Corey And Damon

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Loveless
view post Posted on 17/3/2008, 08:06 by: Loveless




Capitolo quinto
All of my father

Quando aveva sette anni, a Corey fu chiesto di scrivere un tema sul papà. In classe i suoi compagni erano chini sul banco a scrivere già da un quarto d’ora, mentre lui aveva ancora di fronte il foglio immacolato. Fu molte volte per accostarvi la penna, ma sempre si ritraeva in un nuovo ripensamento. La maestra lo guardava da lontano, lunga e stretta, da sotto gli occhiali spessi, con aria vagamente minacciosa.

Corey se ne restava lì rimuginando a più non posso, l’espressione preoccupata, cercando di ricordarsi ciò che gli aveva detto sua madre in proposito. Naturalmente non poteva lasciare il foglio in bianco, qualcosa doveva pur scrivere.

Purtroppo non ho mai conosciuto mio padre, scrisse. Mamma mi ha detto che è dovuto partire per un viaggio quando io ero ancora molto piccolo, per questo non lo ho mai visto. Vivo da solo con lei.

Bene, la prima parte l’aveva detta. Il punto era che non c’era proprio nient’altro da dire, infatti mamma non gliene parlava di sua volontà ed egli non le aveva mai posto domande insistenti poiché sapeva che la facevano soffrire.

Due anni prima, vedendo in un parco gli altri bambini che giocavano coi loro papà, le aveva chiesto dove fosse finito il suo. Lei era diventata nervosa, aveva cominciato ad agitarsi e gli aveva risposto: — Se ne è andato lontano e non tornerà più. Ma questo per noi è un bene, perché papà era un uomo cattivo.

Quelle esatte parole, aveva detto: papà era un uomo cattivo. Poi si era chiusa in camera e aveva cominciato a piangere. Corey non aveva mai visto un adulto piangere e ne era rimasto sconvolto e atterrito, confutando quell’ostinata convinzione che gli adulti non piangessero mai. Giurò a se stesso che mai e poi mai le avrebbe chiesto qualcos’altro di lui.

Tuttavia non riusciva a spiegarsi come un papà potesse essere cattivo. Lui vedeva quelli degli altri bambini e pensava che fossero buoni. Perché proprio il suo doveva essere cattivo? Forse anche tra gli altri ce ne era qualcuno cattivo che sgridava i propri figli. Ma questo voleva dire che anche sua madre era cattiva perché lo sgridava in continuazione. Quindi c’era qualcosa che non filava, in quel ragionamento.

Fatto stava che non poteva scrivere un tema di sole poche righe, perciò cercò un modo per ampliarlo senza andare troppo fuori argomento. Di lui non so niente, scrisse, ripetendo lo stesso concetto con parole diverse per la terza volta; quindi descriverò come lo avrei voluto se avessi potuto averne uno.

Dunque seguiva una dettagliata e difficoltosamente allegra descrizione fisica e morale dell’ideale soggetto in questione, nonché un grazioso elenco di tutte le fantasiose esperienze che lui e quell’ipotetico padre avrebbero condiviso insieme, tanto che ne uscì fuori un tema lunghissimo, tragicomico e scritto perfettamente, se comparato al fatto che l’autore frequentava la seconda elementare.

Allo scadere delle due ore Corey consegnò il componimento con molta più disinvoltura di certi altri che magari non erano riusciti a scrivere neppure mezza facciata per mancanza di idee. Il brutto cominciò dopo, quando un suo vicino di banco gli chiese ingenuamente cosa avesse scritto nel proprio tema. A quel punto si trovò spiazzato, senza sapere cosa rispondere. Si era inventato delle assurdità per due ore di fila ed ora non riusciva a ripetere a parole la bugia più banale. Bofonchiò qualche vaga risposta senza senso e non fece in tempo a dare la minima spiegazione che subito un altro suo compagno, rivolto a quello che lo aveva interrogato, con aria canzonatoria cominciò ad insinuare: — Che domande gli fai? Corey non ha mai avuto un padre e la sua mamma non sa neppure chi sia! Nel tema avrà scritto solo cavolate.

— Non è vero! — esclamò Corey fuori di sé.

— Certo che è vero. Ho sentito mia madre che ne parlava con quella di Micky. Lo sanno tutti, è inutile che inventi delle frottole. E sappiamo anche come vengono chiamati quelli che non sanno chi è il loro papà: figli di puttana!

— Io ti ammazzo, brutto stronzo! — urlò lui avventandosi addosso al compagno con le mani sul collo.

La maestra intervenne a dividerli prima che poté, e del resto di quella scena Corey ricordò solo che si arrabbiò tanto, come non l’aveva mai vista in vita sua, ed esclusivamente con lui.



Quel giorno, quando tornò a casa con un occhio nero, sua madre corse da lui spaventata e gli si inginocchiò davanti chiedendo con apprensione: — Che ti è successo? Come te lo sei fatto, questo?

Corey scoppiò in lacrime disperate e singhiozzando le disse: — Un mio compagno ha detto che tu non sai neppure chi sia il mio papà, e ti ha chiamato come quelle ragazze che stanno sul marciapiede di notte!

Il viso di Alison assunse subito quell’espressione terribile, severa e agghiacciante che lui aveva sempre temuto. — Perché ti hanno detto queste cose? — replicò con voce carica di collera, come se ce l’avesse con lui. Il suo comportamento non fece altro che aumentare le lacrime del ragazzino.

— La maestra ci aveva dato da scrivere un tema sul papà…

— E tu che ci hai scritto? Corey, che ci hai scritto?

— Quello che mi hai detto quella volta. E poi… ci ho provato, ma non sapevo…

— Quale volta? — gridò Alison quasi in preda al panico. — Quale volta? Io non te ne ho mai parlato! Mai!

— Allora è vero che non sai chi è!

— Sta’ zitto! Io lo conosco, lo conosco benissimo, per mia sfortuna. Vorrei non averlo mai incontrato. Maledetto il giorno che l’ho incontrato! Avrei preferito essere una puttana, piuttosto. — Cominciò a camminare velocemente per la stanza, frenetica, i lunghi capelli castani scomposti sulle spalle e gli occhi iniettati di sangue. — Tu non devi mai parlare a nessuno di lui, mi hai capito? Digli che è morto. D’ora in poi inventagli che è morto! Non andare a raccontare i cazzi miei alla gente. Vuoi che la mia reputazione diventi peggio di così? Adesso calmati. Vieni qui, ché ti medico le ferite.
Corey non osò proferire un’altra singola parola.


A quell’epoca Alison aveva appena ventitre anni e lavorava in un localetto di terza categoria dove serviva ai tavoli e talvolta intratteneva gli avventori che desideravano qualcosa di più di un Cheesburger con patatine. Era una ragazza molto bella, alta e dalla figura delicata, ma sapeva rovinare i doni che la natura le aveva dato bene come nessun altro. Sul suo volto era sempre stampato un sorrisetto cinico e disincantato, che tuttavia veniva appena notato dalle persone di poca riflessione che lei frequentava. In quell’espressione era racchiusa tutta la sua delusione nei confronti della vita.

Spesso tornava a casa a notte fonda per terminare gli straordinari, altre volte non tornava affatto. Naturalmente non poteva permettersi di spendere continuamente i soldi della baby-sitter, perciò Corey dovette abituarsi fin da piccolo a rimanere solo, a cenare e ad andare a letto tutto solo con l’obbligo categorico di non aspettare sua madre ancora sveglio.

Non aveva paura del buio. Anzi, il buio gli piaceva: formava delle strane ombre attraverso gli oggetti, i quali non sembravano più ciò che apparivano di giorno, nella loro mera ed ignobile semplicità, ma acquistavano un significato arcano, più autentico, quello della loro vera essenza. Con la notte l’intero mondo diveniva un guazzabuglio di forme indistinte e allo stesso tempo rivelatrici, bizzarre e spaventose, ma che non gli facevano mai paura. Le tenebre scatenavano tutto ciò che vi era di barbarico e indomito nel suo cuore e ne operavano una catarsi, lo purificavano da ogni sentimento di odio, così che la mattina seguente potesse di nuovo salutare sua madre con un sorriso.

Aveva trascorso nottate intere a scrutare le ombre confondersi nell’oscurità, pur di non rivedere le strane sembianze che la sua vita acquistava negli incubi. Quelli gli facevano paura.

Molte volte sognava suo padre, l’uomo cattivo, che irrompeva improvvisamente nella sua camera per ucciderlo o portarselo via in qualche sconfinato e desolato campo di tortura dal quale non sarebbe mai uscito. Nei suoi sogni aveva un sorrisetto folle e gli occhi scintillanti di fuoco come quelli di Satana, del quale il prete forniva ai bambini il poco di quella peculiare descrizione fisica che bastava per spaventarli e fargli nascere nell’animo la paura della morte.

L’uomo cattivo arrivava con passi pesanti e cadenzati, gli premeva una delle sue grandi mani sulla bocca affinché non riuscisse ad urlare o a chiedere aiuto, e le sue dita erano forti e ruvide, quasi graffiavano la sua morbida pelle di bambino. A volte era cosciente di stare sognando ma non riusciva a svegliarsi di propria volontà, e pregava perché ciò avvenisse al più presto.

Nonostante cercasse spesso di compiacere sua madre con piccoli regali, ella non abbandonava mai quella sua espressione dura e ineccepibile, si dimostrava poco espansiva di fronte alle piccole dimostrazioni di affetto che pretendevano di cavare sangue dalle pietre: se ne restava ferma, a malapena alzava le estremità delle labbra per simulare la parvenza di un sorriso, ringraziava freddamente. A volte Corey la sorprendeva a guardarlo fissamente quasi raggelata, con gli occhi vitrei e la bocca distorta in una lieve, grottesca smorfia di disgusto.

Eppure era un così delizioso fanciullo, con morbidi riccioli da angioletto e gli occhi grandi e luminosi! Ma lei lo fissava con tale sguardo per qualche differente e misterioso motivo. Forse le incuteva timore quello strano rosso rame dei suoi capelli, che lei in effetti non possedeva. Corey aveva letto nel suo libro di Storia che nell’antichità, in certi paesi, le persone con i capelli rossi venivano considerate emissari del diavolo o suoi diretti collaboratori, tanto che molte di loro erano addirittura state arse sul rogo. Così Corey si era convinto di possedere in sé qualcosa di demoniaco ed oscuro, una forza arcana e malefica che persino sua madre temeva, e dati i presupposti gli pareva del tutto lecito comportarsi da peccatore ed infrangere, all’occorrenza, qualsiasi comandamento prescritto dalla Bibbia.

A volte tentava di intrufolarsi di notte nel letto di sua madre. Come gli sarebbe piaciuto poter dormire abbracciato a lei e respirare il suo profumo! Ma la donna lo allontanava dicendo: — Non crescerai mai se vorrai sempre dormire con la mamma. Ormai sei troppo grande per venire a letto con me, vai in camera tua.

In tutto il disastro che era la sua vita, negli spaventosi incubi che ne popolavano le notti, solo di un punto era assolutamente certo: c’era qualcosa in lui che sua madre odiava con tutto il suo cuore, qualcosa che la disturbava e le faceva dare di matto. Altrimenti come spiegarsi il fatto che passasse sempre più tempo fuori casa anche se non era impegnata con il lavoro?

La vedeva tornare ogni sera accompagnata da uomini che al massimo duravano una settimana. Ce ne era sempre uno diverso, tanto che Corey non riusciva mai a fissare nella mente la faccia di nessuno, ma aveva l’impressione che neanche Alison vi prestasse molta attenzione. Lui li scorgeva di sfuggita dalla finestra buia passare attraverso il piazzaletto ed entrare in casa, stringendo a sé l’esile figura di sua madre come se volessero mangiarsela. A quell’ora lui avrebbe dovuto dormire da un pezzo: cercava di non fare rumore, di non dare segni di vita, ed era allora che sentiva quei sospiri lascivi, rumori strani e voluttuosi provenire dalla stanza accanto. Disteso supino sul letto, il suo profilo netto si stagliava contro il bianco lucente del muro e lui, impassibile, ascoltava avvertendo segretamente nelle proprie vene l’essenza peccaminosa e proibita celata dietro all’atto che stava avvenendo, anche quando non ne conosceva ancora il significato.

Ogni volta, per non lasciarsi vincere dalle lacrime, si ripeteva che un giorno forse sarebbe nato di nuovo, ed allora avrebbe avuto ad amarlo una persona da non dover dividere con nessuno.

A volte Alison gli presentava di sfuggita i suoi amanti: volti senza senso, movimenti senza grazia, ragionamenti privi di sensibilità; ecco il genere di uomini che frequentava. Corey si domandava quanti di loro aspirassero a divenire suo padre e che cosa avrebbero fatto di lui una volta riusciti in questo intento. Certo era che nessuno di loro voleva dei figli. Né li aveva voluti sua madre, probabilmente. Ma questo non poteva saperlo poiché ella non gli parlava mai di quel torbido periodo antecedente alla sua nascita. Una volta sentì un fidanzato di Alison dire a sua madre: — Mi spiace, ma non sono pronto ad impegnarmi con un figlio. Né mio né di qualcun altro.

Come poteva, allora, non essere arrabbiata con lui per la sua semplice esistenza se essa precludeva anche le principali relazioni umane?

Alison trascorreva intere giornate di totale apatia senza dimostrare il minimo entusiasmo per nulla, se ne restava a casa a dormire anche il giorno di Natale (a malapena ricordava le festività), e non riceveva visite da nessun parente, tanto che Corey non aveva neppure conosciuto i propri nonni. Poi invitava clandestinamente i suoi amichetti ed era capace di farsi sbattere sul tavolo della cucina da qualche aitante maschione dopo essersi scolata anche l’ultima bottiglia di birra.

Corey leggeva libri. Quando la vita diveniva insopportabile cercava di distrarsi in questo modo, ma non sempre gli riusciva. Sapeva che un ragazzino della sua età non avrebbe dovuto essere tanto triste da pensare già che vivere fosse qualcosa di orribile, una sorta di torto che Dio o chi per lui aveva voluto commettere nei confronti dell’umanità, ma leggendo capiva che c’era stato qualcun altro, prima di lui, a provare quegli stessi sentimenti, un po’ come l’effetto che ha per qualcuno il blues. Riusciva in questo modo a sentirsi un po’ meno pazzo, un po’ meno anormale, un po’ meno solo.

- Continua -
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Capitolo sesto
Philosophical lucubrations



Corey tornava a casa in auto poco prima di cena, dopo essere stato a scuola a preparare gli articoli per il giornale che sarebbe uscito la mattina seguente. Era una giornata di ottobre piuttosto buia: il sole era tramontato da un pezzo e dal cielo, avvolto di cupe nuvole grigio scuro, cadeva una pioggerella fine e leggera che rendeva la strada scivolosa e conferiva alla città un aspetto fastosamente squallido, ancora più inquieto del normale. Il mare era in tempesta ed il suo brontolio non abbandonava mai i suoi pensieri attorcigliati in infallibili morse.

Mescolato al lento e ritmico sospiro delle onde ad un tratto udì una melodia perdersi nell’aria, ed era un ragazzo a cantarla. Corey non capiva bene da dove provenisse: sapeva che lo incantava, che risvegliava in lui qualche strana emozione sopita dall’infanzia suscitandogli un lieve senso di elegiaca nostalgia, di qualcosa posseduto per un attimo e ormai perduto, rimasto nella musica di quella canzone. Per qualche strano moto dell’animo gli sembrava di averla già ascoltata, che avesse sempre fatto parte di lui, che volesse dire qualcosa a cui rispondere: “Sì, proprio così, esattamente!” Era così malinconica e sublime!

Ad un tratto scomparve e lui si sentì come defraudato. Poco dopo scorse una figura sottile, allato della strada deserta, camminare speditamente con splendida leggerezza: aveva i capelli a caschetto ed una giacca attillata in vita. Non poteva crederci! Non avrebbe mai confuso quel portamento elegante neanche tra mille persone, lo aveva guardato troppo bene. Quello era Damon Marshe, il ragazzo che aveva incontrato in bagno qualche giorno prima e che spesso si fermava ad osservare durante il pranzo. Era lui a cantare quella canzone? Che diavolo ci faceva sul ciglio della strada sotto la pioggia? Tra l’altro, avvicinandosi lentamente, notò che teneva un ombrello nella mano destra, ma era chiuso.

Quando gli arrivò a fianco si accostò rallentando, abbassò il finestrino e gli parlò quasi in un sussurro: — Ciao, Damon. Tutto bene?

Damon sembrava avere lo sguardo trasognato ed era bellissimo, ma quando sentì la sua voce gli fece un gran sorriso e lo salutò. — Corey, sei tu! Come va?

— Bene. Ma tu perché cammini sotto la pioggia? Vuoi che ti dia un passaggio?

— Ma no, non disturbarti. Abito qui vicino.

— Non mi disturbi affatto. Tanto non ho alcun impegno.

— Ti bagnerò la carrozzeria.

— Oh, figurati che mi importa.

— Allora grazie, accetto volentieri. — In un attimo Damon si sedette al suo fianco. Aveva i capelli leggermente bagnati e perciò più ondulati del solito: formavano degli splendidi riccioli ad incoronare i perfetti lineamenti del viso, gli zigomi alti e finemente scolpiti, la delicata fossetta proprio sotto di essi e il profilo netto e sottile. Anche nella penombra si intuiva quanto i suoi occhi verdi non si sarebbero mai scambiati per dei comunissimi occhi castani, ed il gioco di chiaro-scuri non faceva che risaltare il suo sguardo limpido.

— Stavo facendo una passeggiata, ― gli disse, ― ma poi mi ha sorpreso la pioggia. Come vedi mi ero portato l’ombrello, ma quando comincia a piovere non ho mai il coraggio di aprirlo.

— Vuoi dire che ti piace camminare sotto la pioggia?

— Sì, è una cosa che adoro. —Fece una risatina. — Penserai che io sia fuori di testa.

— Oh no, affatto. La pioggia ha il fascino irresistibile della decadenza, a volte sembra quasi liberi dall’animo i brutti pensieri lavandoli via.

— Trovi ci sia del fascino nella decadenza? —chiese quell’insolito compagno di viaggio di fronte alla battuta poetica di Corey, con un sorriso che a prima vista (ma forse era solo un’impressione) gli sembrò malinconico.

— Sì, — confermò. — Credo che ce ne sia molto più che nella gioia. Le giornate di sole sono noiose e banali, invece l’oscurità è misteriosa e irrazionale, più suggestiva.

— È il Dioniso di Nietzsche, — mormorò Damon lasciandolo piacevolmente sorpreso. — Lo conosci, vero?

Corey sorrise maliziosamente. — Giuro che se non lo conoscessi non avrei vissuto. Ma come fai ad essere così sicuro delle mie nozioni filosofiche?

— Ho letto alcuni tuoi articoli.

— Oh. Davvero? E… sentiamo, come li hai trovati?

L’altro gli rivolse di nuovo quel suo sorriso amabile e irresistibile. — Mh, molto verbosi e baroccheggianti, ciononostante sintatticamente impeccabili. Mi piace il tuo senso dell’estetica: sei terribilmente severo con le opere di cui parli, ma io condivido i tuoi pareri per la maggior parte. Le tue recensioni artistiche… le ho trovate splendide.

— Ne sono felice. Credo che il più della gente le disprezzi.

— Perché dici così? Se le disprezzassero non avrebbero lasciato che continuassi a scriverle. Forse trovano semplicemente irritante che tu abbia dei giudizi mentre loro annegano nell’ignavia.

