era in sua compagnia si trovava a sorridere come un ebete, arrossendo inconsultamente. Benché fossero trascorsi più di tre mesi ancora non gli pareva vero che il suo adorato angelo, che l’aveva defraudato di tutte le maschere appioppategli nel corso degli anni e reso nudo di fronte a se stesso, gli stesse ora facendo la grazia di accondiscendere ai suoi desideri.

* * *
Era la prima settimana di luglio, lui e Corey stavano tornando in auto da una breve gita organizzata durante il weekend allo scopo di scampare all’insopportabile calca che si addensava ogni estate sulle loro spiagge, gli ombrelloni ammassati, i surfisti che davano spettacolo a qualsiasi ora del giorno e la marea di turisti a caccia di avventure passeggere.
Avevano visitato un grazioso paesino di mare almeno cinque volte più piccolo della loro città, sul cui porto ondeggiavano barche consunte e pescherecci assediati da alghe e salsedine. Lì il litorale era ampio e quasi del tutto deserto, coperto di sabbia dorata ed ancora dotato di quella suggestiva fatiscenza tipica del mare d’inverno. Nel pomeriggio avevano passeggiato per i viottoli gremiti di negozi caratteristici e lungo le bancarelle dei mercatini, dove Scott aveva acquistato una cospicua quantità di dolcetti di marzapane e riempito Corey di svariati regali tra cui gadjets e souvenir in ricordo della loro prima piccola vacanza insieme.
Ora si trovavano sulla via del ritorno, costeggiando il lungomare dopo appena tre quarti d’ora di viaggio. Alla loro destra il sole calava lentamente dietro l’oceano ammantandolo di striature ambrate, sotto un cielo che sfumava nel viola limpido del primo tramonto.
Scott era alla guida, compiaciuto e soddisfatto come testimoniava anche il leggero, quasi impercettibile sorriso che gli aleggiava sul volto ed al quale il suo amico, lo sguardo un po’ assorto perso al di fuori del finestrino, non aveva ancora posto attenzione. Egli approfittò di quella calma idilliaca per osservarlo di sottecchi ancora una volta: fosse stato per lui non gli avrebbe mai tolto gli occhi di dosso, come d’altronde aveva fatto per tutto il giorno.
Era magnifico anche in quel momento, i capelli scompigliati e raccolti alla meglio con un nastro dietro la nuca, dal quale erano più le ciocche libere che quelle legate, con indosso una semplice maglietta a righe sottili rosse e bianche, ed un paio di jeans aderenti che gli arrivavano a metà polpaccio lasciando scoperte le splendide caviglie. Avevano preso un po’ di sole entrambi ma, mentre a lui era bastato poco per acquisire la sua solita abbronzatura dorata, Corey si era appena sfumato il volto di un colorito più roseo che se non altro gli conferiva un aspetto meno cagionevole.
― Cos’hai da guardare? ― si sentì chiedere all’improvviso a mezza voce.
― Guardavo il mare, mica te! ― ridacchiò lui.
― È meglio se guardi la strada, sai?
Scott sospirò, volgendo gli occhi di fronte a sé. Com’era bello quel momento del giorno, mentre la canicola delle ore più torride si dissipava nella fresca brezza della sera, abbandonando la sua scia sonnolenta sulle abitazioni e sulla natura intorno.
― A casa c’è qualcuno che ti aspetta? ― chiese poi a Corey.
― Tzk, figurati. Mia sorella è partita con la famiglia di una sua amica e mia madre in vacanza con l’ennesimo boyfriend.
― Ehm… allora… che ne diresti di venire da me? Sono solo anch’io, sai, mio padre in questi giorni è in Europa per lavoro.
Corey annuì vagamente. ― Okay.

Non era la prima volta che si trovavano soli in casa di Scott, ma tra loro non era mai accaduto nulla di compromettente, neppure un bacio. Continuava a desiderarlo, certo, con tutto se stesso, ma per quanto possibile si imponeva di contenersi perché non voleva assolutamente perdere la sua amicizia. C’erano momenti, purtroppo, in cui il solo guardarlo gli stimolava reazioni fisiche che non sempre riusciva a controllare, ed era accaduto più volte che nel bel mezzo di una conversazione fosse costretto ad assentarsi per esigenze ‘di forza maggiore’.
Tuttavia non aveva il coraggio di reintrodurre l’argomento, nel timore che Corey potesse offendersi o addirittura infastidirsi, e soprattutto perché, sebbene fosse trascorso del tempo e cercasse di non darlo a vedere, probabilmente si sentiva ancora molto scosso per come era finita con Damon.
D’altra parte sperava che la lontananza da lui gli avesse giovato: anche quelle poche volte che lo aveva scorto di sfuggita nei corridoi della scuola od anche solo incrociato il suo sguardo erano comunque state destabilizzanti per Corey, ognuna come una piccola pugnalata.
Non si erano più parlati dopo quella maledetta notte in cui Damon aveva stabilito di demolire il loro rapporto, non avevano mai avuto la possibilità di chiarirsi a mente lucida, almeno stando a quanto il suo amico gli aveva confidato. Una parte di lui desiderava farlo, ma poi era troppa la paura del suo rifiuto, o di metterlo in difficoltà, per trovare la forza di provarci. Quindi si era limitato a guardarlo da lontano, facendosi male, cercando di intuire dal suo volto quasi sempre impassibile quali fossero in realtà i sentimenti nel suo cuore.
Scott intuiva i momenti in cui Corey pensava a lui: lo sguardo diveniva nostalgico, la voce, se rispondeva di sfuggita alle sue domande, acquisiva una tonalità dolorosa, persa in tempi e luoghi lontani, in chissà quale esperienza vissuta insieme. Era evidente che sentisse ancora fortissima la sua mancanza, ed egli a quella consapevolezza non riusciva a fare a meno di provare ancora una grande rabbia dentro di sé, mista alla gelosia.
Ma ultimamente, appunto, quei momenti di malinconia erano divenuti sempre meno frequenti.
L’ultimo esame si era ormai concluso da un paio di settimane e pochi giorni prima erano stati affissi i risultati definitivi: il liceo era terminato per sempre e con esso il suo piccolo, gretto mondo di popoulars, ousiders, privilegiati, sfigati, bulletti, Ceer-Leaders e qualsivoglia categoria sociale rientrasse nel genere. Era la fine delle interminabili mattinate trascorse sui banchi troppo stretti per contenere l’euforia di sogni non più adolescenziali, la fine delle asfissianti ore di educazione fisica e di qualsiasi imposizione culturale, di quel mondo fatto soltanto di false apparenze. Davanti a loro si apriva uno spaventoso ed inebriante abisso di libertà, ed erano pronti a gettarvisi a braccia spiegate.
In quanto a sé, Scott si riteneva abbastanza fortunato ad essere stato promosso con novanta su cento, visto che da quando non dedicava più tante ore agli allenamenti gli era rimasto molto più tempo anche per studiare. Certo non si poteva affermare lo stesso per il povero Paul Richmond: come dimenticare il colorito livido-bluastro del suo volto quando aveva scoperto che Corey, al contrario di lui, aveva anche ottenuto la lode? Girovagava per tutta la scuola in preda all’ansia, affogando nel nebulizzatore ogni due parole e continuando a gridare: ― Non c’è alcuna giustizia, a questo mondo, i professori non sono altro che un branco di corrotti! Lui ha disertato le lezioni di ginnastica per cinque anni mentre io ho sempre fatto il mio dovere, e con questo mi ripagate?