Corey non poté sottrarsi dal sollevare un’estremità della bocca in un accenno di sorrisetto lusingato. Non avrebbe mai creduto che qualcuno che frequentava un giro di amici come il suo potesse instaurare quel genere di discorsi. — Hai detto che condividi i miei pareri per la maggior parte, giusto? E la parte che ne resta fuori cosa riguarda?

— Il tuo articolo su Hegel. Hai esagerato. La sua filosofia è un caposaldo, è interessante. Non puoi dire che le sue teorie sono stupidaggini solo perché non credi in Dio. Insomma, ovunque, anche nella vita comune, si svolgono processi di alienazione.

Corey sospirò. — Oh, sai che novità: ha scoperto il bilduns roman(1)!

— Non puoi minimizzarlo in questi termini.

Corey era affascinato da quella discussione. Alla vista di quel ragazzo che si impegnava a sostenere la propria causa filosofica con quella sua decisa gentilezza gli mandava il cuore a mille.

Dunque replicò: — Ti rendi conto che Hegel ha dato il via alla legittimazione di tutte le efferatezze della storia? Dicendo che il reale è razionale, lui giustificava tranquillamente tutti gli scempi e gli abomini, sia passati che presenti che futuri, con il pretesto che tutto fosse necessario alla realizzazione di quel suo amato Spirito Assoluto. E, perdonami, ma io in tutto questo non ci vedo che fatalismo. So che è una cosa completamente diversa, ma alla fine il risultato è lo stesso: sarà quel che sarà, tutto è scritto, tutto necessario, tutto giustificato, non ha senso batterci per cambiare nulla. Non è ovvio, poi, che quel pazzo di Hitler riprendesse proprio le teorie hegeliane per rincitrullire i tedeschi e giustificare le sue insane manie di onnipotenza?

— Sai benissimo, — replicò Damon, — che se Hegel avesse saputo come poi il Nazionalsocialismo ha distorto le sue teorie si sarebbe rivoltato nella tomba. E poi, se non altro, non sai che anche le teorie del tuo Nietzsche sono state abbondantemente usate a scopi razzisti?

— Sì, lo so, ― mormorò Corey tristemente. — Su quel periodo della storia è meglio sorvolare, altrimenti rischio di andare fuori strada. E comunque… certamente non ho mai innalzato neppure Nietzsche su un piedistallo. Anche lui era considerato un idealista, e per quanto mi riguarda io e gli idealisti viviamo su spiagge opposte.

— Pensi forse che gli esistenzialisti fossero più intelligenti? Ti piace tanto Shopenauer?

— No. — Corey sorrise. — Veramente pensavo a Kierckegaard.
Damon lo guardò con due occhioni spalancati che gli diedero un’aria infantile: avrebbe fatto tenerezza a chiunque. — Morboso,— affermò. — Ancora non si è scoperto quale fosse il suo segreto di famiglia. Ma perché proprio lui? Era un religioso convinto, e non mi pare che tu…

— Oh, questo può essere irrilevante. Diceva cose vere, molto più di quel montato di Hegel. L’angoscia… l’angoscia è reale, altro che l’Assoluto. E poi… diciamocelo, tra tutti quei filosofi, era quello esteticamente meno brutto.

Dopo neanche due secondi scoppiarono a ridere entrambi. — Che direbbero, i nostri professori, se ci sentissero parlare così? — commentò Corey. — Non ti preoccupare… so fare anche discorsi più stupidi.

— È stato divertente, — disse Damon continuando a sorridergli. Le sue parole si sfumarono nel silenzio, nel rumore dell’auto sulla strada. — Non fai discorsi per niente stupidi. Anzi…

— Eri tu a cantare, prima? — domandò Corey in un filo di voce.

Gli parve di vederlo arrossire leggermente e sorridere d’imbarazzo. — Sì, ma non dirlo a nessuno, me ne vergogno un po’. Non è una cosa che dovrei fare… credevo di non essere ascoltato.

— Invece a me piaceva, era una canzone bellissima e tu cantavi molto bene.

— Era una canzone di David Bowie. Ho ritrovato un suo album tra i vecchi dischi di mia madre, quelli degli anni settanta.

— Il glam rock?

— Esattamente. In quel periodo la bisessualità era una moda e tutti i ragazzi andavano in giro coi lustrini sugli occhi e le scarpe a punta.

— Come quelle che porti tu?

Damon fece una risatina imbarazzata. — Sì. Vedo che le hai notate. Finora l’unico ad averlo fatto è stato mio padre che mi ha detto: “Ti proibisco categoricamente di indossare questa roba!” Ma se esco di casa con l’abbigliamento che vuole lui, ciò non vuol dire che non possa vestirmi come mi pare a scuola, dico bene?

― Ah-ah! Dovrebbero fare tutti come te. — “Dovrebbero essere tutti come te”, pensò subito dopo. — Aspetta una cosa. Ma dove devo andare?

― Ehm… dovremmo tornare indietro. Perdonami, ho dimenticato di dirtelo… mi dispiace, ti ho fatto solo perdere tempo.

— Oh, non dirlo neanche. Mi è piaciuta quella dissacrante chiacchierata filosofica, — gli disse Corey facendo inversione di marcia. Si sentiva una strana inquietudine addosso, certamente dovuta alla situazione circostante. Eppure quel Damon tutto era tranne uno che mette inquietudine. Allora cos’era la strana sensazione che gli bruciava nelle vene?

— Scusa se non ti ho fermato prima, — gli disse ancora Damon.

— Non stare a scusarti, per me è un piacere. — Non sapeva bene il perché, ma si trovava a guidare ad una velocità talmente ridotta che se avesse pigiato un po’ meno l’acceleratore l’auto si sarebbe fermata. Qual’era il motivo per prolungare ancora quel viaggio?

Lanciò un’occhiata verso il suo interlocutore che in quel momento se ne stava in silenzio, lo sguardo assorto in chissà quali pensieri, osservando la pioggia farsi più sottile al di fuori del finestrino. Le sue labbra erano socchiuse, sensuali, ed una ciocca di capelli bagnati gli ricadeva dolcemente sulla guancia sinistra.

― Oh… ecco, fermati pure qui. E scusa ancora per averti fatto ritardare. Siamo proprio davanti a casa mia.

Solo allora Corey si rese conto del luogo in cui si trovavano. Sul lato destro della strada quasi era possibile scorgere il mare: ed ecco quell’immensa villa gotica, come lui amava definirla, svettare imponente di fronte a loro. Con le labbra socchiuse e lo sguardo attonito e sognante, non riusciva a pronunciare una sola parola.

— Ti ringrazio tantissimo per avermi accompagnato. Sei stato gentile. — Il viso di Damon era illuminato dalla luce bianca del lampioncino che filtrava attraverso il vetro dell’auto. Lui aveva un sorriso davvero splendido ed un volto delizioso.

— Di niente. Ne sono stato felice, — sussurrò Corey.

— Ci vediamo, — disse lui, uscendo dall’auto, sotto la pioggia ormai diradata.
Fece una corsa verso il cancello, continuando a salutalo con la mano e a sorridergli. Corey lo guardava languidamente, lui e la villa in quello scenario buio e piovoso, e continuò a guardarlo finché non scomparve dalla sua vista. Respirò profondamente appoggiando una mano sullo schienale del sedile accanto, avvertendo la consistenza della tappezzeria leggermente bagnata e tiepida. Sentì affluire il sangue al viso e le sue labbra accennarono la parvenza di un sorriso, lui che quasi mai sorrideva se non per sarcasmo.

- Continua -
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Nota:
1) Bilduns roman: Romanzo di formazione.

Capitolo settimo
Phisical Education lesson


La materia scolastica che Corey più detestava era l’Educazione Fisica. Il professor Jonson fortunatamente era di indole bonaria e pacifica, ma non sopportava i perdigiorno. Pretendeva che in qualunque circostanza i ragazzi si cambiassero da cima a fondo od almeno si presentassero in tenuta sportiva durante le sue ore: chiunque, pure coloro che avevano l’esonero firmato e controfirmato da medici e fisioterapisti, dovevano indossare le scarpe da ginnastica anche solo per restarsene seduti in panchina. Dunque Corey andava tranquillamente a cambiarsi con gli altri e indossava il suoi pantaloncini corti (che permettevano al pubblico di bearsi delle sue gambe filiformi) ed una T-shirt blu scuro, molto più scic che sportiva.

Mentre si stavano cambiando, alcuni suoi compagni parlavano di compiere una spedizione nello spogliatoio femminile mentre le ragazze svolgevano la lezione, nella speranza di trovare in giro qualche indumento intimo. Tra risate e battutine volgari si avventurarono verso le zone proibite prima di raggiungere il professore in palestra. Corey rimase solo nello spogliatoio con Paul.

— Che stupidi! — affermò subito quest’ultimo. — Possibile non capiscano che per saltellare le ragazze abbiano bisogno di portarli addosso, reggiseno e mutandine?

— Sì, ma molte se li portano di ricambio, — ribatté Corey in risposta.

— Oh, vedo che tu conosci l’ambiente dall’interno.

— No, è che se fossi una ragazza farei così.

— Vuoi dire che ti porti le mutande di ricambio? Ah, già… avevo scordato che a te non serve. Se tutti facessero così, nessuno si sporcherebbe mai gli abiti.

Corey si sentiva di umore troppo poco cattivo per rispondergli con una frecciatina delle sue.

Il resto della comitiva irruppe freneticamente nell’ambiente, correndo col fiatone. — Dio, che corsa tremenda! Per poco non ci scoprivano. Marc faceva da vedetta: loro sono tornate quasi subito. Se non ci hanno visto è stata pura grazia divina!

— Avete trovato qualcosa, almeno? — chiese Paul, che all’apparenza sembrava indifferente alla faccenda ma in realtà era fin troppo interessato.

Volete ammirare il bottino di guerra, ragazzi? Eccolo qui! — disse un tipo che aveva in mano un reggiseno di pizzo bianco taglia terza e che ora stava sventolando orgogliosamente come un grande trofeo. Tutti corsero a sbaciucchiarlo e a strusciarvisi sopra il viso: — È ancora caldo! — gridò uno di loro, e la cosa era praticamente impossibile visto che da più di un’ora non veniva indossato.

— Oh, merda! — esclamò ad un certo punto Kevin. — Non trovo più i miei occhiali! Li avete visti per caso? Cazzo, dove sono finiti? Oddio… li ho lasciati di là dalle ragazze! Merda, li avevo tolti un attimo e poi nella fuga mi sono scordato di riprenderli!

Gli altri sghignazzarono e cominciarono a prenderlo in giro, ben sapendo che nessuno di loro aveva il coraggio di tornare a cercarli, e d’altra parte non potevano certo chiederli direttamente alle ragazze, che in questo modo avrebbero scoperto che erano stati lì ed il piccolo furto sarebbe subito stato spiegato.

— Adesso per fare ginnastica non mi servono, — affermò Kevin. — Ma dopo come faccio?

— Vabbe’, dopo magari lo spogliatoio è vuoto, — ipotizzarono gli altri. — Ti conviene tentare alla fine dell’ora.

Dunque si avviarono insieme in palestra. Il professore aveva appena terminato di firmare il registro di classe. Fece l’appello, segnò gli assenti e mise i ragazzi ad eseguire una semplice corsa di riscaldamento. Dopo cinque noiosissimi minuti di corsa Corey pensò: “Va bene, questo può essere il momento giusto”, e con molta disinvoltura finse di appoggiare male il piede destro in modo da simulare la slogatura di una caviglia o quantomeno uno strappo muscolare.

— Professore! — chiamò poi con voce strozzata e agonizzante, — non riesco più a correre, mi fa tanto male la caviglia!

Il professore, a braccia conserte, avanzò esasperato verso di lui. Corey lo raggiunse saltellando sul piede sinistro e contraendo il viso nella più patetica smorfia di dolore che Jonson avesse mai visto in vita sua. — Come diavolo hai fatto a farti male in questo modo? — tuonò l’insegnante rosso in viso. — Neanche la persona più goffa e maldestra riuscirebbe a farsi… quello che ti fai tu, Jones! Guarda Paul. Lui sì che non ci riesce, ma almeno ci prova.

“E certo!”, pensò Corey, “quello pensa solo a prendere dieci in tutte le materie!”

— Ma tu credi di potermi ingannare con queste tue melodrammatiche messe in scena? Lo vedo che è tutta una finta, che ti credi?

— Professore, non è vero! ― piagnucolò lui.

— Non insistere: lo vedo da come ti muovi. Tu non cadresti così se non volutamente. Non inventare scuse.

— Professore, glielo giuro, mi fa tanto male! Mi permetta almeno di bagnarla con l’acqua fredda.

Jonson, che non voleva avere sensi di colpa a riguardo dei suoi studenti, pur sapendo di aver pienamente ragione, di fronte agli occhi azzurri e imploranti di Corey si sentì alla stregua di uno schiavista e suo malgrado sospirò:— E va be’, vai, vai, Jones, fai come ti pare.

Nel raggiungere il bagno dei ragazzi, Corey quasi si dimenticò di continuare a zoppicare.

— Ma sappi che non ti metterò più di sei, nella scheda! — gli gridò da dietro il professore mentre il ragazzo entrava nel bagno saltellando allegramente. Questa volta rimirò allo specchio l’immagine del suo viso rilassarsi dopo quell’improvvisata simulazione dolorosa, e divenire bellissimo ed etereo come al solito.

Segretamente si compiaceva. In realtà sapeva benissimo (e così anche il professore) di avere un corpo delizioso e due gambe lunghe, perfettamente diritte, che mai lo avrebbero tradito inciampando. Tuttavia non poteva farci niente, era più forte di lui: odiava qualsiasi tipo di sport tranne il nuoto, che era a contatto con l’acqua. Precisamente le cose che detestava di più erano lo sforzo inutile e l’orribile sensazione di sudaticcio subito dopo. Quella non poteva soffrirla per nessun motivo. Odiava sentire i capelli appiccicati al viso, senza contare che dopo una grande sudata si prendeva puntualmente la febbre.

Dopo poco sentì dei passi oltrepassare la porta. Era John, un suo compagno di classe. — Il professore ha detto che se hai fatto devi tornare là.

— Che palle!

— Come sta la tua caviglia?

— Oh, è un dolore insopportabile.

— Sì, come no.

Con molta disapprovazione Corey seguì John in palestra. Proprio in quel momento stava entrando un’altra classe dalla porta secondaria. L’attività fisica era divisa per sessi, perciò lì si trovavano tutti ragazzi. Il professore che precedeva i nuovi arrivati disse a Jonson che nella palestra accanto era saltato un tubo dell’acqua ed ora c’erano gli idraulici che svolgevano le riparazioni, quindi gentilmente gli chiese se per quell’ora avessero potuto far allenare insieme gli allievi delle rispettive classi. Naturalmente Jonson, nella sua accondiscendenza, rispose subito di sì.

I due insegnanti si misero a scambiare qualche parola fra loro. Corey si sedette sulla panchina sorreggendo il viso con le mani e sperando che quell’ora noiosa e pestilenziale terminasse il prima possibile, quando improvvisamente si sentì chiamare da dietro da una voce dolce e gentile. Sentì sobbalzargli il cuore nel petto per la repentinità di quel richiamo, o forse semplicemente perché aveva capito di chi si trattava. Si voltò con il sorriso più amabile che avesse mai offerto la sua bellezza glaciale verso lo stesso ragazzo che aveva accompagnato a casa due sere prima.

Damon indossava una maglietta bianca, stretta e dal tessuto leggerissimo, e ovviamente anche lui un paio di pantaloncini corti blu. Ah, era perfetto sotto tutti gli aspetti e in ogni minimo particolare. I suoi capelli, leggermente spettinati, gli formavano sotto le orecchie dei riccioli che gli baciavano dolcemente il collo.

— Hai visto? — gli disse sedendosi accanto a lui. — Così ci ritroviamo a fare Educazione Fisica insieme. La nostra palestra è allagata, avresti dovuto vederla: pareva una piscina.

— Veramente, — disse Corey, — non mi dispiacerebbe fare una nuotatina in acqua, invece che stare qui.

― Anch’io adoro nuotare. Potremmo andare a fare un bagno al mare quando viene estate, se ti va. Tu hai mai fatto…? — Non riuscì a concludere la frase, giacché i rispettivi professori li richiamarono intimandogli di riunirsi subito a correre insieme ai loro compagni.

Corey andò a saltellare con gli altri senza accennare nulla a riguardo della pseudo-slogatura della caviglia, né fornire spiegazioni di fronte allo sguardo alterato e stupito dell’insegnate. Purtroppo non appena rientrati nella mischia Damon venne di nuovo accalappiato dai suoi compagni di classe e Corey non poté sapere cosa tesse per chiedergli.

Quella fu l’unica volta che Corey si prestò a svolgere per intero una lezione di ginnastica, anche se lo fece cercando di impegnarsi il meno possibile ed evitando di eseguire qualsiasi esercizio quando il prof non stava a guardare.

La sera in cui aveva accompagnato a casa Damon, prima di addormentarsi non aveva fatto che pensare a lui: aveva ripercorso nei minimi dettagli le battute che via via si erano scambiati e passato in rassegna ogni singolo avvenimento e incontro fra loro, a partire dai giorni d’estate in cui lo vedeva appoggiato al balcone che dava sul mare: una creatura eterea, una silfide dai capelli cullati dal vento.

Poi quella notte stessa l’aveva sognato, aveva sempre lui nella testa: i suoi occhi verdi come il mare, la linea delle sue labbra, quel suo modo elegante di parlare e di muoversi. Aveva sognato di essere di nuovo solo con Damon in macchina, ma questa volta c’era di diverso che non stessero proprio parlando.

Quando si era svegliato di soprassalto in piena notte, era di nuovo a lui che pensava. Aveva sentito contorcersi nel petto un tormento indicibile. Non era certo quello di essere tanto ossessionato da un ragazzo giacché per lui non faceva differenza, quanto il fatto che nelle sue condizioni… lui era irraggiungibile.

Questo lo aveva fatto piangere, disperare, odiare il mondo e la vita ancor più di quanto non li avesse mai odiati, e allo stesso tempo avvertire un sentimento a lui sconosciuto per un’altra persona: una passione fortissima. Aveva provato passione per opere d’arte, letteratura, grandi storie e grandi realizzazioni artistiche, ma mai per un’altra persona. E questo lo emozionava e lo struggeva allo stesso tempo.

Verso la fine dell’ora si trovarono di nuovo vicini: Damon aveva accanto solo ragazzi della classe di Corey e grazie a Dio non stava parlando con nessuno. Lui colse subito la palla al balzo per rivolgergli la parola: ― Cosa volevi dirmi prima?

— Oh, beh… è una cosa un po’ stupida da chiedere. Volevo sapere se… ecco, se hai mai fatto da modello per un quadro. Insomma, se hai mai posato.

— No, per un quadro mai, — rispose Corey molto incuriosito da quella strana domanda. — Ma ho fatto delle foto. Nel senso che una tipa una volta mi ha chiesto se poteva farmi delle foto artistiche quando avevo tredici anni.

— Era una tua amica?

— No, non la conoscevo. Mi ha fermato per strada.

— E te ne sei fidato su due piedi?

— Sì, mi ha anche dato dei soldi.

— Ti ha lasciato tenere le foto?

— No, ho solo una copia dei negativi, ma non li ho mai fatti sviluppare.

— Tu… ― sussurrò Damon, — ti faresti fare un ritratto da me?

Corey era esterrefatto. Lui era un artista e voleva fargli un ritratto! Accennò un sorriso e si sentì impallidire.

— Naturalmente potrei…

— È perfetto, — si affrettò a confermare. ― Ho sempre sognato che qualcuno mi ritraesse! — Ovviamente non era vero: l’idea non gli era mai passata neppure lontanamente in testa. — Che tipo di ritratti fai?

— Sai, mi piace quel tipo di arte che esisteva prima della fotografia, quando la vita antica ed il viso delle persone non potevano che affidare la propria eternità alla bravura di un pittore. Detesto l’arte moderna e considero Picasso la peste del gusto. Cerco di dipingere come se la macchina fotografica non fosse stata inventata e non è molto semplice… però è la mia passione. ― Lo guardò per qualche secondo. — Tu hai un volto che si presta bene per un ritratto.

A Corey venne voglia di chiedergli perché non ritraeva la sua ragazza, ma gli sembrò una domanda troppo stupida: di sicuro l’aveva già fatto da un pezzo.

— Tu sei l’unico che non si annoia quando comincio a parlargli di arte, — affermò Damon.

— Io adoro l’arte, davvero, — ribatté lui stavolta sinceramente. — E la letteratura, specie quella meno conosciuta.

Avrebbe tanto voluto continuare a parlargli, ma i professori gridarono che era ora di andarsi a cambiare. Corey e Damon avevano completamente disertato l’ultimo esercizio.

— Aspettami all’uscita della scuola, — gli disse Damon prima di raggiungere i suoi compagni, — così ci mettiamo d’accordo per vederci, se ti va.

— È perfetto, — ripeté lui seguendo gli altri verso gli spogliatoi, ma con la mente da tutt’altra parte. In una selva cruda e più tenebrosa di qualunque altra avesse mai attraversata nella sua vita: il sentiero di un amore impossibile.


Marc entrò nello spogliatoio con aria furtiva. — Di là sono appena arrivate le ragazze di un’altra classe, — annunciò a Kevin.

— Merda, sarei dovuto andarci durante la lezione! — imprecò questi. Doveva ancora recuperare gli occhiali e certamente non aveva il tempo di aspettare che le nuove arrivate finissero di cambiarsi perché doveva tornare in classe con gli altri. — Ragazzi, dovete aiutarmi a trovare un modo per recuperarli!

Marc disse che le ragazze che stavano nello spogliatoio in quel momento erano al massimo delle novelline che frequentavano il secondo anno e non li conoscevano: dovevano trovare un modo per intrufolarsi tra di loro e recuperare gli occhiali. Ma come fare? Nessuno aveva il coraggio di entrare lì dentro in loro presenza, neppure inventando una scusa qualsiasi.

— Certo, ― ipotizzò Marc, immune nella sua virilità, — la cosa migliore sarebbe che entrasse una ragazza, ma non abbiamo ragazze che siano nostre complici. Allora l’unico modo è che ci vada qualcuno di noi, ma vestito in modo che loro non si accorgano che sia un ragazzo. Mi spiego?

— Sì, e chi ci va? — replicò Kevin sarcastico. — Pensi di andarci tu, bitorzolone come sei? Dai, è un’idea assurda: ammesso ci sia qualcuno disposto ad andarci, lo riconoscerebbero subito. Non sono mica stupide!

— Non c’è bisogno di essere stupide per cadere in una bugia completa, — ribatté Marc volgendo lo sguardo. — Corey… ce lo fai questo piacere?

— Che cosa? — ribatté lui stizzosamente. — Ti sei bevuto il cervello!

Anche gli altri concordarono con lui dicendo che Corey era perfetto.

— E dai, ti prego, sono in mezzo a un casino! — lo scongiurò Kevin.

— Non voglio avere a che fare con i vostri intrallazzi, lasciatemi in pace, — gli intimò lui. — Avete voluto comportarvi da imbecilli, adesso ve la sbrigate da soli.

— Non farti pregare, — cercò di blandirlo Kevin con voce gentile. — Ho imparato la lezione e di certo non lo rifarei. Ma tu aiutami!

— Ma scusa, non è meglio chiedergli di ridarteli senza tante storie? Di’ loro che si trovano lì per…

— Sei matto? Quelle ci fanno a fettine, poi vanno dal preside e ci fanno sospendere tutti per una settimana!

— Che assurdità! — commentò cinicamente Corey.

— Ragazzi, muoviamoci, — disse Marc, — tra poco dobbiamo tornare su: non abbiamo molto tempo. Corey, tu sei l’unico con i capelli lunghi, qui. Perciò, che tu lo voglia o no, ora vai lì dentro e riprendi quegli occhiali. Coraggio, datemi una mano a prepararlo.

Corey decise di non ribattere e si prestò blandamente a quei loro giochetti, lasciandosi agghindare dalle mani dei suoi compagni di classe senza battere ciglio. Era tanto emozionato per quel breve scambio di parole che aveva ancora un leggero rossore sugli zigomi.

Alcuni ragazzi si preoccupavano del fatto che con quei capelli rossi e l’aspetto appariscente fosse già stato notato dalle ragazze per i corridoi, perciò gli consigliarono di farsi vedere in viso il meno possibile. Ad ogni modo lo camuffarono da fanciulla. Si affrettarono a sfilargli la maglietta e ad adattargli al petto il famoso reggiseno rubato, causa di tutte le loro disavventure. A farlo fu proprio Marc il quale, cercando di non darlo a vedere, non esitò a far sostare un po’ troppo le mani sulla vita sottile del suo amico, o nel sistemare abbondanti fazzoletti nelle opulente coppe del delicato indumento di pizzo. Corey si comportò come se non si fosse accorto di niente.

— Non sarà un po’ troppo alto, come ragazza? — chiese qualcuno.

— Dettagli. Uno e settanta va più che bene. Nessuno ci farà caso.

Gli fecero indossare la maglietta stretta che aveva messo per l’ora di ginnastica e i jeans che portava prima, scuri e attillati. Alcuni pensavano andasse benissimo anche in pantaloncini corti, ma preferirono non rischiare. Infine si ingegnarono di simulare un nastro per capelli e glieli raccolsero in una coda alta che, dicevano, faceva più femminile. Gli riempirono le labbra del burrocacao alla fragola che lui stesso aveva nella tasca della giacca e lo mandarono in missione. Paul esclamò irrisoriamente: — Metamorfosi completata!

— Voglio trenta dollari, — disse Corey a Kevin.

— Tu sei pazzo! Per così poco.

— Chiamalo poco! Nessuno di voi lo farebbe, e poi con questo scomodissimo affare che mi avete infilato mi si slargherà tutta la maglietta. Fai tu: prendere o lasciare. Dammi i soldi subito, altrimenti non ti ci vado.

— Sei uno strozzino. E se ritorni senza occhiali?

— Ti ridarò metà della caparra.

— E chi mi dice che vai a cercali per davvero?

— Te lo ho detto, prendere o lasciare.

Digrignando i denti, Kevin gli diede il denaro. — Ti fai pagare più delle puttane di periferia.

— Perché? — si intromise Paul. — Tu ne sai qualcosa?

Corey intascò il denaro ed uscì. Attraversò il buio corridoio fino ad arrivare alla porta col disegnino della bambina rosa stilizzata. Prese un respiro ed abbassò la maniglia. Da dentro giungeva il tenue vociferare di quelle vocine acute, i profumi di deodoranti zuccherosi ed il caldo tipico degli spogliatoi. Senza dubbio molto meglio di quello dei ragazzi dove regnava l’orribile odore di sudaticcio.

Appena fu dentro le presenti gli lanciarono un breve sguardo di ammirazione, ma poi subito tornarono ai loro discorsi da ragazzine mentre tranquillamente si toglievano magliette e pantaloni. In quel momento Corey si rese conto che i suoi compagni avevano avuto ragione: non solo le ragazze non lo avevano riconosciuto, ma lo consideravano addirittura molto bello. Naturalmente non sapeva fino a che punto ciò che trovavano attraente fosse il semplice travestimento o quanto piuttosto il fascino androgino che se ne celava dietro, quel fascino che le faceva sentire attratte da una persona che credevano fosse del loro stesso sesso e dubitare della propria identità sessuale, non senza provarne un compiaciuto senso di colpa.

Lo lasciarono gironzolare senza il minimo sospetto. Dopo essersi guardato un po’ intorno individuò gli occhiali quasi subito: erano caduti sul pavimento in un angolo.

— Hai visto? — disse sottovoce una ragazza all’amica, nel momento in cui lui si chinò per raccoglierli. — Era il ragazzo di cui ti parlavo, insieme a quelli che sono usciti prima: Damon Marshe, la più bella creatura sulla faccia di questa terra.

Corey sorrise senza rendersene conto e concordò pienamente.

— Vuoi dire che quello è il fidanzato di Lena Barkley? — ribatté l’altra. — Quella brutta, insipida smorfiosetta insignificante sta con quel bel ragazzo?

— Sì! E poi non venirmi a dire che la vita non è ingiusta.

— È una cosa assurda. Se c’è stata speranza per quella, c’è speranza per tutti. Certo, Damon potrebbe avere molto di meglio. Non c’è paragone: lui è così bello.

— Sì, sembra un angelo e proprio non capisco perché debba stare con quella snob.

— Beh, certamente a lui piacerà perché ha qualche bella qualità interiore.

— L’unica qualità di quella è che possiede un sacco di soldi. Come lui, d’altronde. Quindi non è neanche per questo che ci sta. Ma l’hai vista? Ha sempre la puzza sotto al naso, va in giro coi vestiti firmati Versace e una volta, ti giuro, ha anche indossato una stola di visone. Se ha un solo capello fuori posto entra in crisi e possiede un livello di grazia a zero assoluto, ma si crede di essere tanto bella solo perché il principe azzurro le fa la carità di stare con lei.

— Ma dai, senza dubbio non ci sta per farle la carità. Magari è anche lui uno stronzetto viziato e tra di loro se la intendono. Tu che ne sai? Lo conosci, per caso? Ci hai mai parlato?

Corey avrebbe voluto intervenire e difenderlo. Avrebbe voluto dire: “No, lui è la persona più dolce e gentile che possa esistere…” Ma non poteva farlo: lo avrebbero scoperto. Tuttavia la ragazza disse qualcosa di molto simile: — No, è impossibile. Si capisce dai suoi occhi che non è come lei: ha un viso troppo dolce, troppo innocente, troppo…

— E allora perché continua a starci?

— E che ne so? Forse ha tendenze masochiste.

— Tu sei troppo drastica, — cercò di concludere l’amica condiscendente. — Ognuno ha il diritto di essere amato, anche una come Lena, se è davvero come la descrivi tu. Forse Damon ha trovato in lei qualcosa di speciale.

L’altra volle comunque l’ultima parola: — Sì: una speciale bravura nello storcere il naso.

Nessuna delle due, a quel punto, riuscì a trattenere una divertita risata. Anche Corey avrebbe voluto ridere ma si sentiva inquieto. Recuperò gli occhiali e si rialzò in piedi. Sentiva che le due ancora confabulavano qualcosa, ma non gli interessava. Si avviò verso l’uscita e, una volta fuori, si slacciò i capelli e li fece volare all’aria, sollevato per aver finalmente troncato quella messa in scena grottesca.

Al ritorno trovò Marc che lo aspettava davanti alla porta chiusa. — Com’è andata?

— Li ho presi. Ma che ti importa? È Kevin l’interessato.

— Tu sei sempre così cinico?

— Dai, fammi passare. Voglio andarmi a cambiare, sono già in ritardo. Questa roba addosso mi dà noia.

— Hai un caratteraccio! — Marc lo prese per un braccio, lo sbatté con le spalle al muro e lo baciò violentemente sulla bocca, strisciando la sua ispida barba contro il viso di Corey liscio come seta.

Corey provò un tremendo ribrezzo. Quel suo irsuto e muscoloso compagno non gli era mai neanche sembrato minimamente attraente, anzi gli era anche antipatico. Si sentiva la nausea. Cercò di scostarlo con le braccia, ma l’altro era ovviamente molto più forte di lui e lo teneva fermo senza fatica. — Lasciami! — gli gridò. — Mi fai schifo, lasciami in pace! Io sono un ragazzo e a te i ragazzi non piacciono, lasciami in pace!

— Sì, ma adesso sembri una ragazza. — Marc prese a baciarlo sul collo.

— Guarda che mi metto ad urlare!

— Non ti conviene.

Fuori di sé dalla rabbia, Corey gli sferrò una violenta ginocchiata sui testicoli. Marc si accasciò a terra, in un grido di dolore strozzato, gemendo e mugolando, disteso sul pavimento in posizione fetale e con le mani sopra il punto colpito. Corey si sfilò il reggiseno insieme a tutti i fazzoletti di cui era stato riempito e glielo gettò in faccia. — Tienitelo per ricordo, — gli disse freddamente.

— Oddio, Corey… quanto mi hai fatto male! — piagnucolò Marc, riuscendo a malapena a mettersi in ginocchio. — Io, davvero, non so cosa mi sia preso. Per un attimo sono uscito fuori di testa. Guai a te se lo dici a qualcuno!

— Guai a te se lo rifai, — replicò lui.


All’uscita, in mezzo alla baraonda di studenti che facevano a gara per catapultarsi fuori dalla scuola, Damon era insieme alla sua fidanzata e stavano mano nella mano, attorniati dai soliti amici coi quali trascorrevano il pranzo ogni giorno.

Corey sapeva di non avere il coraggio di chiamarlo per primo, dunque se ne restò fermo ad aspettarlo. Così aveva detto: “ci vediamo all’uscita della scuola”, ma forse non se ne ricordava neppure. Lo vedeva piuttosto malinconico, scambiare qualche vaga parola col resto della comitiva. Osservava quel bel viso, quegli splendidi occhi luminosi, studiava ogni suo singolo movimento ma non riusciva ad intuire ciò che gli passasse per la testa. Capiva solo che non sarebbe mai neppure potuto diventare suo amico come lo erano quei disgustosi figli di papà che gli stavano sempre intorno. E questo era davvero un disastro. Un disastro colossale!

— Che fai qui fermo come uno stoccafisso? — Si era improvvisamente sentito rivolgere la parola dalla fastidiosa vocetta di Mandy che mai gli era sembrata tanto irritante. — Aspetti qualcuno?

— Vuoi qualcosa, Mandy?

Lei scoppiò in una risata. — Lo sai che cosa voglio! Quello che da te vogliono tutti.

Corey l’avrebbe uccisa. Gelidamente, replicò: — Un’ora di ripetizione in letteratura: cinquanta dollari; una di storia, sessanta; algebra settantacinque…

— Mi riferisco a un’altra cosa, e tu lo sai! — disse lei ridacchiando. Corey era quasi certo che fosse sotto l’effetto di qualche droga leggera. Non riusciva a credere di essersi lasciato convincere, una volta, ad andare a letto con una persona simile. Doveva essere stato proprio disperato!

Con la coda dell’occhio guardò dalla parte di Damon e si accorse che i due si erano allontanati dal gruppo e si stavano dirigendo verso di loro. Cosa peggiore non poteva succedere.

— Ciao, ragazzi! — li salutò Mandy con insolita euforia. — Mi pare di aver già fatto le presentazioni.

— Sì, ci conosciamo già, — confermò Damon. Dunque rivolse la parola esclusivamente a Corey: — Come va?

— Tutto a posto, grazie.

— Ti cercavo per parlarti di oggi, — disse Lena a Mandy, tentando di assumere la posa statuaria e naturale di una modella che si ferma per far rimirare l’abito al pubblico. — Andiamo a fare shopping? Ho visto un abitino in quella boutique…

— Oh, mio dio, cara, non vorremo comprare un abito uguale!

— Quando possiamo vederci? — chiese Damon a Corey.

— In ogni momento, quando vuoi. Anche oggi, tanto io non ho alcun impegno.

― Per me è perfetto oggi. Loro vanno a fare spese insieme. Ti va di venire da me?

― Va benissimo. A che ora?

— Quando vuoi. Il prima possibile.

Mandy e Lena avevano ingaggiato un animato discorso su cosa indossare alla tale festa del tale dandy.

— Ti aspetto, — gli sussurrò Damon con quel suo sorriso gentile.

- Continua -

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Capitolo ottavo
Restless my soul


Quando non aveva ancora nove anni, Corey assistette in TV ad un documentario sull’Olocausto comprendendone per la prima volta il significato, e ne rimase scioccato. La notte si svegliò in preda al panico, con un sudore freddo sulla fronte e i conati di vomito, mentre nella sua testa continuavano a lampeggiare allucinanti immagini di fili spinati, trincee di colore grigio, inferni in terra.

Fu assalito da una febbre violentissima che lo tenne incollato al letto per più di una settimana: Alison ne fu molto irritata perché per badare a lui era stata costretta a prendere qualche giorno dal lavoro. Avrebbe voluto bruciare i suoi libri. Invece Corey quasi annegava nello struggente compiacimento del tormentarsi con gli orrori del mondo: studiava disperatamente, con irrazionale fervore e inconsulta pazzia, quasi invasato da qualche demone che volesse distruggere il suo corpo a suon di tormenti psichici.

Con accuratezza ossessiva ricercava nei libri le grandi stragi della Storia e le apprendeva senza ignorare la minima parola, la minima tortura causata al più piccolo essere vivente, e più sapeva che gli faceva male più se ne circondava. Stermini, guerre di religione, pestilenze, torture, patiboli, sacrifici avvelenavano costantemente la sua anima e gli impallidivano il volto, tanto che in certi momenti quasi pareva somigliare ad una perfetta, minuziosa statua di marmo.

Non era disposto a perdonare niente al Creatore, neanche la minima ingiustizia: per lui di tutto era colpevole. A volte si prometteva che quando sarebbe stato al cospetto divino, se mai ciò fosse avvenuto, avrebbe detto a Dio quello che pensava. Gli avrebbe rinfacciato tutti quegli orrori senza ragione!

Mangiava pochissimo, era costantemente abulico. Non usciva, non si rallegrava della luce del sole: nutriva una terribile rabbia dentro che lo faceva sentire ancora più impotente, ancora più solo, ancora più in collera per dover essere costretto a vivere nel mondo: certo quello era l’inferno, non la cava di fuoco e fiamme che predicava il prete.

Dunque, sconvolto ed in preda al delirio, andava dal parroco a dirgli provocatoriamente: — Lei non ha fatto che insegnarci che viviamo in un mondo con un Dio buono e giusto, che ama le sue creature e stabilisce per loro tutto un ordine provvidenziale e perfettamente giustificato. Allora, mi spieghi, perché c’è tanta sofferenza in questa terra? Perché esistono le malattie incurabili ed il dolore fisico? Perché i deboli e innocenti devono sopportare le angherie e i capricci dei più forti? Non mi dica che tutto questo è stato costruito per stimolarci alla pazienza e alla sopportazione in vista di una redenzione celeste: è solo uno stupido modo che avete voi per giustificare quest’incongruenza insanabile.

«La verità è che il mondo non è affatto stato pensato da una mente superiore in nostra funzione: non siamo altro che briciole dell’universo, e la natura e la terra conseguirebbero perfettamente il loro corso senza accorgersi di nulla, anche se noi venissimo soffiati via! Come può in tutto questo esserci una ragione?