Ed il bello era che quando era andato a lamentarsi in sala insegnati sul perché il suo compagno avesse infine ottenuto un giudizio migliore del suo, gli fu scherzosamente risposto: ― Perché Jones ha dei gran begli occhioni!
E forse, pensava Scott, quella risposta non si allontanava poi tanto dalla verità, a parte il fatto che Corey avesse indiscutibilmente una vivacità mentale di gran lunga più spiccata rispetto all’altro.
Per il resto le votazioni si erano rivelate più o meno mediocri: Mandy e la sua banda di smorfiosette avevano mantenuto alte le proprie reputazioni da somare senza avventurarsi al disopra del sessantacinque, Lena si era sforzata di trascinarsi al settanta, mentre Damon, con grande stupore e delusione di tutti (specie del padre, probabilmente, anche se mai avevano udito voci in proposito), dopo cinque anni con una media dell’otto non aveva ottenuto più di settantaquattro.
Non era sua intenzione ipotizzarlo in senso esplicito, ma Scott si chiedeva se in quel calo disastroso non avesse messo lo zampino proprio la fine della sua storia con Corey, sapendo d’altronde che nel momento in cui lo aveva lasciato era in realtà ancora innamorato di lui. In tal caso si stupiva nel constatare come al contrario per il suo amico dai capelli rossi, che certo aveva sofferto almeno con pari intensità, tale evento non avesse influito minimamente nel rendimento scolastico.
Ora che erano iniziate le vacanze estive, d’altronde, Corey gli pareva davvero più sereno.
Avevano trascorso insieme moltissimo tempo, in quelle ultime settimane, interi pomeriggi facendosi compagnia a vicenda e chiacchierando di svariati argomenti, da quelli impegnati alle stupidaggini più scherzose. Talvolta aveva l’impressione che i dialoghi cui Corey era abituato con Damon fossero di carattere meno ‘distensivo’, ma qualcosa gli diceva che anche per lui erano ormai scaduti i tempi del grande tormento.
Tra loro parlavano di cose molto più reali, e Corey si era finalmente confidato con lui non solo riguardo a Damon; gli aveva raccontato anche di sua madre, del rapporto conflittuale che vigeva tra loro e soprattutto di ciò che ne era stata la causa, da lui scoperta solo di recente. Gli aveva fatto capire come si sentisse di fronte a tale consapevolezza, del rancore finalmente attenuatosi nei confronti di lei lasciando spazio al vuoto dello spossamento: non poteva incolparla di detestare ciò che le aveva portato via l’amore, affermava, poiché non si sceglie volontariamente di provare simili sentimenti. In un certo senso, dunque, l’aveva perdonata, accettando il definitivo, incolmabile divario tra loro.
Inoltre gli aveva parlato anche di Steven e degli altri amanti che aveva avuto, anche le storie di una notte soltanto e di come si sentisse compiaciuto ma anche un po’ oppresso dal proprio aspetto fisico. Gli aveva, insomma, aperto il suo cuore molto più di quanto non avesse fatto con qualunque altra persona.
Conoscendolo ora in modo così profondo, Scott si era reso conto di cominciare ad adorare la sua compagnia sul piano intellettuale almeno quanto su quello fisico, giacché, nonostante sulle prime Corey sembrasse pungente e scontroso, talvolta addirittura acido, se si era tanto sagaci da abbatterne le barriere ed accarezzare il suo animo diveniva un compagno adorabile, persino affettuoso, col quale veniva spontaneo sentirsi a proprio agio.
Ora che erano divenuti amici non avrebbe saputo separarsene per nulla al mondo, seppur costretto a disgiungere l’amore passionale da quello psichico, perché Corey era il suo nettare, era il suo miele, il suo tutto.

La casa era tutta per loro, coi suoi immensi saloni in perfetto ordine ed i pavimenti rischiarati dagli ultimi raggi del sole. Appena arrivati, i due ragazzi si avviarono direttamente nella camera al piano superiore, abbandonando gli zaini a terra e gettandosi sul letto ancora sfatto dal giorno prima: Scott spaparacchiato in trasversale in un sospiro di liberazione e Corey seduto più compostamente contro la spalliera.
Dopo un paio di minuti il moro si riscosse, di nuovo pimpante, si tirò su puntellandosi sul gomito e chiese: ― A te non è venuta una certa fame?
― Ma Scott, abbiamo mangiato da appena un quarto d’ora!
― Mh, sarà che a me non è andato neanche nella carie di un dente. Beh, allora beviamo, va’. ― Così dicendo sgattaiolò fino al minifrigo, ne estrasse due bottigliette di limonata ed andò a sedersi al suo fianco porgendogliene una.
Presero qualche sorsata, rilassati nel silenzio placido della stanza.
― Sei stanco? ― domandò Scott guardandolo con dolcezza.
― No, è stata una giornata divertente. ― Corey si voltò verso di lui e lo scrutò enigmatico per alcuni istanti, l’espressione tenera nei chiari occhi azzurri. Ed infine seriamente mormorò: ― Scott, tu mi vuoi bene?
L’altro si sentì rimescolare dentro, ma trovò comunque il coraggio di rispondere con voce ferma: ― Che domande… mi chiedi se il mare è pieno di acqua? Certo che ti voglio bene. Ti voglio un bene infinito, ma non solo. Tu lo sai, io ti amo.
La reazione di Corey fu strana, per quanto quasi impercettibile. Come un ragazzino imbarazzato abbassò leggermente lo sguardo ed a Scott quasi sembrò che i suoi zigomi si imporporassero in modo lievissimo. Ma forse era solo una sua impressione, forse non era che l’effetto della luce filtrata dalle persiane.
Neppure si rese conto di essersi avvicinato a lui, di averlo stretto con un braccio dietro la schiena appoggiando le labbra alle sue per la seconda volta nella sua vita. Ma ora c’era di differente che non veniva affatto scostato e poteva finalmente assaporare il suo momento di perfezione assoluta. Le labbra di Corey non erano come le ricordava, non erano come le aveva sempre immaginate nelle sue fantasie erotiche. No, erano mille volte più sublimi di qualsiasi aspettativa: fresche, morbide… deliziose.
Approfondendo il suo bacio le esplorò con la punta della lingua disegnando la linea fine del contorno e provandone anche in tal modo l’estrema sensualità. Si sentiva famelico come un assettato ad una fonte sgorgante, voleva bere tutto dalla prima all’ultima goccia. Già quel contatto non bastava più e sentì il bisogno di abbracciarlo più strettamente, attirarlo contro di sé, carezzargli la schiena, intrufolargli le dita sotto i vestiti, ricoprire ogni lembo di pelle nuda. Ma si costrinse a frenare almeno parzialmente quella valanga di impulsi.
Corey non si sottraeva al suo bacio, anzi sembrava accoglierlo con trasporto aggrappandoglisi con le mani alle spalle, quasi artigliandogli la maglietta in una tacita richiesta di amore, affetto, protezione. E cosa mai non gli avrebbe dato, lui? Tutto, Scott era pronto a dargli tutto ciò che desiderava, a consacrargli la vita stessa. Quasi non ci credeva, gli sembrava ancora un bellissimo sogno, tanto che volle aprire gli occhi per accertarsi che non lo fosse, per confermarsi che ogni sensazione era reale e tangibile, per vedere il volto del suo amore appiccicato al proprio mentre si abbandonava alle carezze della sua lingua.