«Ha mai provato a chiedere a un bambino del terzo mondo che si prostituisce e si droga di acido se crede che Dio abbia voluto quella vita per lui? Allora a quel punto dovrebbe chiedersi: ‘Perché? Che ho fatto di male, per meritarmi questo? Non sembra forse più logico pensare che Dio voglia punirci per qualcosa che non abbiamo fatto, per un reato che non abbiamo commesso? Tanto a lungo vorrà farci pesare quel morso che Eva diede alla mela? Oh, il mondo è una merda, signore, e Dio non è altro che il Diavolo! Prova compiacimento nel tormentarci!»

Il prete davanti a tali parole era comprensibilmente disorientato e furioso: in primo luogo perché quelle terribili ed eretiche affermazioni venivano pronunciate di fronte a tutti gli altri bambini del catechismo e mettevano in discussione ogni loro equilibrio morale, in secondo luogo perché tali pensieri immondi erano scaturiti dall’angelica voce di un ragazzino, che per l’ingenuità e l’innocenza della sua giovane età avrebbe dovuto accettare serenamente i semplici dogmi a lui impartiti, senza porsi troppe pericolose domande la cui risposta stava nella fede pura ed immacolata.

Don Mattew diveniva rosso in volto e, con la voce chiara e scandita con cui si parla ai bambini, pur sapendo perfettamente che gli argomenti che Corey gli aveva sbattuto in faccia non erano affatto da bambini, continuava a ripetere le solite storie sulla giustizia di Dio, su un Giudizio Universale in cui i buoni sarebbero stati premiati e i cattivi puniti, concludendo che, se avesse continuato a nutrire quei peccaminosi pensieri che il Diavolo instillava nella sua mente per provocarlo, certamente Dio gli avrebbe presentato la giusta espiazione.

— Gli dirò io quello che penso, — rispose allora Corey. — Dovrà spiegarmi che cosa intende Lui per provvidenza, perché non credo che una persona che commette peccato lo faccia per cattiveria. Piuttosto lo fa perché le circostanze nelle quali si trova così gli impongono, a seconda dell’etica morale che gli è stata impartita e della sua educazione. E non penso che a questo mondo esistano persone completamente cattive o completamente buone. Dovrà spiegarmi Lui invece il perché di questo male gratuito.

— Quale? Quale male gratuito? — sbottò dunque il parroco, al culmine della tensione.

— Ebbene, signore, perché metterci al mondo e farci sopportare tutti i travagli della nostra società piena di sovrastrutture inutili, farci assistere in alcuni casi alla morte dei nostri cari, al disfacimento del proprio corpo, alla vecchiaia inarrestabile… per cosa? Per morire. Per nient’altro che la morte. E non basta un Paradiso per giustificare la possibilità che ci è stata data di vivere. Non lo giustifica! Ogni più infimo malfattore… non ha chiesto lui di vivere!

Alla fine di quella lezione, scandalizzato che un bambino usasse paroloni come “sovrastruttura” o “etica morale”, don Mattew chiese di parlare in privato con Alison e, dopo averle brevemente riassunto la sua piccola discussione con Corey, le disse: — Penso che suo figlio abbia in mente idee ben più grandi di quelle che tentiamo di imparargli noi. Non mi fraintenda: è un ragazzo che possiede un’insolita vivacità mentale, forse anche un po’ troppa. Ma credo che in certi momenti abusi eccessivamente di questa sua intelligenza. Mi spiego? Un grande ingegno realizza molte e buone cose, se viene ben stimolato, ma qualora sia portato nella direzione opposta può procurare un danno altrettanto grande. Ora, io non so da quali letture sia stato suggestionato Corey per sviluppare pensieri tanto… come definirli? Pessimistici, per non dire altro. Ma penso che sia ancora in tempo per riportarlo sulla giusta strada. Tuttavia… se continua a fare domande di questo genere interrompendo ogni volta quello che io sto per dire e, anzi, addirittura contraddicendolo, temo che gli altri ragazzi finiranno per essere ancora più confusi. Pensi che l’altro giorno il piccolo Scott Carlton, lo conosce?, è scoppiato in lacrime quando Corey si è messo a raccontare delle streghe che venivano bruciate nel Cinquecento. Non fa altro che raccontare queste storie per convincerli che Dio sia malvagio e ce l’abbia con l’intero genere umano. Che diventeranno, se fin da ora credono queste cose?

Il messaggio era chiaro. Alison se ne andò infuriata e si trascinò dietro Corey tenendolo per il braccio mentre lui la guardava senza battere ciglio. In auto, freddamente, gli gridò: — Ma perché diavolo proprio a me doveva capitare un figlio così fuori di testa? Per una volta non te ne potevi stare buono senza contestare? Credi che al mondo la debbano pensare tutti come te? Se è così, beh, sei per vivere male, carino. Le premesse non sono buone. Non potevi essere come tutti gli altri ragazzini? Non potevi essere un po’ meno cupo e andartene a giocare a Baseball nel parco come fanno quelli della tua età, senza tormentarti tutto il giorno con quelle stronzate filosofiche dei tuoi libri? Ma chi è che fa come te? Nessuno. Dimmi chi si comporta come te! Tutti gli altri escono, respirano l’aria, prendono la luce del sole, tu invece sembri un fantasma! Tutti a me devono capitare, gli strani!

La sera, mentre piangeva disteso al buio tra le lenzuola del suo letto, Martin, l’uomo che in quel periodo stava con sua madre, entrò nella sua stanza per consolarlo. Ormai era quasi un anno che viveva insieme a loro ed il suo rapporto con Alison sembrava andare meglio di qualsiasi altra relazione che ella avesse mai intrapreso con qualcuno. La cosa che più differiva in lui dai precedenti fidanzati era la sua età: più o meno sulla trentina, al contrario dei ragazzini che aveva sempre portato a casa fino ad allora. Era alto, bruno, coi capelli castani e lisci, gli occhi gentili color nocciola, e un sorriso solare che formava quelle caratteristiche pieghette ai lati delle guance che contribuivano a dare all’espressione un tocco seducente e particolare.

Quella sera si sedette sul ciglio del letto e dolcemente gli sussurrò: — Non piangere, Corey. Tua madre non è arrabbiata con te. Lei ti vuole bene. È solo preoccupata perché ti vede tanto triste e tanto malinconico, non riesce a capirne il perché e vorrebbe fare qualcosa per aiutarti, per vederti più allegro.

— Ma non l’hai sentita? — ribatté lui, singhiozzando e tentando di nascondere il viso tra i capelli e il cuscino. — Lei non pensa mai a me veramente. Si preoccupa solo del fattore economico, per lei contano soltanto gli affari pratici. Non le importa di come mi sento io.

— Perché allora non provi a farglielo capire? Parlale come fai con me.

— È inutile, inutile… Ma non mi importa. Sai, non mi importa niente di lei. Come potrei ragionare con una che mi prende per pazzo? Me lo ripete in continuazione.

— Ma non lo pensa veramente!

— No! — urlò Corey. — Lei mi odia! Non so cosa ho fatto, ma lei mi odia! Vuoi che non lo capisca? Forse è un fatto intrinseco del genitore, quello di odiare il proprio figlio quando non è come voleva che fosse. Dopotutto Dio non fa altro che questo. Sai qual è la verità? Che siamo tutti soli. Ognuno di noi è solo contro gli altri, con il difetto più grande che nessuno riesce a stare solo!

Corey sbatteva le braccia sul letto e pareva quasi invasato da un furore inconsulto.

— Calmati, ― sussurrò Martin abbracciandolo e carezzandogli i capelli. — Calmati, questo non è vero. Non è vero. Tutti ti ameranno, tutti… ma tu stesso devi amare, devi permettere agli altri di entrare nel tuo cuore. Forse non potrà succederti con tutti o con alcuni ci vorrà più di altri, ma alla fine non sarai mai solo. È geneticamente impossibile nella psicologia umana.

— Sì, ma bisogna vedere in che modo non si rimane soli. E di che natura è l’affezione di coloro che si hanno intorno.

— Io credo che nella vita si raccolga quello che si semina. E se tu dai amore, amore riceverai.

— Tu parli per ingenue utopie, Martin. Non si può amare puramente in una società così materialista, così volta esclusivamente agli interessi economici. Non si può…

Corey aveva chiuso gli occhi. Le sue guance erano ancora bagnate dalle lacrime. Martin prese un fazzoletto e gliele asciugò delicatamente. — Corey, sei ancora molto giovane. Davanti a te c’è una vita intera: non hai ancora compiuto sbagli irreparabili e sei in tempo per realizzare qualsiasi sogno. La vita non sarà male, se saprai come viverla. Segui il tuo cuore.

— Utopista, ― sussurrò lui.


Alison e Martin si sposarono pochi mesi dopo. Il giorno della cerimonia lei indossò un abito lungo, bianco e appariscente ma da quattro soldi, e furono invitati solo i parenti più stretti, tra cui anche i genitori di Alison che finalmente Corey conobbe per qualche ora, e che gli restarono del tutto indifferenti. Si limitarono semplicemente a salutarlo in modo alquanto distaccato, borbottando tra loro qualcosa di offensivo riguardo ai suoi capelli rossi, che lui non riuscì ad intendere. Nonostante l’euforia della festa, il temperamento di sua madre rimase tiepido e sulla sua bocca, quando non stava seria, si dipingeva semplicemente l’accenno di un sorriso discreto.

Nacque una bambina, Britney, che aveva la pelle rosea, grandi occhi neri e folti capelli castano scuro come quelli di Martin. Corey era l’unico in famiglia ad avere occhi e capelli chiari.

Martin era un dottore specializzato in ematologia, ed era forse anche per questo che Alison l’aveva sposato: perché guadagnava un sacco di soldi.

I primi tempi trascorsero felicemente. Sua madre pareva meno stressata e questo le faceva guadagnare in bellezza. Quando tornò a lavorare assunse una bambinaia per Britney: una scialba signora di mezza età che soffriva di solitudine ed ogni volta che ne aveva la possibilità si metteva a raccontare a Corey la sua vita passata e le vicende dei suoi figli ormai adulti, rimembrando i bei tempi andati. Lui la ascoltava per educazione, ma a volte, quando proprio non ne poteva più, usciva di casa prima del suo arrivo per tornare soltanto all’ora di cena.

Si fermava sotto l’ombra di un albero nel parco a leggere qualche classico della letteratura o semplicemente passeggiava per la città, osservava le case, i cunicoli più nascosti ed i modi di comportarsi e di vivere delle persone. Gli piaceva anche semplicemente sedersi in un posto e restare a guardare la gente che passava, senza sospettare minimamente che in realtà era la gente a guardare lui.

Ancora non si rendeva conto di quanto fosse angelica, gelida e attraente la sua bellezza. Già portava i capelli lunghi, era cresciuto in altezza e le sue labbra erano irresistibilmente sensuali. Non aveva la minima idea che le persone, specialmente quelle più sensibili all’arte e ai valori estetici, non lo vedessero più come un innocente ragazzino, ma perfettamente comprendessero l’incommensurabile erotismo che sprigionava quell’aspetto così seducente che si celava dietro alla sua efebica purezza.

Una ragazza sui vent’anni un giorno gli si avvicinò e, dicendogli che aveva un viso bellissimo, gli chiese se fosse stato disposto a farsi scattare delle foto da lei. Dapprima Corey non ne era molto entusiasta, ma quando la ragazza gli promise un compenso lui accettò, ben consapevole del fatto che il sangue non fosse acqua. La fotografa lo portò a casa sua e lo fece mettere in posa sopra un letto pieno di cucini dalle lenzuola di seta, gli fece dei primi piani, delle foto con i capelli scompigliati e con espressioni malinconiche, glaciali, assorte e divertite. Scattò delle figure intere piuttosto conturbanti, nelle quali Corey ‘indossava’ esclusivamente il diafano velo di un lenzuolo che lambiva con dolcezza il minor spazio possibile di superficie sul suo corpo, accentuando ancora di più la carica erotica che le fotografie avrebbero sprigionato nel progetto dell’artista, mentre lui se ne stava in ginocchio o sdraiato sul letto come la Paolina Borghese del Canova.

Alla fine del servizio la ragazza era molto soddisfatta e Corey, una volta intascato il denaro, ridendo ironicamente le chiese se per caso non avesse intenzione di mandare le foto a qualche rivista erotica omosessuale e lei rispose che non l’avrebbe fatto perché temeva di essere denunciata per qualcosa di simile all’abuso su minori. Corey rise in maniera ancora più divertita e le lasciò il suo indirizzo, tramite il quale poi lei gli spedì i negativi.

Martin avrebbe voluto farlo divertire come facevano i bravi padri coi figli, portandolo alle partite di football o ripercorrendo i soliti luoghi comuni del campeggio nei boschi o della pesca sul ghiaccio, ma a Corey non piaceva nulla di tutto questo. In mancanza di altro, per il suo compleanno lo portò a teatro a guardare Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.

Alison non era voluta venire sentenziando: — Soltanto una noiosissima perdita di tempo. ― Ma a Corey non importava. Era troppo occupato ad osservare le splendide rifiniture dorate della balconata, affascinato dal minuzioso allestimento del palco, le voci sonore che riempivano la platea come uno scampanellio e la fantasiosa perfezione dei costumi silvestri, per dispiacersi dell’indifferenza di sua madre.

Era molto grato a Martin perché sapeva che, nonostante il teatro non fosse proprio la sua passione, l’aveva accompagnato allegramente, affermando, all’uscita, di aver trovato lo spettacolo assolutamente splendido. La situazione era strana. A nessun coetaneo di Corey passava lontanamente per l’anticamera del cervello di avvicinarsi ad un teatro, mentre a lui piacevano i musei d’arte, le biblioteche, le cattedrali e le mostre di libri antichi: tutte cose che venivano considerate, per la maggior parte, piuttosto noiose e adatte alle mollezze femminee.

A sua madre non piacevano. Era lui che ne aveva il culto, dal momento che l’arte simboleggiava, a suo parere, l’unico motivo al mondo per il quale valesse la pena vivere. E all’arte letteraria dedicò la sua anima: scrivere storie, punto. Era l’unica cosa bella, l’unica cosa positiva di cui gli importasse, l’unico modo in cui trasmettere la propria concezione della vita senza che un prete bisbetico ci gridasse sopra: “Sacrilegio!”


Fu il periodo meno infelice della sua vita. Britney cresceva bene e diventava ogni giorno più bella: le sue guance sembravano due pesche e i suoi capelli batuffoli di seta. Aveva ormai quasi quattro anni ed era diventata molto affettuosa, specialmente con il fratello maggiore, che lei venerava e adorava. Quando veniva messa a letto ogni sera pretendeva che lui le raccontasse una storia: non voleva nessun altro. Ad Alison stava più che bene, si risparmiava la fatica di farlo lei, ma tutte le volte raccomandava a Corey di non assuefarla a quei suoi soliti e orribili racconti sanguinosi. Non voleva mica che diventasse mezza matta come lui!

Corey le raccontava la fiaba della Sirenetta, così come l’aveva scritta Hans Christian Andersen. Gli piacevano quelle favole di cui erano protagonisti eroini esclusi ed emarginati, volti nella costante tensione della propria accettazione di fronte al prossimo e che spesso facevano una finaccia come la sirena, che davanti all’impossibilità genetica della realizzazione del proprio amore accetta di dare in pegno alla strega la propria voce come altissimo prezzo per ottenere un paio di gambe umane ed essere inserita nel mondo terreno del suo amato. Corey era convinto fosse così anche nella realtà: la strega cattiva non era altro che la metafora della Natura, la quale alla fine richiede sempre quello che dà, estinguendo il debito fino all’ultima briciola.

Su sollecitazione di Corey, Martin gli raccontava del suo lavoro in ospedale, tra i pazienti affetti di leucemia ed i malati terminali. Ascoltare quei discorsi lo faceva soffrire, ma egli stesso vi si sottoponeva.

Erano luoghi, quelli, in cui c’era bisogno di una valanga di psicologia. Le persone reagivano nei modi più svariati alle proprie condizioni: alcune divenivano strane, sembravano comprendere il senso della vita e comportarsi in modo magnanimo tutt’ad un tratto, altre si dimostravano serene struggendosi dentro per la disperazione, altre ancora, la maggior parte, si deprimevano irreparabilmente.

E quanti ragazzi, quanti bambini vedeva in quei reparti ogni giorno! Ragazzini ridotti a letto e a snervanti cicli di chemioterapia, che vedevano sfumare giorno per giorno la propria giovinezza a causa di un morbo subdolo, che lavorava nell’ombra e sempre troppo tardi rivelava la propria furia assassina.

Martin non gli negava quei tremendi racconti come forse altri avrebbero fatto per non turbare la serenità di quel ragazzo già così tanto compromessa, al contrario egli riteneva che Corey, sentendo di qualcuno che si trovava in una brutta condizione senza darsi per vinto, rivalutasse la propria e cominciasse a pensare che il destino non fosse poi così malevolo nei suoi confronti.

Ma questo, in Corey, non fece che sortire l’effetto contrario e confermare ancor meglio le sue teorie, le quali provocavano in lui un altro vano interrogativo: fino a che punto la natura può essere forzata senza che si ribelli?

-Continua -


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Capitolo nono
Deviant love


— Attenzione, Damon, — si raccomandò la signora delle pulizie, che indossava un elegante grembiulino bianco immacolato. — In quel punto vicino alla finestra ho versato per sbaglio la cera per i mobili, questa mattina, mentre ripulivo. Mi dispiace, è scivolosissimo.

— Non c’è problema, Becky.

La villa era un’autentica reggia, e quando Corey vi aveva messo piede era rimasto estasiato. Solo da fuori, alla semplice vista del giardino, pareva di trovarsi in un luogo idillico, quasi sospeso in una dimensione di eden: le piante di gelsomino si arrampicavano voluttuosamente ai cancelli, i sempreverdi proiettavano la loro muschiosa ombra nel curatissimo prato dove, durante la bella stagione, dovevano certo fiorire piccole margherite bianche e delicati fiorellini azzurri.

Cercò di immaginarselo in primavera, il profumo degli iris e delle rose densamente sparso nell’aria calda e mescolato al salmastro profumo della salsedine. Neppure riusciva a capire come vivesse tanta virente bellezza in un luogo simile: si sa, l’aria del mare non fa bene a certi tipi di pianta. Tuttavia gli oleandri erano splendidi, e mescolati a molte altre specie floreali di cui Corey non conosceva il nome. Le siepi perfettamente tagliate mostravano l’assidua mano di un giardiniere esperto, mentre sul retro svettava la torreggiante palma che tante volte aveva intravisto da fuori: nello spessore del suo tronco e nella vigorosa grandezza delle sue foglie, che probabilmente da sole avrebbero sostenuto il peso di una persona, nella sua altezza c’era qualcosa di esotico e grandioso.

La cosa più bella per Corey, da esteta quale era, erano state le sontuose statue marmoree e classicheggianti, che rappresentavano putti, ninfette, imponenti corpi maschili dai muscoli splendidamente scolpiti, dee curvilinee e sinuose dal petto delicato, che parevano fatte di vera carne tanto davano l’impressione di serica morbidezza. Al centro fluiva una piccola fontana barocca, dove un angioletto dalle ali di piuma e i capelli inanellati versava acqua dalla brocca che stringeva tra le tenere mani. Quando Corey chiese di chi fosse il gusto raffinato col quale era stato curato il giardino, Damon gli rivelò che da quasi un secolo veniva allestito quello stile dal momento che la villa, fatta costruire dal bisnonno di suo padre, risaliva al 1870 o giù di lì, e da sempre si era cercato di mantenere il più possibile la tradizione.

L’interno non era da meno: tutti mobili antichi ed un soggiorno dal divanetto in stile impero, di epoca napoleonica. Alle pareti erano esposti, attorniati da cornici talmente elaborate che forse valevano più dei quadri, splendide riproduzioni di Jack Louis David tra cui il celeberrimo [i[]Giuramento degli Orazi[/i]. Oltre alle credenze baroccheggianti, vide tavoli e sedie in stile Rococò, probabilmente sullo stampo di certe suppellettili che dovevano figurare alla corte di Luigi XVI, vide enormi lampadari di cristallo, lunghi e pesanti drappi di tende dorate cadere morbidamente sul pavimento, immensi tappeti dal disegno finissimo e minuzioso.

Chiedendosi che professione esercitasse suo padre per permettersi un simile sfarzo, Corey ricollegò il cognome Marshe ad un famoso avvocato di cui aveva sentito parlare qualche anno prima riguardo ad un processo per omicidio. Alan Marshe: così si chiamava, ed era anche comparso in televisione, ma lui non ne ricordava la fisionomia. A suo tempo se ne era parlato tanto perché sembrava fosse spietato: aveva gli occhi di ghiaccio, si diceva, coi quali incastrava a suo piacimento la parte avversaria, innocente o colpevole che fosse. In quell’occasione l’imputato fu assolto, benché tutti sapessero della sua colpevolezza, ma non furono mai trovate le prove per dimostrarlo. Corey non aveva idea se questo ipotetico Alan avesse qualcosa a che fare con il suo Damon o vi fosse imparentato: fatto stava che il suo amico non gli aveva mai parlato in quel senso di suo padre né accennato alla sua professione.

Damon non si soffermava neppure a mostrargli la casa, né sembrava passargli per la testa che potesse interessargli visitarla come un museo pieno di pezzi d’antiquariato. Si muoveva con leggerezza e ad ogni suo passo i morbidi riccioli dei capelli gli sbattevano sul collo fluttuando. Oh, quei capelli, com’erano belli! Talmente sottili e leggeri che parevano sempre perfetti anche da spettinati, gli scendevano ai lati del viso talvolta disegnandogli la cornice di un ricciolo proprio sotto lo zigomo.

Lo portò subito in camera sua, ed un attimo prima di spalancare la porta gli disse: — Benvenuto nel mio atelier.

Corey si sentì curiosissimo, entrando in quella stanza enorme, lussuosa e stranissima, perché effettivamente sembrava proprio la camera di una reggia settecentesca allestita a studio pittorico rinascimentale. Accanto alla porta-finestra, riparata dal diafano tendaggio di un bianco quasi trasparente, era collocato un cavalletto con una tela di medie dimensioni, dipinta solo per metà. Accanto ad esso, sopra una sorta di scrivania, stavano tavolozze e tubetti di colore ad olio a profusione, evidentemente da poco riordinati da Becky. Il letto stava sulla parte destra della stanza, accostato alla parete più riparata, ed era a due piazze con sopra una morbida coperta bianca e la spalliera turchese, imbottita e dalla forma sinuosa.

La cosa sconvolgente erano i quadri che occupavano ogni spazio libero sul muro: appoggiate all’armadio c’erano tele talvolta enormi, ed i muri stessi erano dipinti anche laddove venivano coperti da altri quadri incorniciati.

E che dipinti! A Corey sembrava di aver fatto un salto nel tempo ed essere stato catapultato in un’epoca lontana, quando i ragazzi erano graziosi come fanciulle e portavano scarpe di nero lucido con la fibbia d’argento. Era un mondo che racchiudeva una tradizione barocca, sacra e profana, profondamente armonica, diabolicamente carnale. Angeli che danzavano persino sul soffitto, in un’estasi delirante di gioia e adesione alla beatitudine. Il soffitto, meglio di una cattedrale, raffigurava angeli dalle vesti purpuree e voluttuose pieghe negli abiti, che fluttuavano delicatamente sui piedi arcuati, scompigliavano le ciocche fulve e dorate delle loro chiome ricciute.

Su un’alta tela appoggiata contro l’armadio c’era un San Sebastiano talmente illuminato dalla grazia che neppure pareva un martire trafitto da frecce appuntite: il suo sguardo era volto verso il cielo, un viso pulito, gli occhi azzurri e i capelli scuri, rapito totalmente dall’estasi divina, mentre sul bianco e sottile corpo scivolavano rivoli rossi di sangue dai punti ove erano conficcate le frecce.

La plasticità era naturalistica, anche se forse un po’ idealizzata. “Ma è questo che deve essere l’arte”, pensò Corey nella sua personale concezione, “altrimenti non avrebbe senso”. Gli studi della luce vivificavano la rappresentazione e parevano sempre raggi di luce divina, ambrata, che connotava l’ambiente di sacralità e misticismo. I visi erano perfettamente ovali, le bocche voluttuose, gli occhi enormi ed ipnotici.

Le pareti erano invece dedicate agli dei, e vi erano rappresentate scene della mitologia greca: un tumultuoso e concitato Ratto di Ganimede, dove il piccolo coppiere frigio, che urlava di spavento tra le grinfie del suo rapace rapitore, coi suoi riccioli biondi era quanto di più bello potesse essere ammirato; un Narciso che specchiava la grazia della propria immagine in un trasparente riflesso d’acqua, incurante dei richiami di Eco; una riunione di canto ove prendevano parte Apollo, Giacinto e Ciparisso, dei quali era indescrivibile la levigatezza compositiva e le splendide forme dei corpi: snello e aggraziato quello del dio della musica, che aveva come per tradizione i lunghi capelli cinti dall’alloro, ed esili e delicati quelli dei due ragazzi.

Poi comparivano altre scene minori, come un lascivo Dioniso con la coppa dorata di vino rosso in mano, il peplo corto fino al ginocchio e l’edera tra i riccioli scuri.

Corey restò per quasi mezz’ora ad osservare ogni singola figura di quel paradiso del peccato, abbassandosi sulle ginocchia ed avvicinandosi ai dipinti fino quasi a toccarli col naso, per ammirare quanto minuziosamente erano realizzate quelle figure. Avevano tutte lo stesso stile, inconfondibile, come un sigillo. Damon sedette sul letto aspettando che terminasse di rimirare la stanza.

— Come riesci a fare queste…? — tentò di dire Corey, con le parole che gli morivano in gola. — Non avevo mai visto… ― Esattamente: erano quasi perfette, come quelle degli artisti che riproducevano la realtà, magari sublimandola, prima che si potesse rinchiuderla nella fotografia. Sembrava che Damon fosse andato a lezione dal Caravaggio o da Raffaello, o da Leonardo.

— È che mi diverte tantissimo, — gli rispose. — Adoro dipingere. Lo faccio come passatempo e non mi stanco per niente, anche se può sembrare faticoso. Purtroppo non sempre i risultati sono come vorrei.

— Non ho mai visto niente di più bello, — sussurrò Corey con aria quasi sognante. Un attimo dopo gli sembrò subito sconveniente. Poteva sembrare un’adulazione troppo sfacciata da rivolgere ad un ragazzo. Doveva stare più attento, nascondere meglio il vortice di sentimenti che gli si contorceva nello stomaco.

— Davvero? Se lo dici tu mi fido, — disse invece Damon. — Ma avrai tutto il tempo di guardarli: adesso voglio farti qualche schizzo.

Corey si voltò e lo guardò stupito. — A me?

— Sì. Era per questo che…

— Oh, già, me ne ero dimenticato. — “Chissà perché vuole farmi il ritratto”, si chiese Corey per la millesima volta. “Non è possibile che mi trovi bello? Sì, forse mi trova bello semplicemente come soggetto da ritrarre. Forse vuole mettere la mia faccia su quella di Isacco prima del sacrificio. Sì, non c’è altra spiegazione.”

— Becky ha lasciato il tè con i dolcetti. Serviti pure, — gli disse Damon appoggiando il vassoio sul letto. — Non c’è assolutamente bisogno che tu stia in posa come Doryan Gray: puoi muoverti quanto ti pare e chiacchierare, a me va bene lo stesso. Per adesso faccio solo un disegno preparatorio. ― Intanto sistemava i carboncini ed i fogli da disegno. Poi andò ad scostare le tende per avere più luce e uno dei suoi stivaletti scivolò sulla cera di cui Becky l’aveva appena avvertito facendogli perdere l’equilibrio. Con uno scatto fulmineo Corey lo sorresse da dietro avvolgendogli le braccia al petto. Ci fu un istante in cui i loro volti furono vicinissimi e gli occhi verdi di Damon, con la testa all’indietro, incontrarono i suoi da sotto. Corey aveva il capo chino e i suoi lunghi riccioli rossi sfiorarono per un attimo la fronte del suo amico.

Con un sospiro si staccò da lui immediatamente, quasi arrossendo d’imbarazzo. A quello stupido e banalissimo evento lui stava dando un’importanza patetica: commiserò disperatamente se stesso. “Sono il ragazzo più sfortunato di questa terra”, si disse. “Merito solo di morire.”

— Mi hai ripreso… grazie, ― Damon constatò l’evidenza con un risolino imbarazzato. ― Me lo aveva anche detto che qui era scivoloso.
Per il disegno decisero di andare in giardino, poiché Damon amava dipingere, come si suol dire, anche en plein air. Da una parte per Corey fu meno difficile giacché l’aria della stanza gli sembrava troppo calda e statica, troppo voluttuosa e ispiratrice. Al vento, almeno, il suo cuore impazzito poteva rifornirsi della giusta quantità di ossigeno.

— Spero non ti stia annoiando troppo, — gli disse Damon mentre faceva scorrere fluentemente la matita sul foglio, alzando ogni tanto gli occhi su di lui per guardarlo. —Vuoi che ti porti un libro, o non so…

— Oh no, non è affatto noioso. E poi qui è un vero incanto. — Fece passare alcuni secondi prima di chiedergli: — Hai mai dipinto degli autoritratti?

— No, è una cosa che non mi piace.

— Perché? Molti artisti lo hanno fatto.

— Non mi interessa. A parte che non riesco a farlo, ma mi sembra qualcosa di troppo narcisista. Una specie di autoidolatria, mi fa venire i brividi.

Corey pensò che un ritratto di Damon dipinto col suo stile sarebbe stato bellissimo, ma preferì non porre altre domande o commenti a riguardo. Chiese invece: — E della tua ragazza?

— Neppure.

— È lei che non vuole?

— No, anzi, a Lena piacerebbe. Sono io che non riesco a ritrarla. Ci ho provato diverse volte, ma non viene mai come lei vorrebbe. Dice sempre che il disegno non le somiglia, e alla fine dopo svariati tentativi ho desistito.

— Forse la fai troppo bella, — insinuò Corey con tutta l’impertinenza che possedeva. — Ho notato che tra i tuoi quadri non c’è un soggetto che non sia sublimato. Comunque per quelli è un’altra cosa, perché non sono dei veri e propri ritratti. Sono curioso di vedere il mio.

— Tu non hai bisogno di essere sublimato, sei già bello così. — Non lo aveva detto con malizia, né nascondeva alcun secondo fine. Il tono della sua voce racchiudeva la più pura innocenza, ma gli piacque lo stesso sentirselo dire.

— Posso vederlo? — chiese Corey sbirciando sul foglio.

— Solo quando sarà finito.

Il bianco tavolo del giardino era stato imbandito con ogni sorta di dolci e pasticcini dall’aspetto molto invitante, ma Corey ne assaggiò giusto uno per non essere scortese. Da un po’ di giorni a quella parte si sentiva ancora più abulico del solito, quasi inebriato di qualcosa di più raffinato del cibo in quanto tale.

— Posso chiederti una cosa, se non sono indiscreto? — si sentì domandare ad un certo punto.

— Certamente.

— Cosa c’è stato tra te e Mandy?

Corey fece un sospiro. — Non so cosa ne sappia la gente, ma noi non siamo mai stati insieme come ha cercato di far intendere lei. Siamo andati una volta a letto insieme, ma per me non ha significato niente. Se non è stato reciproco non so proprio che farci. Puoi considerarmi cinico, se vuoi, ma lei non mi piace affatto.

— Allora perché…?

— Perché mi sentivo solo e lei mi è piombata addosso. — Corey abbassò gli occhi, divenuti in quel momento tristi ed eterei come cristallo purissimo. — Ma non è una buona scusa per stare con qualcuno anche se non lo si ama, giusto? ― Dopo qualche secondo, poi trovò il coraggio di indagare: ― Tu con Lena, invece?

Damon alzò le spalle con noncuranza, in uno strano sorriso a misto fra tragico e ironico. — Tutto okay.

― Sì?

― Certo, lei… non sbaglia di una virgola e piace a tutti i nostri amici. Altro che il sottoscritto… ― aggiunse quasi compiaciuto. ― Lei contesta terribilmente il mio stile e dà ragione a mio padre dicendo che dovrei tagliarmi i capelli e vestirmi in modo più normale. Da dandy, cioè, loro intendono questo. So di essere contestatissimo nel gruppo, ma almeno uno stile ce l’ho.

— Hai paura che lei ti lasci?

— Io… ― sussurrò Damon, — forse ti sembrerò presuntuoso, ma non credo le passi per la testa di lasciarmi.

“Il gruppo,” si ripeté Corey. Continuava a girargli per la testa quella parola. “Lui naturalmente frequenta quei ragazzi perché li frequenta Lena, pur sapendo di essere apertamente contestato. Di sicuro non lo fanno con cattiveria, non gli salta neanche per la testa di non riconoscerlo come uno di loro, ma allora perché…? Oddio, non ci capisco più niente. Mi sembra di parlare di lupi e di branchi.”

— A dire la verità, — gli disse Damon a voce bassa, — da un po’ di tempo la loro compagnia mi sta sempre più pesante. Sono tutti bravi ragazzi (Andrew a parte, naturalmente), ma… c’è qualcosa che stona.

— Forse sono troppo bravi.

― Forse, ― ripeté con un sorrisino. ― Ma in verità nessuno di loro è mio amico. Non è una cosa che viene da loro, ma da me che non ho i loro stessi interessi, quindi a volte può succedere che non ci si capisca molto. Non sono persone cui riuscirei a confidare qualcosa di personale.

— Neanche a Lena? Non c’è stato qualcosa in lei che te ne ha fatto innamorare, che ti ha fatto pensare che fosse speciale e potesse capirti?

Damon rimase perplesso di fronte a quella domanda. —Ma a te, Corey, vengono in mente tutti questi particolari prima di cominciare un rapporto?

— No, penso solo che molte delle comuni relazioni amorose inizino senza motivo solo per attrazione ad incastro, istintiva tra uomo e donna, senza considerare appieno l’empatia tra gli spiriti. È inutile convincersi di amare qualcuno semplicemente perché è considerato simpatico o di apprezzabile compagnia, se dentro di sé non si prova una specie di sentimento travolgente: passione, rapimento, afasia, abulia, insonnia…

— Tu… sei un romantico, Corey. Credi che un giorno ti sposerai con la tua anima gemella?

— No, io non credo nel matrimonio. Lo deploro, mi fa schifo. Tuttavia, non te lo nascondo, per tutta la vita ho sognato un amore puro, appagante e totalizzante, di quelli dove conti solo tu e la persona che ami senza niente di contingente. Ma so anche che trovarne è impossibile: questo accadrebbe se fossimo degli angeli invece che mortali. Tutte le insignificanti storie che ho avuto finora le ho cominciate sapendo già dal principio che sarebbero finite, anzi, quasi aspettavo con impazienza la loro fine per iniziare tutto daccapo. Non mi è mai importato niente di nessuno, e ho pensato: che senso ha continuare in questo modo, farsi del male e arrecarlo ad altri se tanto non c’è amore?

— Sì, lo so, Corey. Sarebbe bello, ma l’amore vero, l’amore puro platonico… non si può trovare. Le persone si conoscono e, se stanno bene insieme, ecco che provano a costruire qualcosa per il futuro senza che ci sia quella passione, quel rapimento di cui tu parli. Tanto non si può rimanere soli per tutta la vita: prima o poi ci si deve pur sistemare.

Corey sorrise tristemente. — Questo è quello che dicono tutti. Ma io personalmente non riuscirei mai a legarmi per la vita ad una persona che non amo. Preferisco elemosinare delle momentanee parvenze d’amore come ho sempre fatto.

Anche Damon sorrise malinconico, sollevando lo sguardo verso di lui: questa volta non per dargli la semplice occhiata fine al disegno, ma per incontrare i suoi occhi. — Non avevo mai sentito nessuno parlare così. È la stessa sensazione che ho sempre provato anch’io. Intendo quello che hai detto sull’amore puro, ci vorrebbe lo splendore degli angeli per un amore puro. Le anime… non si incontrano mai. L’amore disinteressato non esiste e tutte le forme di amore sono spinte dall’egoismo: in un rapporto filiale i genitori amano i figli perché sono il sangue del loro sangue, perché vedono in loro la proiezione di se stessi, e in un rapporto di coppia spesso si resta insieme perché si ha paura. Si ha paura di rimanere soli, di avere precluse certe possibilità della vita o di sbagliare qualcosa. Ma tu… sei abbastanza sprezzante da dire che non ti accontenteresti di una storia rimediata, a costo di sfidare la solitudine. Tu sei intoccabile. Mentre io…non potrei mai farlo.

— Oh, a me invece viene quasi naturale.

— Cosa?

— Rimanere solo, —rispose con una nota di ironia. — A te non è proprio mai capitato di innamorarti veramente, anche se quest’amore era solo da parte tua?

Damon attese qualche secondo prima di ribattere: sembrava in difficoltà, nonostante quella fosse una domanda semplicissima. — Io… veramente… non credo. Non ho mai provato questo genere di amore e sinceramente non credo possa esistere.

Corey decise di non tormentarlo più con quei suoi ragionamenti contorti. Si sentiva il nodo alla gola senza una precisa ragione. Fino a poco prima egli stesso avrebbe detto: “L’amore puro, la passione… non sono che delle chimere.” Aveva forse mai avuto un esempio d’amore, lui, nella sua vita? E certamente così era stato anche per Damon. Ma nonostante non ne avesse avuto gli esempi, c’era qualcosa, nell’animo di Corey, che portava scompiglio e confusione tra le sue convinzioni.

Ora quei sentimenti che credeva inesistenti li stava provando in prima persona e gli sembrava di impazzire, come dopo aver assistito materialmente ad una teofania. A provocargli quel senso di fastidio interiore era stato quel discorso così triste di Damon sull’impossibilità dell’amore.

Avrebbe preferito che fosse stato stupido come Mandy, almeno non se ne sarebbe innamorato. Invece Damon era portato proprio alle sue stesse riflessioni, era bello come un angelo ed era un ragazzo: tutti particolari per mezzo dei quali lo aveva ammaliato. E forse, chissà, gli sarebbe piaciuto di meno se non si fosse trovato in quella comitiva come una rosa in mezzo all’erbaccia. Una simile immagine in qualche modo gli faceva paura.

Damon appoggiò la matita. — Ecco, ho finito. — Corey si avvicinò per vedere il disegno. — È soltanto una prova, devo perfezionare.

Gli sembrò di osservare una propria fotografia mai scattata. L’aveva colto in una posizione che non aveva effettivamente assunto ma che ritraeva lui, senza dubbio, ed era splendido. Il soggetto del ritratto guardava assorto, in un punto lontano, imprecisato. I suoi occhi erano così ben sfumati che quasi parevano azzurri anche dal bianco e nero. La bocca, lasciva e sensuale, leggermente socchiusa, gli dava un’aria sognante, di totale spontaneità.