Mano a mano approfondiva il contatto, sempre più affamato, esplorava curioso la sua dolcissima bocca permettendogli di fare lo stesso e sentendosi solleticare l’interno delle labbra. Qualsiasi sensazione si intensificava a tal punto da ripercuotersi in ogni sua cellula e focalizzarsi più in basso, in mezzo alle cosce, dove la sua eccitazione era salita in pochissimi secondi fin quasi a divenire dolorosa contro i jeans ormai stretti.
Ah, voleva di più! Neppure la bocca ora gli bastava: staccò le labbra e le spostò sopra il collo leccando e succhiando, a tratti mordicchiando. Dalla spalliera scivolarono distesi di traverso tra le lenzuola stropicciate.
Voleva che tutto fosse perfetto, ora che stavano chiaramente per fare l’amore, perciò cercò il più possibile di controllare quel respiro già affannoso e l’erezione che picchiava crudele la lampo; sollevò un attimo il volto per incontrare lo sguardo di Corey già languido, pregno di una qualche aspettazione, e le sue labbra arrossate non fecero che eccitarlo ancor più. Gli sollevò la maglietta per aiutarlo a sfilarla, ma poi non fece di meno di gettarglisi addosso di nuovo.
Dal collo scese lungo il petto lasciandosi dietro una scia di saliva, percorrendo con le dita il suo addome flessuoso e la vita così sottile da dargli l’impressione di maneggiare qualcosa di prezioso e fragile come cristallo purissimo, passò la lingua sopra i capezzoli rosei, li succhiò uno per uno e proseguì lungo l’armoniosa forma della spalla destra, dove in effetti incontrò più ossa che altro, ma che amò come tutto il resto del suo splendido corpo.
La sua pelle aveva un profumo delizioso ed un sapore ancora più dolce, mentre la assaporava avvertiva compiaciuto i piccoli sospiri di Corey sotto di lui e le sue mani stropicciargli i vestiti nel tentativo di sfilarglieli. Lo accontentò subito: tolse la maglia e la gettò sul pavimento, tornando sopra di lui pelle contro pelle, i capezzoli si sfiorarono gli uni con gli altri e trovò che i loro due corpi uniti, della stessa natura eppure anche molto dissimili, formassero assieme una combinazione bellissima.
Era la prima volta che andava con un ragazzo, ma non si sentiva strano, non più di tanto, almeno: perché quello non era uno qualsiasi, era il suo Corey… e per lui era l’unico, ora che ci pensava. In fondo lo era sempre stato.
In quel mentre anche l’altro iniziò ad accarezzare Scott, sorridendogli un po’ malizioso, fino ad adagiare la mano sul bottone dei suoi pantaloni e slacciarglieli scaltramente in pochi movimenti, facendolo avvampare. Ancor prima di toglierli a lui, continuando a fissarlo negli occhi, portò la mano sui propri e se li sfilò sensualmente lungo i fianchi stretti e le gambe affusolate.
Scott restò immobile ad ammirarlo per alcuni secondi, il volto accaldato. Tornò a chinarsi ghermendogli nuovamente la bocca nella propria, mentre il suo amante terminava di liberarlo dall’indumento. Corey lo accarezzò tra le cosce fino a salire all’inguine, disegnò movimenti stuzzicanti con le dita fino a posargliele proprio sul membro ormai al limite della durezza. Lo prese in mano delicatamente e passò il pollice sopra il glande con movimento circolare.
Scott stava sopra di lui, sospirante e sudato, puntellandosi su un gomito per non gravargli col proprio peso e con l’altra mano cercando la sua schiena abbracciandolo, nell’irrazionale desiderio di racchiuderlo tutto in una sola stretta. E poi…
Poi non riuscì più a trattenersi. Fu attraversato da una scarica di piacere ed eiaculò sulla mano di Corey come un bambino senza esperienza.
Avrebbe voluto morire. Avrebbe voluto che il pavimento gli si aprisse sotto per inghiottirlo per sempre, ed in un attimo rivisse l’incubo della sua prima volta con quella ragazzina che all’apparenza sembrava tanto simpatica e spigliata ma che poi l’aveva preso in giro per una settimana di fronte alle amichette chiamandolo ‘il frettoloso’, con una crudeltà venefica come poche, e rincarando di molto la sua dose d’imbarazzo.
― I-io… m-mi dispiace… scusa… ― biascicò indignitosamente, neanche fossero state le sue prime parole. In un milione di anni non avrebbe saputo spiegare la vergogna che provava.
― Non ti preoccupare, Scott, ― gli disse calmo Corey, carezzandogli il viso con l’altra mano, e lo accostò a sé per baciarlo con maggiore dolcezza di prima.
― È che ero molto…
― Sì, lo so. ― Gli passò le dita fra i capelli e continuò a baciarlo.
Dio, quanto si sentiva frustrato! A parte il suo primo tentativo di amplesso a sedici anni, fallito a causa dell’ansia da prestazione, non gli era più capitato di trovarsi in una situazione simile… con la differenza che ora gli era accaduto per l’eccessiva foga con cui desiderava congiungersi a lui. Dopotutto era tanto, davvero troppo tempo che aspettava quel momento, e la tensione erotica accumulata in quei mesi (anzi, no, anni!), si era sprigionata tutta d’un colpo.
Senza contare che quel miserabile orgasmo precoce lo aveva lasciato insoddisfatto, ancora un po’ semirigido, poiché giustamente non bastava per liberare ciò che sentiva dentro.
Avvertendo il piacere provocatogli dalla coscia di Corey che gli strusciava lasciva in mezzo alle gambe, pensò che in fin dei conti si trovavano appena all’inizio. Allora riprese a baciarlo e ad esplorare il suo corpo: la linea armonica della schiena, i glutei compatti, la sua pelle chiara e levigata come crema gli ricordava le caramelle alla fragola che gli piacevano da bambino, morbide e profumante.
Corey gli afferrò la mano portandone le dita tra le labbra, dapprima baciandole, poi iniziando a leccargli l’indice e il medio, suggendoli, lasciandovi piccoli strati di saliva. Scott trattenne il respiro, inebriato dal sottile piacere provocatogli anche da quel semplice gesto: impiegò alcuni minuti per comprendere che esso aveva uno scopo e provò ancora vergogna, immaginando quanta esperienza avesse Corey più lui, almeno per quel tipo di sesso.
Non appena le sue dita furono ben bagnate, Scott si posizionò a cavalcioni su di lui, con una coscia di Corey tra le proprie e l’altra stretta in vita, e provò lentamente ad intrufolare il medio nella fenditura tra le sue natiche, penetrando con la punta attraverso il piccolo e caldo anello di muscoli, e lo spinse un poco, vincendone la lieve resistenza e sollevato dal fatto che il suo amante, a giudicare dal modo in cui gli succhiava il collo, sembrasse non provarne il minimo fastidio. Da ciò incoraggiato introdusse anche il secondo, avvertendo ora dei piccoli mugolii soffocati contro la propria pelle, che non riuscì a comprendere fossero di piacere o dolore.