Ne trapelava una bellezza struggente, esattamente quella di Corey, tanto che lui stesso, nel vederlo, rimase commosso come Narciso. I lunghi capelli, resi con sinuosa morbidezza, coronavano il viso sul lato destro, mentre sul sinistro la testa faceva leva sulla mano, in una posa spontanea.

— È venuto davvero bene! — confermò Damon soddisfatto. Corey gli espresse la propria meraviglia e si complimentò con lui nel modo più euforico che riuscisse a raggiungere. In realtà una parte di lui aveva sperato che il ritratto risultasse orribile, talmente orribile da non poterlo neanche guardare. In questo modo avrebbe forse trovato un alibi per mettersi l’anima in pace, per smettere di tormentarsi? Ora si sentiva più avvilito che mai.

— Sono molto felice di esserti stato d’aiuto, — gli disse. — Ma ora devo proprio andare.

— Come mai così presto?

“Perché il solo guardarti mi fa stare male. Ogni volta che ti vedo mi pare di perdere la facoltà di parola, mi annienti completamente. Io non so cos’è… questo tuo sfuggire evanescente dalle mie braccia, giustamente molto prima di averti preso. Tu mi sei precluso, come era giusto fosse chi veramente amo in questa mia vita intrisa di snervante solitudine”.

— Ho da fare. Devo accompagnare mia sorella da un’amica.

— Oh, capisco. Allora… se ti va, ci possiamo rivedere.

— Il disegno non lo hai già fatto?

— Sì, ma potremmo…

— Beh, vedremo, non saprei. Forse è meglio di no, tu… Anzi, magari sì. Sì, certo, ci possiamo rivedere.

— Benissimo, allora per adesso… a domani.


Anche se poteva sembrare una scusa, che doveva accompagnare Britney era la verità. — Perché stai piangendo? — gli chiese la ragazzina quando vide la lacrima che gli bagnava la guancia durante la guida.

— Perché sono uno stupido.

— Dimmi che ti è successo.

— Niente che ti riguardi.

— Tanto, peggio che a me non può andarti. Pensa che Jimmy ci ha provato con Anne.

— ‘Ci ha provato?’ Ma quanti anni credete di avere?

— Oh, non metterti a fare il moralista anche tu! — replicò lei come se avesse intuito i travagli che lo affliggevano. — Ricordi di quando ti ho detto che lei lo aveva baciato? Beh, lo aveva fatto senza lingua. Ora lui ci ha preso gusto e lo ha fatto con la lingua.

— La mia unica raccomandazione è: state attente a non rimanere incinte. Quando potrà accadere, ovviamente. Qualcuno dice che i genitori amano i propri figli; io dico che se i figli vengono a rovinargli la vita quando sono ancora bambini loro, li odiano comunque e indipendentemente.

— Mia madre non mi odia!

— A te non ti ha avuta quando era bambina.

Quando tornò a casa si era già fatto buio: Britney avrebbe dormito a casa di Kerry. Prima di attraversare il cancello gli parve di vedere una figura familiare dall’altra parte della strada. — Scott, che ci fai, lì?

— Niente. Passavo di qui. È proibito, per caso? — rispose la sagoma, parzialmente colpita dalla gelida e pallida luce del lampione.

Ci mancava solo quel gran maleducato. Corey se ne tornò in casa senza neanche salutarlo. Era come una fontana: non faceva in tempo ad asciugare le lacrime che gli veniva da piangere ancora e ancora.

Si infilò sotto la doccia con le immagini di quel pomeriggio che gli vorticavano in testa. Quanta arte, quanta fioritura celestiale di colori! Un eden profano dove avrebbe consumato da solo quel sentimento opprimente che gli bloccava il respiro. Gli tornarono in mente le controverse storie della mitologia greca che Damon aveva dipinto sulle pareti della propria camera. Erano tutte storie d’amore efebico: Narciso si innamora di se stesso e dunque necessariamente di un ragazzo, il giovinetto Ganimede era amato da Zeus, Giacinto e Ciparisso, giovinetti anche loro, da Apollo. E conosceva perfettamente l’usanza dell’omoerotismo nella Grecia antica. Damon aveva immortalato per sempre quel momento di transizione prima del passaggio all’età adulta, prima dei doveri, della moglie e di un rapporto ‘normale’. Che diavolo significava? Non era neppure certo se Damon lo avesse fatto consapevolmente o scelto tali soggetti per altre ragioni.

Per ora non poteva che rannicchiarsi nel letto e piangere, piangere, piangere fino allo sfinimento. Malediceva il mondo, malediceva se stesso e specialmente sua madre che ce lo aveva messo. Ma più di tutto malediceva le catene che lo tenevano imprigionato a quei sentimenti terreni: l’amore impossibile, la passione struggente, il compiacimento malefico, la sofferenza disperata della solitudine.

Oh, ma perché non poteva essere atarattico? E perché non poteva amarlo? Perché quello non era l’Eden che Damon amava fingere nella sua stanza, ed il mondo non era bellissimo. Era un deserto di scheletri.

Sospirò dolorosamente. Damon… Damon e la sua pelle bianca e morbida, i suoi capelli serici e fluenti, e i suoi occhi del colore del mare… Chissà che effetto sarebbe stato fare…? Ma no, non era giusto creare così presto una trasfigurazione di lui, anche se sapeva che prima o poi non avrebbe potuto fare altrimenti.

Si sentiva male. Aveva la nausea allo stomaco, ed anche se non mangiava niente era costantemente sopraffatto da un senso di pienezza interiore, pienezza nell’animo e allo stesso tempo insoddisfazione.


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Capitolo decimo
Refused love


Alison e Martin avevano cominciato a litigare come dei pazzi. Corey sentiva le urla dalla sua stanza chiusa a chiave, e Britney piangeva disperata durante le serate trascorse immancabilmente ad ascoltare le grida dei suoi genitori al piano di sotto. Le discussioni cominciavano all’ora di cena, appena uno dei due apriva bocca per rivolgere all’altro la parola, allora Corey era costretto a prendere Britney e a portarla in camera. Lei piangeva, sgambettando ed urlando impaurita, ed andava a rifugiarsi tra le braccia del fratello quattordicenne. Una sera Corey le aveva acceso allo stereo una musica dolce, che coprisse in parte la furia che imperversava nella casa e che riuscisse ad addormentarla. Allora lui andava in cima alle scale e si accovacciava sul tappeto, soffocando silenziosamente i singhiozzi.

— Ma guardati! — le gridava Martin. — A volte mi sembri quasi apatica! Ultimamente poi sei più isterica del solito, non so che ti è preso!

— Ah, sì? Io sono isterica? E allora perché mi hai sposato?

— Ero convinto che sotto quella maschera di freddezza ci fosse anche un cuore, ma, certo, nella vita si fanno tanti sbagli. Vuoi che non lo abbia capito? Tu mi hai sposato solo per i soldi!

— Ma chi ti credi di essere, stronzo? Come se prima di incontrarti fossi andata a chiedere l’elemosina in giro! Tu tenti di scaricare tutta la colpa su di me perché sai benissimo che se il nostro matrimonio va allo catafascio è tutta colpa tua! Sì, tua, ché non fai altro che stare da quei tuoi cazzo di malati tutto il giorno e magari te la fai con venti infermiere diverse. Ma a me non me ne frega più niente! Gli auguro di morire tutti a quegli imbecilli!

— Tu sei pazza!

— Certo, sono sempre io la pazza! Ma tu sei normale, che preferisci andare all’Opera o quel che cazzo era con quel ragazzino imbecille, piuttosto che stare con tua moglie?

— Oh, che vipera sei! Quale madre parlerebbe così del proprio figlio? E poi magari ti incazzi perché è malinconico e tormentato, o perché se ne sta in giro per pomeriggi interi! Come fa a non esserlo, con una madre come te? Mai che ti avessi visto, in cinque anni, ad abbracciarlo una sola volta e dirgli ‘Corey, ti voglio bene’. Ma come si fa a vivere con un tale iceberg? E io che non l’ho ascoltato quando tentava di dirmi… ― Martin si bloccò di colpo.

— Cosa? — urlò Alison in preda alla rabbia, con gli occhi venati di rosso. — Cosa ti ha detto quel piccolo serpente? Aspetta che ci indovino!

— Sei una persona orribile, non voglio stare più insieme a te!

E poi continuavano con le solite sfuriate, introducendo ogni più piccola e minuziosa ragione di litigio, ogni minimo errore dell’altro, ogni vizio più banale. Quando non litigavano non proferivano parola ed anche Martin, sebbene fosse sempre gentile ed affettuoso con lui e Britney, era divenuto più taciturno.

Corey soffriva terribilmente quando li sentiva litigare, specie se parlavano di lui. Ogni insulto che sua madre gli lanciava contro era come una coltellata in pieno petto, non faceva che accumulare il suo tacito e disperato odio nei suoi confronti. L’odio veniva dal fatto che nel suo inconscio desiderava con tutto il cuore essere amato da Alison, mentre lei non faceva che negargli il suo amore, ormai questo era chiaro. Ma non riusciva a concepirne un motivo valido. “Che le ho fatto? Che le ho fatto? Che le ho fatto?”, continuava a chiedersi.

La mattina si svegliava con la vana speranza che quel nuovo giorno avesse restituito pace alla sua vita, mentre la notte, con le sue tenebre, non faceva che sprofondare tutto, di nuovo, nel tumultuoso palpitare del caos che da mesi ormai dominava la loro casa. Spesso ritrovava Britney al suo fianco, rifugiatasi nel suo letto per alleviare un po’ la solitudine e quella paura che la spaventavano nell’oscurità. Corey avrebbe preferito mille volte dormire da solo, ma non si sentiva di negarle quel piccolo conforto come aveva fatto sua madre con lui.

Alison e Martin da tempo ormai non dormivano più insieme: lui se ne andava sul divano in soggiorno, lei restava in camera da sola. Si comportava in modo talmente passivo che sembrava le andasse benissimo che le loro litigate continuassero per tutta la vita.

Tuttavia Martin mise presto fine al lento stillicidio, preparando le pratiche di divorzio e scappando il prima possibile da quella dimora degli orrori. Naturalmente Britney restò con loro. Corey lo osservò dalla finestra della sua stanza mentre caricava le valige sull’auto, con un tremendo nodo alla gola. Martin era l’unica persona che Alison gli avesse presentato e cui lui avesse voluto bene, ed ora sua madre stessa l’aveva fatto scappare via in tronco.

— Dove va papà? — gli chiedeva Britney. — Perché parte? Va a fare una vacanza? Ma quando torna?

— No, Brit. Mamma e papà stanno divorziando, il che significa che tuo padre non abiterà più con noi. Ma tu potrai vederlo lo stesso una volta alla settimana. Almeno credo. Nostra madre è insopportabile, Brit, non so se te ne sei accorta. Se potessi, farei anch’io come lui.

Una sera, dopo una cena trascorsa a forza di convenevoli sussurrati, Corey si rivolse cinicamente ad Alison, dicendole: — Spero sarai contenta, adesso che se ne è andata anche l’unica persona che aveva avuto il coraggio di stare accanto ad un’acida isterica come te! Adesso sei sola, sola come un cane, come ti meriti di essere!

Alison alzò lo sguardo, il fuoco che le balenava negli occhi. — Che cos’hai detto? Che cos’hai detto? — sibilò, con una voce talmente stridula e innaturale che quasi gli fece paura. — Ma se è tutta colpa tua! Tua! Tu non hai fatto altro che parlargli male di me, di scagliarlo contro di me! Bene, complimenti, adesso ci sei riuscito! Credevi di poterti divertire con lui e ridere di me alle mie spalle? Povero ingenuo! Adesso come vedi ci ha abbandonato: me, te e Britney. E la colpa è anche tua, carino. Perché avrebbe dovuto andarsene, se ti avesse voluto almeno un po’ di bene?

Corey sentiva le lacrime agli occhi e con voce tremante replicò: — Come puoi anche solo pensare certe cose? È innaturale! E Britney? Ci amava, ci amava tutti, me e lei. Anche te, amava. Ti avrebbe amato, se solo non ti fossi fatta odiare così tanto!

— Tu non capisci, Corey, che da che mondo è mondo quando qualcuno ci ha lascito è stata sempre e solo colpa tua!

Alison aveva scandito le parole in modo che lui ne potesse comprendere bene l’amaro significato. Scoppiò in lacrime come un bambino.

— Vattene in camera tua, — gli gridò allora sua madre. — Non sopporto di vederti un solo istante di più.


“Vorrei saper farti vedere io… cosa sarei capace di fare… per far fuggire volontariamente i tuoi amanti. Ma tu mi odii. E siccome mi odii e non sopporti di vedermi, perché prolungare tanto la tua agonia? Ho deciso di lasciarti io per sempre.”

Questi i pensieri di Corey mentre si affliggeva disteso sul letto. Avrebbe voluto suicidarsi, ma non ne aveva il coraggio. Si alzò, illuminato dall’argentea luce lunare che filtrava dalla finestra, prese alcuni abiti dall’armadio e i suoi libri preferiti dallo scaffale e ficcò tutto alla rinfusa dentro uno zainetto. Controllò i soldi nel portafoglio e ritornò a letto senza riuscire a chiudere occhio, ma continuando a pensare e a rigirarsi tra le coperte. Non sapeva come sarebbe vissuto: non gli importava. Pur di andarsene da quella casa e da quella strega si sarebbe abbassato a tutto, anche a fare la marchetta di qualche vecchio e ricco pervertito. Non voleva vederla mai più, mai più, mai più.

Poi, verso mezzanotte, Alison entrò in camera sua e si fermò, in piedi accanto al letto. — Perché sei ancora sveglio? — chiese con voce più calma e più morbida. — A quest’ora dovresti dormire già da un pezzo. Dai, dormi, che domani devi andare a scuola, ti accompagno io. Avanti, dormi.

Se ne andò così com’era venuta.

Dormi dormi, triste bambino, finché non viene il bel mattino.
Finché non spunta l’alba sul mare, gli occhi tuoi dolci più non destare,
culla nel sonno le cure amare, pene ed ingiurie non ricordare.
Troppo è la notte scura al tuo cuore, dormi e riponi questo dolore:
tu nella strada qui abbandonato, sei di tua madre figlio dannato,
sei dei fratelli grande tormento, tutti i tuoi gridi volano al vento.
Sei la rovina della tua mamma, della sua vita l’aspra condanna.
Dormi, dormi, bel cherubino, finché non v’è grigior dal camino,
finché le stelle giaccion pacate in su del ciel le spiagge fatate:
forse la vita è torbida pena, quando sue forze cupe scatena.
Dormi dormi, triste bambino, finché non viene il bel mattino.

Corey chiuse gli occhi e nel suo pensiero si auto-addormentò con una ninnananna struggente, visto che lei non gliene aveva cantate mai.
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Citazione:
E la filastrocca alla fine... com'è bella.
Ne ho assorbito ogni parola, pensando quasi di trovare che fosse una citazione da un autore famoso...
Ti dispiace se la copio e incollo da qualche parte?
Con i dovuti credits ovviamente



Ninnananna di un angelo della morte ad un bambino abbandonato dai genitori

Dormi dormi, triste bambino,
finché non viene il bel mattino.
Finché non spunta l’alba sul mare,
gli occhi tuoi dolci più non destare.
Culla nel sonno le cure amare,
pene ed ingiurie non ricordare,
segui del cuore il lento respiro,
pensa al gioioso di giostra giro,
scosta la bionde ciocche dal viso,
resta in quest’angolo buio assiso:
qui la morte arretra i suoi occhi,
prima che l’avida freccia scocchi.
Tu nella strada qui abbandonato,
sei di tua madre figlio dannato,
sei dei fratelli grande tormento,
tutti i tuoi gridi volano al vento,
sei la rovina della tua mamma
e di tuo padre l’aspra condanna.*
Lei, congiunte mani la sera,
disse: “Dio, io son la megera
che strappato ha dalla capanna
bimbo che a ritrovarla affanna”.
Dormi, dormi, bel cherubino,
finché non v’è grigior dal camino,
finché le stelle giaccion pacate
in su del ciel le spiagge fatate:
forse la vita è torbida pena,
quando sue forze cupe scatena.
Troppo è la notte scura al tuo cuore,
dormi e riponi questo dolore,
e quando in cielo brillerà luce,
e vivrà intorno ognor nuova voce,
allor ti sarò per man nel chiarore
guida all’eterno tuo gran Creatore.
Dormi dormi, triste bambino,
finché non viene il bel mattino.

* Così è come il verso era in origine, ma poi ho dovuto adattarlo a Corey ed ho evitato la parola “padre”.

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Capitolo undicesimo
Saltness on the skin


Era già trascorso qualche giorno dal pomeriggio in cui si erano visti l’ultima volta.

Una mattina si incontrarono in corridoio, prima delle lezioni, da soli. Corey si sentì sollevato nel vedere che Lena non gli stava appresso come al solito. Damon indossava una camicia nera stretta in vita, allacciata solo sui quattro bottoni centrali, e dei jeans bianchi aderenti fino al ginocchio e leggermente più larghi in fondo, a piccoli quadretti scozzesi azzurro chiaro che Corey trovò irresistibili.

Com’era bello… Avrebbe voluto sussurrarglielo in un orecchio: “Sei bellissimo”. Ma non poteva.

— Come va? ― gli chiese Damon.

— Bene, grazie, — mentì lui. — Oggi è una giornata tranquilla.

— Io invece, — disse prendendo alcuni libri dal proprio armadietto, — ho il compito di trigonometria e non c’è niente al mondo che odii di più.

— Oh, non me ne parlare. Se fosse per me l’abolirei dalla scuola, subito dopo l’Educazione Fisica.

— Sì, a proposito, ho anche gli allenamenti di basket. Che bello! ― esclamò ironico. ― Proprio una giornata ad hoc. — A giudicare dalla faccia, a Damon la cosa non andava molto a genio.

— Perché lo fai, se non ti piace?

— Beh, sai, è mio padre che ci tiene. Lui giocava quando aveva la mia età ed è convinto che abbia la sua stessa passione. Io invece non sono per niente portato per lo sport, tanto meno per il basket.

— Allora diglielo semplicemente.

— Non ne ho il coraggio. Quando ero piccolo quasi trascurava il lavoro per impararmi a centrare il canestro. Ma tanto sicuramente il coach mi farà stare in panchina… o almeno così spero, — concluse con un sospiro. Poi lo guardò con quei suoi grandi occhi che avevano la dolcezza del miele. — Come ti senti? — gli chiese in un sussurro, quasi in tono confidenziale. — Mi sembri triste. C’è qualche problema?

— Non sono triste. Sto benissimo, — rispose Corey sul punto di scoppiare in lacrime, proprio un attimo prima del suono della campana.

— Su con la vita. — Così dicendo, per un attimo Damon gli sfiorò la guancia con la mano. — Ci vediamo dopo, va bene?

Corey si sentì morire.


All’ora di pranzo lo vide arrivare attorniato da Lena, Beverly e altri loro amici.

Corey se ne stava seduto al tavolo con uno yogurt all’amarena ed un libro di poesie, accanto a certi studenti poco popolari che lui non conosceva né che si conoscevano fra loro. Naturalmente appena si accorse di Damon le poesie di Blake persero tutta la loro attrattiva. Lo osservò scambiare due parole con Lena e poi allontanarsi dal gruppo e dirigersi dalla sua parte, allorché col volto in fiamme riabbassò lo sguardo sul libro fingendo totale disinteresse.

— Corey, vieni al tavolo con noi? — La sua voce gli parve la più soave delle melodie: aveva quasi un potere taumaturgico.

— No, grazie, meglio di no.

— Se è per Mandy, oggi non c’è.

— No, te lo dico chiaro: loro non mi piacciono.

— Capisco. — Damon si sedette di fronte a lui con movimenti eleganti.

— Come ti è andato il compito? — domandò Corey, non sapendo cos’altro dire.

— Spero bene. Stai leggendo Blake? Adoro la sua poesia sulla tigre. È la mia…

— Damon, tesoro! — lo richiamò improvvisamente Lena dall’altra parte della mensa, seduta ad un tavolo insieme agli altri. — Che stai facendo lì? Dai, vieni, altrimenti Eddie si mangerà anche il tuo pranzo!

— Per quel che me ne importa… ― replicò Damon.

— Che stavi dicendo?

— Che di Blake è la mia preferita, — rispose lui in un sussurro. — Perché esprime l’incongruenza della bellezza in un mondo selvaggio.

— Ti muovi? Non è carino farci aspettare! — esclamò di nuovo Lena.

Damon si alzò lentamente. — Non vieni proprio con noi?

— No.

— Tesoro, allora? Sei impossibile!

— Dai, vai da lei, — gli disse Corey con un nodo alla gola. “Altrimenti non la smette più di urlare”, aggiunse nella propria testa.

Quando Damon la raggiunse al tavolo, Lena gli chiese: — Siete diventati amici, per caso? Ultimamente vi ho visto spesso insieme. Ma non è un tipo un po’ strano?

— Strano in che senso?

— Beh, da quanto diceva Mandy, — aggiunse Eddie, il fidanzato di Beverly, — sembra che abbia un caratterino difficile: sta sempre sulle sue, come se gli altri fossero troppo meschini per lui, troppo borghesi. Insomma, dovrebbe essere uno che se la tira o sbaglio?

— Non sbagli, — concordò Damon con un sorriso malizioso. — Se la tira splendidamente.

— Sì, è proprio la faccia stessa della gentilezza, — affermò Lena con ironia. — Non ti ricordi come si è comportato quando Mandy ci ha presentato? Se ne è andato senza dire una parola: dimmi se questa è simpatia.

— E non parliamo di quanto è controverso! — soggiunse poi Beverly che non aveva ancora detto la sua.

— Mi sembra un tipaccio, non mi piace che lo frequenti! — gli intimò allora la fidanzata.

— A me invece piace molto, — le rispose Damon. E da tutti quella risposta fu interpretata come una piccola impertinenza nei confronti della sua ragazza.


— D’accordo, Brit. Fai conto che abbiamo una torta. La dividiamo in…

— Abbiamo una torta? Dove?

Corey tentava di spiegare il calcolo frazionale a sua sorella, ma Britney si divertiva più a fare dell’umorismo.

— Sì, lo so che la matematica fa schifo. Lascia stare, vai a giocare… I compiti te li faccio io.

— Ehi, fratellino! Pronto, c’è qualcuno lì dentro? Ti senti bene? — Britney gli appoggiò una mano sopra la fronte. — Non ci posso credere! Davvero saresti tanto pazzo da farlo?

— Sì, tanto avrai tutta la vita per imparare le frazioni, — le disse Corey svolgendo quei piccoli esercizietti allo stesso modo delle parole crociate. — Sono dell’idea che la matematica distrugga l’inventiva e la fantasia. Più tardi ti ci accosti e meglio è.

— Sì, certo, così se domani l’insegnante mi chiama, all’interrogazione ci vai tu.

— Va bene, allora vieni qui ché te le rispiego.

— No, no, ti prego. L’hai detto tu che soffoca l’inventiva! — replicò la ragazzina gesticolando graziosamente. Si risistemò il l’elastico che le raccoglieva i lunghi capelli scuri, dondolando le gambe sulla sedia.

— Ecco, ho finito. Va fatto in questo modo. — Corey le restituì il quaderno.

— Oh, grazie! Sei il fratello migliore del mondo, anche se domani dovessi essere impreparata.

— Avevi solo questo per compito?

Britney sbuffò, con aria annoiata. — No, c’è anche da studiare storia. Stiamo facendo l’epoca Napoleonica.

— Studiala bene, Brit, — le raccomandò per scherzo, per provocarla. ― Non c’è niente di meglio della storia, la letteratura, l’arte e certi filoni della filosofia per capire l’animo umano.

Naturalmente Britney trovava noiosa sia la storia che la letteratura, né riusciva a comprendere perché ci fosse tanto bisogno di ‘capire l’animo umano’, ma quando suo fratello parlava, pendeva letteralmente dalle sue labbra.

— Io salgo un attimo in camera, — disse lui. Tuttavia non fece in tempo a salire il primo gradino, che suonò il campanello. Nonostante la porta d’ingresso si trovasse accanto alla scala, Britney si catapultò ad aprire prima di lui: per i primi tre secondi Corey non riuscì a credere ai propri occhi. Tutto pensava tranne di vedere Damon davanti alla sua porta, in pieno pomeriggio e senza una ragione ben precisa.

Fu quasi una visione divina. Indossava una giacca bianca che gli arrivava al punto di vita e sembrava un vero angelo. — Ciao Corey, — lo salutò. — Spero di non disturbare.

— No! Che dici? Vieni, entra!

Damon salutò anche Britney che già aveva cominciato ad osservarlo con sguardo languido, e Corey gliela presentò. — Non mi avevi detto di avere un amico così carino! — fu lo spigliato commento della bambina. Suo fratello la mandò subito a terminare i compiti minacciandola che quella sera l’avrebbe interrogata. Si tormentava del perché di quella visita, ma chiederglielo direttamente sarebbe stato poco gentile.

— Sei duro con tua sorella, — commentò Damon scherzosamente.

— Sa che non lo faccio sul serio. Ti pare che perderei tempo ad interrogarla?

Come se avesse intuito le sue preoccupazioni, Damon gli disse: — Scusa se sono piombato qui all’improvviso o se magari ho interrotto qualcosa.

— Oh no, guarda, non avevo proprio niente da fare.

— Volevo chiederti se ti andava… non so, di fare due passi, visto che oggi non è molto freddo.

In effetti il cielo era nuvoloso, ma la temperatura abbastanza accettabile. Ad ogni modo, anche ci fossero stati dieci gradi sottozero Corey gli avrebbe ugualmente risposto: — Va bene, è una splendida idea.

— Allora perfetto. Ma la tua sorellina? C’è qualcuno che stia con lei? Se vuole può venire con noi.

— No, è abituata a stare sola in casa da quando aveva sei anni. Starà benissimo.

Corey si sentiva un po’ in colpa, ma sapeva che Britney se la sarebbe cavata anche senza di lui. Più che altro si chiedeva perché mai egli stesso desiderasse farsi del male: ogni momento che trascorreva con Damon era sofferenza e disperazione allo stato puro. Si sentiva come se mille coltelli dalle lame avvelenate gli trafiggessero le vene… Ma in fin dei conti non c’era molta differenza da quando era lontano da lui, a parte che averlo accanto gli provocava una strana ed inspiegabile esaltazione, come l’estasi di una droga, che gli dava tanto compiacimento quanto dolore.


Passeggiavano lungo la spiaggia. Il chiarore avoreo delle nuvole si rifletteva sul mare, sulla sabbia sottile di un ocra quasi perlaceo, e sui decadenti capanni deserti che in estate erano docce e spogliatoi dai colori sbiaditi, ora abbandonati e dimenticati.

Tirava vento, com’è ovvio sulla riva del mare, le onde erano agitate: un’apocalisse leggera e non sconcertante. L’acqua pareva grigio-azzurra, poco più scura degli occhi di Corey che riflettevano le superfici intorno, la luce del sole o la cupezza del cielo. Aveva le ciglia lunghe e i capelli spettinati e accarezzati dalla brezza dell’aria, come se questa volesse passarvi attraverso con le sue mani invisibili, rubare un po’ di quel rosso e donarlo ai fiori per fingere una fredda primavera.

— Oggi Lena aveva da fare?

— No, non che io sappia. Ti interessa?

— È solo che io… non capisco una cosa. Perché non hai chiesto a lei di venire con te? Perché non lo hai chiesto… non so, a qualche tuo amico? Hai sempre tante persone che ti girano intorno.

— Perché volevo stare con te. Sto benissimo insieme a te: hai i miei stessi gusti e mi ascolti se faccio discorsi senza senso.

— Tu non fai discorsi senza senso. — Per la prima volta gli parve che Damon fosse arrossito leggermente, ma forse era solo una sua impressione. Aveva delle labbra stupende, sensualmente innocenti.

Corey sollevò gli occhi al cielo. — Speriamo che non piova.

— Giusto perché dovremmo tornare a casa. Io adoro le nuvole e adoro la pioggia. Ogni scenario decadente.

— Sì, me ne sono accorto.

— Il fatto è che… ― mormorò Damon, — a Lena non piace granché camminare sulla spiaggia in inverno. Preferisce venirci d’estate quando c’è un gran sole e un grande affollamento. Così, dice, le mette tristezza perché non c’è nessuno.

Erano soli. L’unica persona che avevano incontrato era un uomo che faceva footing sulla riva col cane che gli saltellava appresso.

— A me invece piace proprio per questo, — riprese Damon. — Perché si è soli. E sinceramente preferirei un rapporto profondo con una sola persona piuttosto che tanti conoscenti qua e là di cui a malapena ci si ricorda il nome. Per alcuni filosofi in antichità, ‘tre’ era il numero perfetto. Io non ci credo. Qualsiasi numero dispari è sbagliato perché impedisce la coppia, ed in ogni caso c’è sempre qualcuno che rimane solo.

— Ti posso chiedere una cosa? Da quanto tempo tu e Lena state insieme?

— Più o meno quattro anni.

— Eravate giovanissimi, — constatò tristemente, non senza stupore. — Dovete volervi molto bene, per aver avuto tutta questa costanza.

— Praticamente ci conosciamo da sempre. Sì, beh, ci conosciamo… È un’amica d’infanzia. Le nostre famiglie sono molto unite e quindi anche noi… Vedi, mio padre e quello di Lena lavorano nello stesso studio legale e hanno frequentato la stessa scuola, le nostre mamme erano compagne di banco.

“Studio legale?”, pensò Corey. “Allora Alan Marshe è proprio suo padre!”

— Ti sto annoiando? — gli chiese Damon.

— Non chiedermi sempre se mi stai annoiando. Continua.

— Quando ci siamo messi insieme avevamo quattordici anni. Lena era l’unica tra le sue amiche a non avere il ragazzo e si sentiva un po’ esclusa. Era la sera di Capodanno e c’era una grande festa. L’avevo vista triste e quando le ho chiesto che cosa avesse, mi è scoppiata a piangere tra le braccia.

— Non dirmi che vi siete fidanzati solo per questo!

— No. Tanto prima o poi sarebbe successo comunque. Le nostre famiglie tanto vicine, noi che siamo cresciuti insieme. Era una cosa che stava nell’aria come scritta nel cielo: tutti aspettavano semplicemente che lo facessimo. I nostri genitori ne furono felicissimi e non ci hanno mai ostacolato. Solo le stesse parole di rito, sai… Il padre di Lena scherzando mi diceva: ‘Guai a te se fai soffrire la mia bambina!’ ― Damon sospirò quasi impercettibilmente. Aveva lo sguardo malinconico, perso nel vuoto, in un punto imprecisato verso l’orizzonte. — Hai freddo?

— No, — rispose Corey. — E tu?

— No.

Erano le cinque spassate, già cominciava a farsi buio. Le nuvole si stavano diradando, quasi volessero scampare il pericolo che un raggio di sole illuminasse la terra. Continuarono a camminare per qualche metro, l’uno accanto all’altro, accompagnati dal respiro ruggente del mare, dalla sua forza prorompente, dalla sua schiuma bianca. C’era alta marea. Si fermarono accanto a degli scogli e vi si sedettero vicini. In effetti entrambi avevano un po’ freddo, ma nessuno dei due voleva tornare.

Le onde si infrangevano contro la scogliera grigia e levigata. Damon raccolse una conchiglia violacea a forma di spirale. — Ti dispiace, ― mormorò, — se appoggio la testa sulla tua spalla? Se è un problema, dimmelo.

Corey si sentì avvampare. — Perché mai dovrebbe essere un problema? Fai pure.

Damon gli si appoggiò alla spalla proprio come una ragazza avrebbe fatto con un fidanzato. — Forse ti sembro strano, ― gli disse, poco più che in un sussurro. — Non credo ci sia niente di male nell’abbracciarsi. Tra amici i ragazzi non esternano mai espressioni d’affetto più grandi di una stretta di mano perché le convenzioni non glielo permettono. Per me è stupido. È stupido negare un abbraccio perché si ha paura… non so. Forse i miei discorsi ti spaventano.

L’atmosfera era strana, inquietante. Non si guardavano negli occhi perché i loro sguardi erano persi verso l’infinità del mare, la luce scompariva a poco a poco e c’era nell’aria qualcosa di onirico e narcotizzante, che lasciava dire cose che, in normali condizioni di luce e di lucidità, se ne sarebbero restate nei recessi della mente.

Corey sentiva di amarlo più di chiunque altro e dopo quelle parole non trovò fuori luogo neppure confessargli: — Non ho mai conosciuto qualcuno dolce come te.

Sì, indubbiamente c’era qualche droga portata dal vento, una miscela soporifera. Sentire il calore del suo corpo sul braccio destro, la morbidezza dei suoi capelli accanto a lui gli faceva battere il cuore all’impazzata. Le braccia, con le mani appoggiate allo scoglio, gli tremavano curiosamente.

— Lo stesso è per me. Sei molto meglio di… ― Damon lasciò la frase a metà per indicargli qualcosa nel cielo. — Guarda, stanno uscendo le prime stelle. Si è fatto più sereno.

La parte libera di cielo era di un azzurro quasi zaffirino, ornato da una corolla di nuvole più chiare intorno. Era appena il crepuscolo: all’orizzonte il sole si era perso nel viola.

— Raccontami di come ti è venuta la passione per la pittura, — gli chiese Corey.

— Pensi ci sia una storia interessante per questo? Un evento determinante?

— C’è stato?

— Sì. Ma credo di essermi appassionato all’arte anche prima di esso, dacché sono nato. Quando avevo tredici anni mio padre mi portò ad una mostra di arte pittorica rinascimentale. Lui avrebbe preferito una partita di basket, a cui poi assistemmo ugualmente, ma per quella volta fece scegliere me e ne rimasi estasiato. Mi chiesi, davanti alle lunghe ali multicolori degli angeli, se non fossero troppo belle perché guardandole si provasse dolore alcuno per le sofferenze del mondo. Tutto passava in secondo piano davanti a quella perfezione commovente.

«Le Madonne avevano il viso che era un ovale perfetto ed il rosso ed il blu ornato d’oro delle loro vesti era così vivido che pareva quasi impresso sulla tavola da un intelletto non umano. Per poco non mi misi a piangere. Era tutto così bello e così armonico! La bontà e l’amore stavano negli occhi azzurri degli angeli musicanti che suonavano il liuto con le loro lunghe dita rosee, così perfettamente modellate, e nelle vesti sgargianti che ricadevano diafane sulle membra dei loro corpi.

«Lì vidi tutto ciò che c’era di giusto e perfetto nell’animo umano. “Se l’uomo è in grado di creare simili meraviglie”, pensavo, “allora nel suo animo deve per forza esserci qualcosa di buono, che va al di là di tutti i suoi possibili difetti. L’uomo fa la guerra, uccide e compie delle stragi immani e allo stesso tempo è in grado di creare questi miracoli.”

«Attraversavo un periodo di totale pessimismo, ma quel giorno compresi che l’arte… l’arte era l’unica cosa per cui valesse la pena di vivere. I popoli potevano distruggersi tra loro… i regni, andare in rovina. L’importante era che non andassero distrutte le opere del Louvre. Ecco tutto.»

Se avesse potuto agire d’istinto, Corey lo avrebbe abbracciato, stretto fortissimo, e baciato sulle sue splendide labbra. Ma non poteva farlo: lo avrebbe sconvolto, indipendentemente dalle parole che gli aveva detto poc’anzi.

Certo era che Damon non era il tipo di ragazzo che credeva. Aveva delle idee molto particolari, diverse da quelle che ci aspettava di trovare in un ragazzo comune. Rifletteva su cose delle quali non sempre un diciottenne si chiede il senso. E, cosa ancora più strana, cercava la sua compagnia. Fino ad allora chiunque avesse avuto un qualsiasi rapporto con Corey lo aveva fatto per ragioni diverse dall’empatia intellettuale. O perché allettato dal suo aspetto fisico, o semplicemente per il sesso, che era comunque una conseguenza della sua bellezza esteriore, come avevano fatto Mandy e tutti gli amanti che aveva avuto.

D’altronde chi mai avrebbe voluto congiungersi con un’anima disturbata come la sua, che non pensava ad altro che a flagelli, stermini, tormenti e sacrifici? Il corpo, invece, quello sì che piaceva a tutti: attirava come il miele gli insetti, come i fiori le api. Più di una volta era stato definito sfacciatamente fuckeble(1), ma quando si trattava di comprendere i suoi pensieri tutti fuggivano a gambe levate.

Qualcosa in Damon, invece, sembrava dirgli che egli li comprendesse perfettamente, ed era per questo che gli si stava affezionando oltre misura.

Alle sette di sera si trovavano ancora lì sulla spiaggia. Da quando l’aere era rasserenato si erano distesi sulla sabbia a guardare le stelle. In quella parte della città le luci giungevano tenui, perciò se ne potevano ammirare in gran quantità. Si spalancava davanti a loro l’immensa volta celeste ormai interamente calata nelle tenebre, cullata dalle onde e dalla salsedine, fiorita di stelle, fioche e luminose, dalla luce quasi intermittente. Erano quanto di più bello ed eterno potessero ammirare, sebbene neppure quelle, nella loro immensa esistenza, fossero immortali.

Entrambi avevano i capelli leggermente più riccioluti a causa dell’aria salmastra. Corey trovava i capelli ondulati infinitamente più belli di quelli lisci e difficili da rappresentare: qualcosa di più elaborato. Certo i capelli di Lena non si sarebbero smossi di una virgola.

Stavano quasi appiccicati perché l’aria si era raffreddata notevolmente. Corey gli aveva spiegato perché non condivideva la sua teoria sull’amore filiale: era convinto che sua madre non gli volesse bene e non c’era modo di smuoverlo da quell’idea. Quando non gli andò più di parlarne desistettero dall’argomento. Cominciarono a scherzare, a chiacchierare dei loro piccoli vizi e delle fissazioni comuni, delle relazioni che avevano avuto fino a quel momento.

— Sono stato solamente con lei, nella mia vita… te lo dico sinceramente: non ho mai avuto nessun’altra storia, neanche qualche cottarella prima dei quattordici anni.

— Neanche mai un tradimento? Non lo direi a nessuno.

— No, non sono mai stato innamorato.

— Neanche di Lena?

C’era ancora quell’atmosfera narcotica, anzi, si era intensificata. Parlavano piano, quasi sussurrando, senza ricordare di essere già passati attraverso una conversazione simile.

— Dai, non fare domande oziose…

— Non è una domanda oziosa.

— La tua prima volta?

Corey arrossì di colpo, rimanendo quasi di sasso.

— Scusa, ― gli disse subito Damon, alzandosi appoggiato sui gomiti. — Ti ho messo in imbarazzo. Non so che mi è preso, di solito non faccio domande di questo genere. Non devi rispondermi.