Corey si staccò da lui ribaltando gentilmente le loro posizioni e lo fece stendere sulla schiena, lasciandogli sfilare insieme entrambe le dita. Vedendolo ora Scott poté notare come anche lui fosse ormai ampiamente eccitato, ma quando fece per sfiorare la sua erezione l’altro gli bloccò la mano con un mezzo sorriso, ponendoglisi invece fuori portata, il volto in prossimità del suo membro già di nuovo svettante. Iniziò con qualche leccatina tanto per stuzzicarlo, poi ne prese l’estremità in bocca succhiando quasi compostamente, carezzandolo con la lingua in un modo che lo fece impazzire e gemere ad alta voce. Mosse le gambe, incontrollate, piegando o distendendo il ginocchio, tra i sospiri veloci. Aveva raggiunto in pochi minuti un’eccitazione pari alla precedente, se non maggiore, ma questa volta era deciso a dominarla.
Intanto Corey lo accarezzava intorno, nel mezzo dei glutei fino ai testicoli, prendendoli in mano con delicatezza. Neppure quello gli bastava più!
Con la vista appannata ed il respiro a mille, prese fermamente la spalla di Corey e lo scostò da sé, lo spinse supino dall’altra parte del letto, si fece passare una sua gamba attorno alla vita e lo penetrò fino in fondo con poche, energiche spinte.
― Ah-aahh! ― Corey reagì con un piccolo grido, arpionandogli le spalle fin quasi ad infilarvi le unghie.
― Scusa! ― sospirò Scott assestandosi un poco dentro di lui.
― Di nulla. ― Gli cince il collo con le braccia, aggrappandoglisi. ― Avanti, continua.
Come farselo ripetere ancora? Gli accarezzò l’interno di una coscia, umido e caldo, per allargargliela, e gli strinse le mani sui fianchi portandolo verso di sé. Dapprima si mosse sfilandosi un poco, per poi spingersi ancora dentro con un colpo di reni, il più a fondo possibile. Ed ancora incapace di trattenersi spinse… spinse e spinse cercando diverse angolazioni, arretrando e poi rimettendolo, ma senza mai staccarsi del tutto.
Fece passare un braccio sotto la schiena di Corey e lo attirò a sé, cercando intanto con l’altra mano la sua erezione tra i loro corpi ed imprimendovi lo stesso ritmo con cui si muovevano. Chinò il volto sul suo per guardarlo negli occhi mentre si congiungevano, incontrare il suo sguardo appannato e le sue labbra umide dischiuse in piccoli ansiti e gemiti. Non fece a meno di impossessarsene ancora, con impeto appassionato, facendolo suo in ogni modo possibile, mentre il suo amante sollevava il bacino verso di lui per andargli incontro, mugolando sensuali sospiri per il piacere dei primi bagliori orgasmici.
La mano di Scott fece appena in tempo a salire lungo la schiena di Corey e perdersi tra i suoi capelli di seta prima che egli avvertisse una scarica del suo secondo orgasmo travolgerlo, immediatamente seguita da un’altra ancor più potente, tanto che quasi smise di spingere, paralizzato dal godimento, mentre il suo sperma fluiva nel caldo corpicino del ragazzo sotto di lui. Corey gemette eccitandolo all’inverosimile, provocando così la sua definitiva liberazione: il piacere e la tensione si dileguavano in mille luccichii baluginanti di fronte ai suoi occhi accecati.
Sentì venire anche lui, un po’ tra le sue dita e tra i loro petti, in gemiti convulsi.
Crollò stremato sulla sua spalla, deponendovi un bacio. Come erano dolci quelle lenzuola dove avevano giaciuto insieme! Era appena finito ma già provava il desiderio di farlo di nuovo: lo avrebbe fatto altre mille volte in un giorno solo.
Superato lo stordimento iniziale si sfilò via da lui, lentamente per non fargli male, si posizionò al suo fianco stringendolo a sé ed incrociò le gambe alle sue carezzandogliele col dorso del piede. Corey lo guardò con un mezzo sorriso, accettando di appoggiare la testa sopra il suo braccio.
― Ora posso morire felice, ― mormorò Scott, la voce ancora un po’ roca ed un sorriso beato. ― Ammesso non sia già successo: in alcuni momenti credevo davvero che avrei avuto un infarto.
― Sarebbe triste se morissi, visto che ancora lo abbiamo fatto una sola volta.
― Che bello è stato… ― Gli accarezzò il fianco, ora con più tenerezza, a mo’ di coccole, e lo baciò amalgamando dolcemente le loro salive. ― Anche se io sono stato un disastro e ti chiedo perdono. Cosa pensi di me, che sono un incapace o un animale?
Corey non riuscì a trattenere una risatina. ― Nessuna delle due.
― Mi sarebbe di lezione una delle tue frecciatine, in questo momento, così imparerei a controllarmi prima di… ― lasciò la frase in sospeso, come inibito da un bizzarro pudore.
― Scoparmi? ― Ecco, lui al contrario non aveva peli sulla lingua.
― …senza neppure chiedertelo.
― Ah-ah! E cosa credevi che mi aspettassi, scusa?
― Ma ti ho fatto male!
― Naahh, solo perché era da tanto che non lo facevo. ― Lo guardò intensamente mentre il risolino trasfigurava in un sorriso più dolce, incantevole… forse un po’ malinconico. Accostò il volto al suo collo come volesse fondersi in esso, baciandolo lieve. ― Anch’io ti voglio un gran bene, Scott. Davvero tantissimo.
Non era come sentirsi dire ‘ti amo’, ma in quel momento gli bastò pienamente e provò un’immensa gioia di fronte a tali parole.
― Chi mai avrebbe creduto saremmo finiti così? ― gli chiese poi Corey sollevando lo sguardo. Ah, com’era bello quando sorrideva: il suo viso si illuminava come un fiore che schiude i petali. Ogni volta era uno spettacolo giacché non accadeva che raramente. Scott era convinto di averlo visto sorridere più durante quegli ultimi tre minuti che in una vita intera.

Non aveva mai trascorso un’estate più bella, dacché ricordava. E l’esperienza di quella sera non era rimasta un avvenimento isolato, ma si era ripetuta molte altre volte, sempre più intensa ed appagante.
Erano divenuti amanti, si poteva dire, anche se non lo avevano mai chiarito esplicitamente, ma questo non gli sembrava poi così importante di fronte alla natura del loro rapporto, ed a Scott piaceva pensare a Corey proprio come al suo ragazzo. Gli aveva fatto capire di essere disposto a mettere tutto alla luce del sole e di rivelarlo a suo padre, qualora ciò fosse stato necessario, perché non solo non si vergognava del loro amore, ma ne andava estremamente fiero: tanto che talvolta avrebbe desiderato portarselo in centro mano nella mano, alla faccia delle occhiatine biasimevoli e consapevole che in realtà tutti lo avrebbero invidiato perché quella creatura bellissima aveva scelto lui e lui soltanto.
Corey aveva inoltre approfondito conoscenza con gli amici di Scott: erano persino partiti insieme per una breve vacanza, ed anche se egli si fingeva geloso del fatto che il suo compagno avesse stretto fitta comunella col francesino, in realtà sapeva che si trattava solo di profonda amicizia, ed anzi ne era felice perché non sopportava più di vederlo solo. Lui stesso, nel contempo, oltre che ad ammirarlo per la sua intelligenza sentiva di volergli bene non solo come amante, ma anche come amico.
Gli aveva giurato che non lo avrebbe lasciato mai e che sarebbe stato sempre e solo per lui, in qualsiasi momento. E di fronte alla consapevolezza di ciò provava un appagante senso di orgoglio, sentendosi molto meglio anche con se stesso.
Sì, poteva finalmente dichiarare che i tormenti del suo passato erano svaniti e che ora si sentiva pienamente felice.

* * *
― Ti va anche la mia? ― chiese Corey rimescolando svogliatamente la forchetta nel mezzo piatto di spaghetti davanti a sé.
Scott rispose con un grugnito. ― Con solo quelle tre gocce d’olio? Quale insipienza… e vabbè, dammi qua, ci aggiungo un po’ di peperoncino.
Si trovavano seduti di fronte al piccolo tavolo della cucina, illuminati dall’ambrato chiarore del lampadario sopra le loro teste, mentre dalla finestra baluginavano i luccichii della città sotto un limpido cielo bruno.
― Se poi hai più fame c’è lo sfilatino ancora intatto: con un etto di prosciutto dovrebbe bastarti.
― No, meglio di no, ― ribatté serio Scott, senza rendersi conto che l’altro gli aveva in realtà indirizzato una battutina condita da un malcelato sorrisetto. ― Sai, ho messo su un paio di chiletti da quando ho smesso di fumare.
― Quello è perché mangi come un bufalo. Ma comunque non ti si vede, e anche se fosse… ― gli disse, questa volta sinceramente, ― così stai benissimo.
L’altro sorrise tutto gongolante. ― Per il dopo-cena ho comprato i muffins, ― annunciò mostrandogli il pacchetto.
― Per colazione, vorrai dire.
― Sono quelli alla marmellata di ciliege che piacciono anche a te!
― Domani prometto di assaggiarli. ― Corey si alzò dal tavolo prendendo in mano i due piatti vuoti e portandoli al lavandino. ― Lo sai… ― aggiunse mormorando, ― che preferisco farlo a stomaco mezzo vuoto.

Scott si offrì di riassettare la cucina mentre l’altro era impegnato nella stesura del suo nuovo articolo, dopodiché lo raggiunse in camera e gli sedette accanto sul letto. Corey spense il computer e lo adagiò con infinita cura sopra il comodino alla propria destra. ― Sono a buon punto, ― considerò soddisfatto, sostituendo la luce principale col bagliore più intimo dell’abatjour.
― Mi fa piacere.
― Tuo padre sa che dormi qui da me?
Scott annuì. ― Glielo ho detto appena l’altro giorno… di noi due, intendo.
Il suo ragazzo lo guardò basito, un’ombra di preoccupazione negli occhi. ― Avrà dato di matto!
― No, somigliava più ad una statua di sale. ― Strinse le spalle con noncuranza. ― Per me può cuocersi nel proprio brodo: ormai sono adulto e vaccinato, e poi comunque lui ha faccende più interessanti di cui occuparsi, tra i suoi affari e le fidanzate. Da quando è morta mia madre sono certo che non gli importi più nulla di me, quindi non ha infierito più di tanto. Era solo ferito nell’orgoglio come ogni virile maschio che si rispetti. Per il resto viviamo allegramente separati.
― Questo non ti fa male? ― mormorò Corey, tornando per un attimo con la mente ad Alison.
― No, non più di tanto: ho imparato a trovare l’affetto al di fuori della mia famiglia e mi riesce magnificamente, ― gli rispose con un sorriso, accostandosi per baciarlo.
In pochi minuti se ne andarono gli abiti ed anche ogni minimo senso del pudore, ed essi si trovarono amalgamati come quasi ogni sera accadeva.
Corey non avrebbe mai immaginato che l’intesa sessuale tra loro si rivelasse tanto appagante: Scott era molto dolce con lui, ma allo stesso tempo anche pieno di passione e con la giusta dose di irruenza, o almeno quella che lui apprezzava tra le coperte. Non poteva non riconoscere di sentirsi accanto a lui molto più equilibrato, benché talvolta quasi gli paresse strano sperimentare tutta quella stabilità in un rapporto amoroso, senza più tormenti, senza frustrazioni. Come fosse mancato qualcosa.
Ma era pienamente convinto di riuscire a prendervi la mano.

La notte, disteso accanto a Corey tra le lenzuola sfatte ed ancora calde del loro ultimo amplesso, a Scott piaceva osservare il proprio amante appena scivolato nel sonno, il capo addossato contro la sua spalla, come un piccolo cupido dormiente. Il latteo chiarore che entrava dai vetri si specchiava sulle increspature dei suoi riccioli e sul volto pallido rendendolo simile ad una perfetta, incantevole statua di alabastro.
Avrebbe trascorso ore solamente contemplandolo nella quiete di quella stanza che era il loro nido, appoggiando la testa alla mano, lasciandosi cullare dal ritmo placido del suo respiro. Uno dei suoi più grandi desideri sarebbe stato andare a vivere insieme e glielo aveva anche proposto più di una volta, ma Corey aveva sempre rifiutato anche solo di considerare l’iniziativa perché, diceva, ora che era riuscito a conquistarsi uno spazio tutto per sé non avrebbe sopportato di separarsene. Tuttavia le sue parole avevano lasciato trapelare la possibilità che in futuro cambiasse idea e potessero riparlarne.
Per il momento Scott abitava ancora col padre (anche se solo per modo di dire, visto che la casa era abbastanza grande perché non si incontrassero mai), ma nessuno impediva loro di stare insieme per tutto il tempo che desideravano o di trascorrere le notti a fare l’amore, come era appena accaduto. Corey gli aveva persino lasciato una copia delle sue chiavi.
Ora che si era allontanato da sua madre la vita scorreva molto più felice per entrambi: sembrava che Alison si fosse notevolmente addolcita ed avesse iniziato a trovare il tempo per essere più presente anche con sua figlia, che infine aveva abbandonato l’ipotesi di andare a vivere con il padre. Martin si era sposato con Sara alla fine di giugno e le due avevano anche preso parte alle nozze: i rapporti, bene o male, sembravano essersi mitigati.
Naturalmente Alison e Corey non si erano più visti dal giorno in cui il ragazzo aveva caricato in macchina le valigie dopo appena una settimana che le aveva annunciato di andarsene via di casa. La madre lo aveva osservato a braccia conserte sul piazzaletto con sguardo indecifrabile, senza battere ciglio od anche solo augurargli ‘buona fortuna’. Da allora pareva voler dimenticare di aver avuto un figlio e ci stava riuscendo: il suo comportamento era di gran lunga più sereno e meno frenetico, aveva smesso di muoversi a scatti e nella loro casa tutto sommato regnava un’atmosfera più rilassata.
Solo talvolta lo sguardo della donna sembrava perdersi in riflessioni più meste, specie durante le notti di pioggia, quando tornava a considerare l’intero arco della propria vita ed il modo in cui si era svolta, colma di rimpianti e frustrazioni. Sentiva, com’era ovvio, la mancanza di Corey, ma sapeva anche che era una nostalgia insana, molto più legata all’attrazione fisica che non all’affetto per un figlio, poiché, come un tempo vederlo le provocava vergogna e dolore, tuttora il pensiero di lui le suscitava le medesime sensazioni.