Corey si tirò su a sedere a gambe incrociate. — No, te lo dico. Ma prima dimmelo tu.

— Avevo diciassette anni. Con Lena, ovviamente. Nella mia camera, una sera che i nostri genitori festeggiavano… non ricordo, una causa andata bene o qualcosa del genere.

— Io invece a quattordici, nel letto di mia madre, — concluse così, laconicamente, senza dirgli con chi. E Damon, che si era sentito in colpa anche per una domanda tanto semplice, ovviamente non ebbe il coraggio di insistere oltre.


Quando Corey tornò a casa, riaccompagnato in auto dal suo amico, l’orologio segnava quasi le otto di sera. Sua madre stava miracolosamente ai fornelli e Britney guardava uno stupido talk-show alla televisione. Lei l’avrebbe interrogata volentieri, se avesse avuto le conoscenze adatte per farlo.

Alison mescolava qualcosa in una pentola, si muoveva a scatti e nervosamente come al suo solito, con velocità, ed una certa dose di violenza. I capelli, legati alla meglio con una coda bassa, le sbattevano a sbalzi sulla schiena sottile. — Ti sembra questa l’ora di tornare? — lo aggredì appena lo vide. — Ma dove diavolo sei stato? Spero che tu abbia avuto da fare qualcosa di veramente importante, per lasciare sola tua sorella!

— Mamma, ma io sto benissimo da sola.

— ‘Sta zitta! — le intimò Alison. — E tu, — si rivolse a Corey, — quando ti dico che devi stare a casa, devi obbedire! Mi sono spiegata? E non voglio sentire scuse! Devi smetterla di fare sempre di testa tua: è ora di prenderti qualche responsabilità. La vita non è tutta rose e fiori, non c’è sempre tua madre dietro a mettere a posto i tuoi casini!

— Allora, — replicò Corey sarcastico, — se questo dovesse accadere, non me ne accorgerei neanche. Dimmi quando mai ci sei stata!

— Brutto impertinente che non sei altro! E ti permetti pure di rispondermi in questo modo, a me che non faccio che lavorare tutto il giorno per voi due! Non sei altro che uno sfaccendato e fai sempre e solo quello che ti pare. Che avrò fatto di male, per avere un figlio come te? Lui se ne va in giro, invece di studiare! Tanto più che quest’hanno hai anche gli esami di stato!

— Di questo non ti puoi lamentare, mamma, — intervenne Britney. — Lui è bravissimo e sa sempre tutto!

Ormai a Corey non importava neanche più di difendersi, davanti a lei. Si era scordato della cattiveria di sua madre, dopo che Damon era stato così dolce e gentile con lui. Damon era l’unica persona di cui gli importasse al mondo.

Dopo l’affermazione di Britney, Alison era rimasta azzerata. Si riscosse solo quando, un attimo dopo, si accorse che la poltiglia nella pentola era sul punto di bruciarsi.

Durante la cena, mentre sua madre farneticava, Corey progettava di andarsene di casa il prima possibile.

- Continua -

Nota:
1) Fuckeble è un termine non troppo raffinato dello slang inglese, che in italiano potrebbe tradursi, in un’unica parola, “scopabile”. Comunque sta ad indicare qualcuno di sexy, che suscita facilmente degli istinti erotici.
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Da questo capitolo comincia lo yaoi U_U
Questo in particolare è bello per la narrazione,ma quanto a ciò che ne contiene è cinico,crudele e autolesionistico,per tratti fa quasi pietà......ma mi piace





Capitolo dodicesimo
Childish revenge


Quindici anni non ancora compiuti. Corey Jones se ne stava nel giardino di casa in piena estate, autenticamente vestito da marchetta. Un po’ era a causa del caldo, un po’ per il fatto che sentiva di doverlo fare. D’altronde aveva delle gambe splendide, dritte e longilinee, e perfettamente lisce, che quel giorno facevano bella mostra di sé. Indossava dei jeans brutalmente strappati da lui stesso a metà coscia, forse anche più in su, che aveva comprato tre anni prima ed ancora gli stavano bene, aderentissimi da ogni parte. Sopra si era buttato addosso una camicia bianca senza maniche, quasi trasparente e completamente slacciata sul petto. Era volutamente ancora più androgino del solito e spaventosamente perverso, quasi effondesse lascivia pura con la semplice aria che spostava.

Nonostante il caldo, aveva lasciato i capelli scendergli sul viso. I capelli erano un particolare sensuale (per questo la moda maschile li imponeva corti), per questo lui se ne compiaceva. Teneva sulle labbra quel burrocacao alla fragola che sua madre detestava. Tanto a lei non piaceva mai niente di ciò che lo riguardasse, quindi non aveva nulla da perdere in nessuna occasione. Sapeva bene che lassù, alla finestra, c’era qualcuno che lo osservava.

Sua madre si era fidanzata con Steven da qualche settimana. Non erano passati neanche tre mesi da quando Martin se ne era andato.

Steven era un ragazzotto di ventitré anni, alto all’incirca uno e ottanta, bruno, mediamente atletico e di bella presenza. A Corey non piaceva molto. Lo aveva conosciuto un giorno a colazione dopo che aveva passato la notte con sua madre. In quell’occasione Alison se ne stava in camera a vestirsi mentre Corey, indossando solo una lunga T-shirt bianca che a malapena gli copriva le mutande, si era appena alzato per andare in bagno e ci aveva trovato dentro Steven appena uscito dalla doccia. Naturalmente era abituato a sorprendere certi sconosciuti in giro per casa: Alison aveva riacquistato le abitudini di un tempo.

Il ragazzo studiava Ingegneria all’università, ma era rimasto indietro con gli esami e la materia non lo entusiasmava granché. Abitava in un appartamento da solo, mantenuto dai genitori fiduciosi nella sua buona volontà e nei risultati universitari: due cose entrambe pressoché nulle.

Mentre Britney dormiva nella propria stanza, Corey si divertiva ad ascoltare i rumori che provenivano dalla camera dei due amanti: sospiri e gemiti piuttosto squallidi, a dire il vero, ma forse solo perché riflettevano il tipo di rapporto che c’era tra loro, basato unicamente sul sesso. In effetti si vedevano giusto di notte ed era solo in quelle ore che ogni tanto si scambiavano qualche parola, magari per ingannare il tempo che serviva a Steven per ricaricarsi dopo un orgasmo e procedere con quello successivo. Sotto l’effetto dell’alcol (e forse anche di qualche dose di droga leggera), erano in grado di instaurare discorsi del tutto perversi, da adolescenti quali erano ancora le loro menti, confidandosi con voce bassa e roca le loro più spinte fantasie sessuali, le più inconfessabili esperienze.

— Sì… ― mormorava Steven con voce assonnata, spiaccicato prono sulle lenzuola, rispondendo ad una sollecitazione di Alison, — …l’ho fatto qualche volta, quando ero ragazzo… con un mio compagno… gliel’ho fatto godere tutto, a quel frocetto.

Corey ascoltava divertito fuori dalla porta. Di fronte a dichiarazioni del genere sua madre si metteva a ridere, senza immaginare cosa l’aspettasse.

Quando Steven era in casa, Corey se ne andava in giro mezzo svestito. In realtà l’idea non gli era venuta proprio nel momento in cui l’aveva sentito parlare del suo rapporto omosessuale durante l’adolescenza, ma quando effettivamente aveva sentito gli occhi del giovane su di sé, e non era un caso. Che Steven si ritenesse normale o bisex a questo punto non faceva molta differenza, dato il tipo di ragazzo che era Corey. Tanto più era disinibito: non faceva nulla per mascherare gli sguardi di ammirazione che gli lanciava, e talvolta sembrava accorgersene persino Alison, anche se restava zitta, facendo finta di niente.

Quella mattina se ne era andata al lavoro senza svegliare Steven, dopo la loro lunga notte di follie. Lui in realtà avrebbe avuto una lezione alle nove di mattina, ma era da un po’ di giorni che aveva smesso di frequentare l’università, senza ovviamente farlo presente ai genitori che continuavano a sborsargli il loro solito assegno mensile.

Corey se ne stava in giardino fingendo di leggere, ed osservando invece il suo ammiratore alla finestra più sopra. Di scatto richiuse il libro e si precipitò con passo deciso all’interno della casa ed al piano superiore, per comparire infine sulla soglia della stanza dove, ancora in mutande, Steven se ne stava seduto accanto alla finestra.

— Di’ un po’, — si sentì apostrofare, — ti sembra quello il modo di andare vestito?

— È che oggi… fa davvero molto caldo. Che stavi facendo?

— Nulla. Mi sto per vestire, non vedi? — Steven si alzò in piedi. Era circa una spanna più alto di lui. Corey gli si avvicinò lentamente, fino ad arrivare a tre centimetri dal suo viso, guardandolo intensamente negli occhi. Quel ragazzino era sfacciatamente irresistibile da ogni punto di vista. Si alzò sulla punta dei piedi ed accorciò la distanza tra le loro labbra, tentando di baciarlo sulla bocca.

Steven, respirando profondamente, si divincolò da una stretta che era inesistente, allontanandosi di qualche passo. — Che diavolo tenti di fare?

— Oh, su… ― sussurrò Corey, — non dirmi che non ci hai mai pensato.

— Non ti sta bene comportarti così da troietta, carino. Sei così giovane e già così deciso?

Corey compì di nuovo qualche passo verso di lui. — Che male ci sarebbe, se…? Mi trovi poi così orribile?

— Tutt’altro… Ma io vado solo con le donne.

— Oh. E non credi che io sia più bello di una qualunque ragazza tu possa incontrare in giro? Mi sto mettendo totalmente a tua disposizione. Avanti… non mi dire che in questa casa non provi più attrazione per me che per mia madre…

Oh sì, pensava Steven, lui era decisamente più bello di Alison… ma era un ragazzino. Un ragazzino incredibilmente provocante che gli stava vicinissimo, a due centimetri dal viso, ed aveva due labbra che sembravano fatte del petalo di una rosa.
Corey gli appoggiò le lunghe mani affusolate sulle spalle nude, con tocco di piuma. — Sono un ragazzo, è vero. Ma… non ti va di fare un’esperienza nuova? Qualcosa di mai provato?
Steven tentò di far notare il meno possibile i sospiri provocati dal carezzevole massaggio di Corey sulla schiena. Era inconsulto, ma stava quasi per avere un’erezione. — Veramente, ― mormorò, — non sarebbe la prima volta. Ma tu che fai, stai cercando di incastrarmi? Poi lo denunceresti a tua madre come pedofilia o roba del genere… non mi fido.

Intanto Corey aveva fatto scivolare, lentamente, una mano fino al pene di Steven, in basso, e aveva preso ad accarezzarglielo con esasperante delicatezza. Non aveva mai fatto una cosa del genere in vita sua. Il cuore gli batteva all’impazzata, sebbene non provasse il minimo sentimento d’amore. Gli sorrise. — Non ti fidi? Vorrà dire che ti farò un attestato scritto… di consenso. — Detto questo, gli si appiccicò al collo, leccando e succhiando. All’orecchio gli sussurrò: — Non sei ancora stanco di farti desiderare?

Steven gli afferrò la nuca con la mano per accostargli la testa al proprio viso ed appiccicò le labbra alle sue, con foga, infilandogli la lingua in bocca. Con la mano destra gli sollevò la gamba al ginocchio avvolgendosela intorno alla sua, poi la lasciò andare e gli fece scivolare di dosso la camicia, che ricadde a terra. Continuando a baciarlo sul viso e sul collo, lo spinse con decisione sul letto ancora sfatto. Mentre Steven gli slacciava i jeans, Corey gli tolse definitivamente le mutande afferrandogli il membro in tutta la sua erezione.

Nonostante da fuori sembrasse davvero un ragazzino famelico e assetato di sesso, dentro di sé desiderava bloccare tutto e fuggire via; ma l’odio che provava per sua madre era più forte di qualsiasi altro sentimento popolasse il suo cuore, e non gli importava quale fosse il prezzo da pagare per attuare appieno la sua vendetta.
Stavano in trasversale sul letto: Corey aveva la testa appoggiata sopra il cuscino di sua madre, Steven sembrava volerselo mangiare da un momento all’altro, tanto si muoveva lussuriosamente sopra di lui e baciava, succhiava la sua pelle quasi avesse voluto inglobarla nel suo corpo. Gli appoggiò una mano sulla guancia e sul collo: a Corey piaceva quella sensazione, perché la mano era fresca e gli sembrava una benda ghiacciata su una fronte febbricitante. Gli scivolò sul collo, sulla spalla e sul braccio, fin quando si accorse che Steven gli stringeva con le mani entrambi i polsi schiacciandoli contro il lenzuolo. Lo faceva fin troppo forte, quasi da provocargli dolore. — Adesso ti ho in pugno e non mi puoi più sfuggire, — gli disse, a mo’ di provocazione. — Non era questo che volevi?

Oh, come avrebbe voluto… come avrebbe voluto che sua madre fosse entrata proprio in quell’istante, da quella porta semiaperta! Quale sarebbe stata la sua reazione? Ci sarebbe mai stata la più remota possibilità che si indignasse per ciò che stava succedendo a suo figlio piuttosto che preoccuparsi dell’amante infedele? Certo sarebbe andata su tutte le furie per quel ‘tradimento in famiglia’ che le aveva riservato Steven. E ci avrebbe sofferto, eccome se ci avrebbe sofferto! Non è bello vedere il proprio fidanzato che ti tradisce con una persona che odii.

— Bene, ― mormorò Corey. — Allora fammi vedere che altro sai fare!

— Non ti stanchi proprio mai, troietta… ― insinuò allora Steven lasciandogli i polsi e fiondandosi sulle sue cosce, che accarezzò avvolgendosele intorno alla vita. Poi, con le mani sulle sue natiche, gli avvicinò il bacino il più possibile a sé e lo baciò rudemente in bocca. — Vediamo se ti faccio contento.

Corey aveva il respiro affannoso. Si sentì afferrare il pene da Steven come egli stesso aveva fatto prima col suo, ed una miriade di scintille si dilagarono in tutto il suo corpo. Dopo di che, sentì il colpo tremendo del pene di Steven che con una prima e decisa spinta cominciò a penetrarlo, facendosi largo. L’intero corpo di Steven sprigionava veemenza, pareva solido come una roccia, impossibile da sopraffare o scansare. Sulle prime Corey fu colto dal panico e lanciò un piccolo urlo. Con tutta la forza che in quel momento credeva di possedere, fece leva sulle mani contro le braccia dell’altro per tentare del allontanarlo da sé. — Lasciami… lasciami! ― lo supplicò, con una smorfia di dolore sul viso. — Mi stai facendo male… ti prego, vattene!

Steven gli appoggiò una mano sulla bocca, in un gioco erotico che almeno a lui doveva piacere molto. Così rimasero per un attimo nella sua visuale solo quei divini e vitrei occhi azzurri come il cielo di un’alba, impauriti e luccicanti di lacrime. — Ssssshhh…. L’hai voluto tu, ricordi? Non ti preoccupare. Non fare così. È spiacevole solo all’inizio, dopo andrà meglio. Rilassati, non essere teso. — Detto questo, Steven accentuò le carezze sul membro di Corey, togliendo la mano dalla sua bocca e coprendola invece con la propria, in un bacio profondo e carnale che racchiuse ogni gemito e sospiro del ragazzino.

Mentre l’uomo continuava a spingere (ed era come sentirsi autenticamente impalare e spezzare in due) con sempre maggiore potenza, Corey continuò incontrollatamente a gemere e piangere, giacché le lacrime sgorgavano dai suoi occhi come dotate di vita propria, ma si proibì categoricamente di supplicarlo di allontanarsi: aveva già troppo sbagliato a lasciarsi andare la prima volta.

Con spinte sempre più accentuate, Steven si infilò interamente. L’unica cosa che Corey tentava di immaginarsi era quanto potesse essere lungo in erezione, perché oramai gli sembrava di averlo completamente dentro di sé e non riusciva a pensare al punto preciso in cui fosse arrivato. Gli sembrava qualcosa di allucinante ed ineffabilmente oscuro e perverso, e per questo allettante.

Ebbene, anche se gli stava facendo così male, trovava qualcosa di affascinante in quell’atto sessuale che non gli aveva lasciato respiro alcuno: ansimava tanto velocemente che quasi non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile innescare un tipo di respiro tanto diverso senza aver fatto prima neppure una corsa. Era inevitabile il fascino del proibito, prima o poi era ovvio che anch’egli vi fosse caduto, in quelle trappole peccaminose dai sospiri ambigui.

Steven, tenendo in mano il suo pene, lo muoveva con lo stesso ritmo del proprio, che aveva cominciato a far scivolare fuori e dentro di lui, facendolo uscire molto lentamente e reintroducendolo tutto ad un colpo, in una sola spinta. Dapprima il ritmo fu pacato per permettere a Corey di adattarsi alle nuove sensazioni, fino a quando tutta l’eccitazione accumulata non prese il sopravvento sul dolore fisico. Era inebriato dall’avvertire su di sé entrambe le pulsazioni dei due organi: il proprio tra le mani di Steven, e quello del suo amante che si muoveva ininterrottamente poco più sotto.

Il ritmo si intensificò, le spinte divennero più frequenti. Steven pareva in estasi: anche il suo sguardo era cambiato, sembrava quasi vuoto, come rapito in una visione ultraterrena. D’improvviso Corey sentì un fiotto di calore incredibile irradiarsi dentro di sé, lo sperma caldo che usciva a spruzzi intermittenti fino all’ultimo, più intenso e prolungato. Quel fremito incontenibile non impiegò molto per esercitare lo stesso effetto su di lui, che sperimentò poco dopo il più forte orgasmo che avesse mai provato fino ad allora.

Per un attimo l’unione con Steven gli parve assolutamente indissolubile. Per un attimo gli parve quasi di volergli un po’ di bene, anche se solo pochi minuti prima avrebbe voluto picchiarlo a sangue. “Oh, se solo… se solo potessi amarlo almeno un pochino!” Ma era impossibile trovare qualcuno da amare. Perciò, in fin dei conti che differenza faceva sprecare la propria verginità con lui o con qualcun altro?

Subito dopo si ritrovò assolutamente come prima, di nuovo a sé stante, staccato da quella persona né più né meno di come lo era stato prima.

Con la mano bagnata di sperma, Steven ritirò il proprio membro, si sollevò e si allontanò da lui sdraiandosi al suo fianco. Corey restò nella medesima posizione ancora per alcuni secondi, ansimando con le gambe divaricate e le ginocchia piegate. Ora che era tutto finito cominciò a tornargli addosso un certo senso di fastidio, e sentiva alquanto dolorante quella parte che era stata penetrata un attimo prima.

Quando gli prese freddo tirò su di sé il lenzuolo, voltandosi su un fianco dalla parte del muro, e chiuse gli occhi. Si sentiva stanco, anche se erano appena le nove di mattina. Tra il dormiveglia sentì Steven che si alzava dal letto e si rivestiva. Quando ebbe finito si chinò su di lui e sussurrò: — Ora devo andare. Ci vediamo questa sera, troietta. — Quindi, senza che Corey lo degnasse del minimo sguardo o saluto, gli diede un bacio sulla bocca. — Oh, — aggiunse, — naturalmente tua madre non deve sapere niente di questo.

— Non preoccuparti. Io non glielo dirò di certo, — rispose lui.

“Certamente arriverà il giorno in cui sarà semplicemente il suo intuito a rivelarglielo”.

- Continua -

Corey vestito da marchetta è troppo sbav

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