Britney non aveva mai compreso i motivi che dettavano il loro distacco, pur intuendone il bisogno assoluto che ne avevano entrambi. Da parte sua andava spesso a trovare il fratello, accompagnata dal padre o da sola in autobus, visto che mai avrebbe rinunciato alla sua compagnia e nonostante in un primo momento non avesse accettato di buon grado il suo allontanamento. Era scoppiata in lacrime tenendogli il broncio per giorni, ma infine non aveva potuto che rimettersi alle sue decisioni.
Ed in fondo quello era un compromesso che aveva sistemato un po’ tutto.

La mattina seguente Scott, intravedendo con gli occhi appannati la sveglietta che segnava le sette e un quarto, biascicò stancamente qualche mugugno di disapprovazione a riguardo del fatto che fosse troppo tardi per fare sesso prima di alzarsi.
― Perché, a che ora hai lezione? ― gli chiese Corey con voce assonnata.
― Alle otto, questa mattina, accidenti a quel vecchio e a tutti i suoi dialoghi platonici! Non potevo scegliermi un corso che cominciasse alle quattro del pomeriggio?
― Non avete il quarto d’ora accademico? ― Domanda pleonastica: anche se non c’era gli studenti se lo prendevano comunque. ― Avanti, ti do un passaggio.
Corey fu il primo ad alzarsi, strappando via la coperta dal letto in un sol colpo e facendo piagnucolare il compagno che lo accusò di sadismo, nudo nel clima non più benevolo dell’autunno.
― Vedi di non metterci tre ore, in bagno, come fai di solito. Il tempo di preparare la colazione e poi la doccia è mia!
― Da che mondo è mondo sei tu quello che mette casa in bagno! ― gli sbraitò dietro l’altro mentre Corey già scompariva in cucina.
― Per questo voglio che vada prima tu.
Fecero colazione con muffins e caffè, dopodiché partirono in tutta fretta, non tanto per Corey che non doveva trovarsi in libreria prima delle nove, ma per evitare a Scott il solito cicchetto dal quasi ottantenne professore di Filosofia Antica che teneva ancora al decoro della puntualità.
Nonostante gli intoppi arrivarono davanti alla facoltà in orario perfetto e, prima di scendere dall’auto, Scott lo accarezzò dietro la nuca attirandolo a sé in un impetuoso bacio.
― Ma cosa ti viene in mente, qui di fronte a tutti?! ― fu la reazione del suo ragazzo, in verità non poi tanto indispettito.
― Non ti avevo ancora salutato come si deve questa mattina, ― gli sussurrò dolcemente. ― E poi che vedano, sono certo che per me provino un’invidia folle. ― Ed aggiunse, sul punto di congedarsi: ― Beh, grazie mille e buona mattinata. Ci vediamo a pranzo.
Corey lo guardò varcare il grande portone ancora salutandolo con la mano, dopodiché cercò di ripartire evitando di mettere sotto tutti quegli odiosi studenti che camminavano in mezzo alla strada intralciando il traffico, sentendosi orribilmente bersagliato dalle loro occhiatine languide.
Mentre guidava sulla strada del lungomare, si sentiva vagamente nostalgico. Lasciò lo sguardo vagare un po’ assorto nella fredda luce del mattino verso le baie assolate, il mare già burrascoso a dispetto della giornata che, se non per una passeggera foschia, prometteva quella tipica e pallida limpidezza di ottobre.
Era tutto calmo, intorno, nessun’auto o bicicletta ad incrociare il suo cammino: solo qualche casalinga che si affacciava alle ringhiere per sventolare coperte o stendere gli abiti durante il riassetto quotidiano. Lasciando i finestrini abbassati poteva respirare l’aria fine e pungente di quelle prime ore del giorno, pregna del profumo della salsedine.
Persino la spiaggia era ovviamente deserta. Tutta la calca estiva pareva svanita con l’evaporare degli ultimi caldi ed essa aveva riacquistato il suo aspetto di decadenza, come un fiore sfruttato dall’insetto e subito abbandonato.
Quando poi volse gli occhi a sinistra, come ogni volta che transitava per quella strada, si trovò di fronte la splendida villa dalle finestre gotiche ed il grande giardino, e nella sua mente si riaffacciò una miriade di ricordi tenerissimi che ancora gli suscitavano grande affetto. Aveva spesso lanciato un’occhiata verso il balcone affacciato sul mare, ma non vi aveva più scorto la figura che l’anno precedente gli era invece divenuta così familiare.
Avrebbe benissimo potuto scegliere il tragitto più breve e raggiungere in pochi minuti il suo posto di lavoro, benché fosse ancora presto, ma qualcosa lo aveva spinto a percorrere quella strada, forse il fatto che in quel periodo dell’anno riaffioravano in lui involontarie memorie sopite dall’estate.
Poche barche malandate ondeggiavano nell’insenatura porto, ove poco più avanti si stagliava il vecchio faro ormai inutilizzato che aveva funto da meta a decine delle loro passeggiate. Come poteva non omaggiare di un tacito saluto o di uno sguardo benevolo quel luogo che a sbalzi era stato complice del loro amore?
Nell’osservarlo tuttavia con la coda dell’occhio individuò la presenza di qualcuno nell’immensa distesa di sabbia, accanto al grande torrione. Per poco l’auto non gli sbandò nella corsia opposta, fortunatamente ancora libera. Subito la fermò col cuore in gola al primo slargo, attraversò la strada di corsa e si precipitò sulla spiaggia, il lungo ed avvitato cappotto scuro sventolante alla brezza salmastra.

Se ne stava in piedi di fronte all’immensa distesa marina con una sigaretta tra le labbra, a fissare le onde dalla cresta spumosa. L’oceano di un verde opalino si specchiava nei suoi occhi persi nel lontano orizzonte, lo sguardo a misto tra l’impassibile ed il malinconico.
― Dovresti smettere. Lo sai che ti fa male, ― si sentì apostrofare alle spalle, mentre il suo cuore aumentava di un battito.
Non ebbe neppure bisogno di voltarsi: quella voce da sola bastava per fargli accelerare il respiro, scucire nella sua anima mille ferite e spalancare un’immensa porta di ricordi, sensazioni, profumi, rumori, spezzoni di dialoghi, alcuni dolcissimi ed altri più amari. Una sola voce per lasciarlo basito e col cuore in gola, indeciso se guardarlo ed infrangere in un attimo qualsiasi barriera oppure fuggire via, più veloce e lontano che poteva, fingendo che quelle parole non fossero che una burla della sua fantasia.
Contro ogni ragione, si trovò invece ad assecondare il desiderio d’incontrarlo ancora una volta: non per uno sguardo sfuggevole, ma per un nuovo faccia a faccia, dopo mesi di silenzio, l’ennesimo tassello della loro perpetua conversazione.
Si voltò lentamente verso di lui, dapprima quasi sfuggente, osservandolo con la coda dell’occhio come se la sua luce avesse potuto accecarlo. Dio… quanto sembrava tutto dannatamente vicino! Tanto da fare male, un male incredibile.
― Ciao. ― Corey avanzò un poco sorridendogli con dolcezza, muovendo nervosamente le mani nelle tasche. Si fermò a pochi passi da lui, volgendosi anch’egli verso l’oceano dinnanzi a loro. ― Non sembra cambiato di una virgola, vero?
Damon non riusciva a spiccicare parola, continuando a scrutarlo pieno d’inquietudine e rimpianto. Il volto, dapprima attraversato da una maschera cerea, aveva ora assunto un intenso rossore sopra gli zigomi. Lasciò che la sigaretta gli scivolasse dalle dita, dileguandosi tra i flutti salati del bagnasciuga.
― Sì, ― si trovò a biascicare, la voce flebile come se anch’essa desiderasse restarsene al chiuso nella gola. ― Non perderà mai il suo fascino oscuro.
Averlo di nuovo accanto sortiva in lui un effetto molto più distruttivo di quanto avesse mai osato immaginare. La sua pelle di perla, le sue labbra e soprattutto quei capelli… si costrinse a non ammirarli, a volgere l’attenzione di fronte a sé.
― Sembra incredibile, ― mormorò Corey giocherellando con la punta di una scarpa nella sabbia bagnata, ― che questo sia l’ultimo luogo in cui abbiamo fatto… ― Lasciò le parole in sospeso, avvertendo l’imbarazzo d’altro. ― Credo che questo faro abbia assistito a tutto di noi, dall’inizio alla fine. Se avesse delle mani per scrivere ed un cervello per comprendere, racconterebbe la nostra storia come se fosse un romanzo. Per questo inconsciamente passavo di qui, perché mi tornava in mente di noi, di quando iniziavamo a conoscerci. Era più o meno in questo stesso periodo, ricordi?
Damon annuì lievemente.
― Ma non credevo avrei trovato anche te. Ti piace ancora camminare a piedi nudi in spiaggia anche con questo freddo, vedo, ― constatò notando i suoi jeans rovesciati fino a metà polpaccio e le scarpe poco lontano, decisamente differenti dagli stivaletti che era solito vedergli addosso.
Si era anche tagliato i capelli, in effetti, ma non poi tanto: appena fin sopra le orecchie, e sembravano anche molto più lisci. Ma nel complesso non gli stavano male. Era solo triste pensare come ora cercasse di incarnare l’ideale dettato da suo padre, riaccendendo in un attimo in Corey tutto l’odio sopito nei confronti di quell’uomo. ― Come ti senti? ― mormorò piano, appena udibile sopra lo scrosciare del mare.
― Mi trovo qui, ― rispose con difficoltà, ― per lo stesso motivo, credo.
Corey non riusciva a fare a meno di incantarsi a guardarlo, ora che riscopriva ogni lineamento del suo volto, il suo modo di parlare, la sua voce così simile ad una carezza, anche la più banale espressione e tutti quei particolari più o meno insignificanti che avevano contribuito a farlo innamorare di lui.
― Come va la tua vita, ora? ― continuò a chiedergli pur sempre con discrezione, le labbra piegate in un sorriso sincero con l’intento di fargli capire che ormai non soffriva più per come era finita tra loro.
Damon infatti incontrò finalmente il suo sguardo, all’apparenza più calmo. ― Come deve, ― fu la risposta. ― Non va affatto male, invece. Ah, vediamo… alla fine mi sono iscritto davvero alla facoltà di Legge. ― Sorrise nervosamente. ― Credevo di cavarmela peggio: in fondo il corso di preparazione che ho frequentato durante l’estate doveva pur servire a qualcosa.
― Tuo padre ora è fiero di te?
― Cosa?
― È fiero di te come volevi?
― Beh… non saprei. L’esame di maturità non è andato come speravamo, ma probabilmente, se ora mi impegnerò a fondo…
― Capisco. E i tuoi quadri… dipingi ancora?
Scosse il capo lievemente. ― No, sto cercando di smettere, e per fortuna ho trovato il tempo di sgomberare e far ridipingere la stanza. Beh, diciamo, ― arrossì un poco, come fosse motivo di vergogna, ― che qualche volta ancora lo faccio, ma raramente.
― Ne parli come se fosse una droga.
― Infatti per me lo è, mi sto disintossicando.
― Beh, quando ti va di dipingere puoi venire da me: te lo lascerei fare quanto vuoi e mi farebbe piacere avere i tuoi quadri in giro per casa. ― Si trattava di una proposta seria, nelle sue intenzioni, ma dubitava che Damon l’avesse considerata tale. ― Tra te e Lena, invece… come vanno le cose?
― Alle solite, non direi che siano cambiate poi molto. Insomma, stiamo insieme da così tanto che la presenza dell’altro ormai è come divenuta ‘neutra’. Come una vecchia coppia separata che tenta di non farlo capire ai familiari. ― Quasi impercettibile, ad un orecchio distratto, la nota di sarcasmo nella sua voce, ma non certo a lui che lo conosceva tanto bene.
― E lei cosa ne pensa?
― Non ne abbiamo mai parlato, quindi deduco le stia bene così.
― Perché dunque non lo fai tu?
― Lo ignorerebbe.
― Sei felice? ― domandò a bruciapelo.
― Avanti, Corey… nessuno lo è veramente.
― Sei felice? ― infierì con maggiore veemenza.
Damon lo guardò con gli occhi lucidi, esasperato come non l’aveva mai visto. ― Insomma, ma si può sapere perché mi stai facendo questo terzo grado? ― gli si scagliò contro all’improvviso, lasciandolo sbigottito come non mai. Quella era la prima volta in assoluto che lo vedeva reagire in modo così impetuoso. Lo lasciò continuare, quasi affascinato. ― Si può sapere cosa speri che ti risponda, per poi poter dire ‘te l’avevo detto’? Che sono disperato, che detesto questa vita e vorrei morire, che più di una volta sono stato sull’orlo del suicidio, che non sopporto il modo in cui ti ho lasciato e che piango ogni notte pensando a come poteva essere, che vivere senza di te non ha senso e ti amo ancora da impazzire?
Corey lo trattenne per le braccia e lo strinse a sé, avvertendo i battiti rapidi del suo cuore contro il petto, il suo respiro ansimante e le sue lacrime sul collo. ― Calmati… calmati, ― gli bisbigliò dolcemente. ― Sai bene che non potrei mai volere il tuo dolore. Vorrei solo che tu fossi felice, a prescindere dalle tue decisioni e dalle persone che ti sono intorno!
― Lasciami, lasciami! ― Damon cercò di svincolarsi ma egli al contrario lo attirò a sé più strettamente. ― Allontanati, averti vicino mi fa solo male! Tu non provi più niente, ma per me non è così semplice.
Inaspettatamente Corey lo baciò sulle labbra, anche solo per farlo tacere. Riscoprì quell’antica sensazione soffermandovisi alcuni secondi e, malgrado l’altro fosse recalcitrante, avvertì per un attimo anche la sua partecipazione. Lo lasciò tremante e confuso, quasi stordito da quel suo gesto inconsulto, ad osservarlo pieno di stupore.
― Il tuo ragazzo non approverebbe questo, ― mormorò Damon.
― Lui è un’altra cosa. E comunque ora io e te siamo pari.
― Come? ― ribatté lui incredulo. ― Non puoi paragonare un semplice bacio a cinque mesi di…
― Vuoi fare anche l’amore?
Damon arrossì abbassando lo sguardo, riuscendo finalmente a staccarsi da lui.
― Come sai di me e Scott?
― Non mi sembra che voi abbiate mai avuto bisogno di nascondere nulla a nessuno.
Già, come dargli torto, visto che si facevano sempre vedere apertamente camminare mano nella mano per le vie del centro? La loro relazione era palese a tutti.
― Io amo tanto Scott, ― sussurrò Corey dopo alcuni secondi. ― Però… in modo diverso rispetto a te. Tu sei il mio primo e grandissimo amore, conserverai sempre un posto speciale dentro di me. Non smetterò mai di volerti bene! ― Così dicendo provò di nuovo ad abbracciarlo, lentamente per non metterlo in difficoltà. Damon rimase rigido, tuttavia non cercò di sottrarsi.
― Voglio solo che tu sappia, ― continuò lui, ― che potrai sempre contare su di me, anche se dovessimo trascorrere anni senza mai incontrarci, senza scambiarci una sola parola, senza mai più vederci… io per te ci sarò sempre. Potrai chiamarmi in qualunque momento, per qualunque cosa di cui tu abbia bisogno. Questa è una promessa. ― Gli prese la mano chiusa tra le proprie, baciandola con affetto. ― Ad esempio, se mai un giorno tu decidessi di vivere in modo diverso, di allontanarti da casa od intraprendere una strada differente senza sapere da dove cominciare… io ti aiuterei! Ti ospiterei volentieri, se tu lo volessi, non avrei problemi neppure a trovarti un lavoro decente, con le doti che hai, ammesso che tu non ci riesca. Sarei disposto a…
― Corey, basta!
Sospirò dolorosamente. ― Mi mancano le nostre chiacchierate. Anche con Scott, sai… parliamo tantissimo e non saprei rinunciarvi, ma… sei tu che mi manchi! Mi manchi incredibilmente, ed anche se sono riuscito a fare a meno del contatto fisico, non posso rinunciare a quello spirituale. La tua voce che ribatte alle mie teorie strampalate, quel tipo di empatia unica che c’era tra noi, io… per quanto ci siano altre persone a cui voglia bene, non l’ho provata più con nessuno. Sai, è come se questo tempo trascorso mi abbia permesso di assimilare i miei sentimenti per te, come se tutta quella morbosa passione, insana, in fin dei conti, che provavo nei tuoi confronti, si sia trasformata in un grandissimo, immenso affetto. E non hai idea… non hai la minima idea di quanto vorrei che restassimo amici!
Damon abbassò gli occhi a terra, lo sguardo mortificato. ― Questo per me non è possibile.
― Perché mai!?
― Non ho ancora superato l’attrazione erotica nei tuoi confronti! ― gli rivelò tutto d’un fiato, come per liberarsi da un immenso fardello. ― Non sai quanto sia difficile averti davanti anche in questo stesso momento. Capisci ora, perché? È questa la differenza tra noi. Una differenza abissale!
Corey lo guardò spiazzato e contrito per alcuni secondi, per una volta nella sua vita davvero senza parole, senza capire perché mai una persona che per certi aspetti era così intelligente aveva desiderato autolacerarsi in tal modo, navigando volutamente contro i propri sentimenti. Avrebbe quasi preferito buttare tutto sull’ironia, proporgli qualcosa del tipo: “Potrei incontrarti mascherato, applicarmi un grosso porro sul naso o fingere di essere gobbo”. Ma avrebbe suonato più come una presa in giro per entrambi.
― Tu hai fatto una scelta, ― gli disse quindi. ― Non l’ho mai condivisa, ma la rispetto. Se io ora fossi disposto a tornare con te, tu come ti comporteresti?
― Non lo faresti.
― Rispondi alla mia domanda!
― Né più né meno di come ho fatto la prima volta! ― affermò cercando di mantenere salda la propria voce. ― Perché noinon-possiamo-stare-insieme! ― Così dicendo sbatté le ciglia impregnandole di lacrime e gli lanciò un’ultima occhiata prima di voltarsi definitivamente, recuperando le proprie scarpe insabbiate ed avviandosi lungo la riva nella parte da cui era venuto, ovvero verso casa, proprio come aveva fatto durante quella disgraziata notte.
Ma questa volta Corey non si precipitò a fermarlo, non gli corse dietro in disperati singhiozzi: si limitò ad osservare la sua figura sottile farsi sempre più lontana di fronte ai suoi occhi e, prima che la troppa distanza gli coprisse la voce, assicurandosi che potesse distintamente sentirlo, gridò: ― Questo è quello che pensi tu, perché noi saremo insieme per sempre!
Dopo che lo ebbe guardato svanire all’orizzonte soffermò la sua attenzione sul mare, un po’ scosso ed amareggiato. Era freddo, quel giorno, malgrado il sereno, e si strinse più forte nella giacca troppo leggera. Forse era solo colpa delle correnti marine: nell’entroterra certamente il clima sarebbe stato più mite.
Era sicuro che ogni volta che avesse visto il mare in burrasca avrebbe pensato a lui, ogni volta che avesse osservato un dipinto preraffaelita, ascoltato Ciaikovski, udito il nome di Hegel o Blake, avrebbe pensato a lui ed al suo modo così dolce di consolarlo, alla delicatezza dei suoi baci, alle sue teorie piene di fiducia sull’umanità e sull’arte. Forse era proprio sulla base di queste e del suo idealismo che si ostinava a proseguire per quella strada, sempre sperando di trovare qualcosa di buono nelle persone. Forse era proprio uno dei motivi per cui lo aveva tanto amato, ed allo stesso tempo la sua più grande debolezza. Ciò che gli aveva promesso sarebbe stato valido in ogni istante, fino al momento della sua morte.
Si risolse infine a tornare sui propri passi, verso l’auto parcheggiata sul lato opposto della strada, preferendo di gran lunga prendersela comoda piuttosto che scapicollarsi pur sapendo di essere già in ritardo. Ma prima volle risalire il lieve picco della scogliera per avvicinarsi al faro e toccare ancora una volta le sue grigie mura avvertendo la pietra fredda sotto le proprie dita affusolate.
Che visione romantica era… Fosse vissuto in epoche passate gli sarebbe piaciuto essere il guardiano di un faro: l’esatto genere di vita che faceva al caso suo, attorniato da misantropia e solitudine, ma fatalmente unico riferimento luminoso dei navigatori.
Non era un muro dove gli innamorati ordinari incidevano i propri giuramenti – quelli preferivano le panchine del parco dove tutti potessero leggerli – e forse era proprio per quello che il suo amore… o almeno colui che una volta era stato tale, aveva dipinto su di esso un cuore arricciato con un pennarello rosso scuro, al cui interno erano segnate due sole iniziali: C. D.
Gli era saltata all’occhio immediatamente la sua grafia limpida ed arrotondata, l’avrebbe riconosciuta tra mille.
Dopo che ebbe a lungo osservato quel piccolo disegno, così ben rifinito, le estremità delle sue labbra si piagarono in un affettuoso e malinconico sorriso, mentre all’orizzonte la foschia si diradava, nella luce avvolgente del giorno.

FINE

 
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view post Posted on 15/4/2010, 19:49
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buibrairodo
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